di Alberto Argenton
L’affermazione che dà il titolo a questo mio contributo è citata da Paolo Bozzi nel capitolo intitolato Qualità terziarie della sua Fisica
in-genua: «Una volta lo psicologo praghese Max Wertheimer (ma non so
né dove né quando) ha detto (o scritto): “Il nero è lugubre prima an-cora di essere nero”». Bozzi, che in questo capitolo tratta delle qualità espressive – chiamate anche, come si sa, qualità terziarie – così prose-gue: «Le qualità terziarie sono prepotentemente presenti nei pezzi di mondo con cui abbiamo a che fare, anche se non è molto facile defi-nire la loro natura e trovare i loro supporti. Se il nero è lugubre, il rosso è vivace. L’ombra di un grande albero verde è riposante e di-stensiva. Un accordo di settima diminuita è raggricciante e teso. Un gesto lento e ascendente è ieratico. [...] Le qualità terziarie vanno dalla rozza eccitazione sessuale messa in atto da un’abile pornografia all’ae-reo verso di Morgestern: Die Möwen sehen alle aus, als ob sie Emma
hiessen» (P. Bozzi, 1990, pp. 100-01) 1.
Questo brano, con i suoi esempi e le sue citazioni, mi pare costitui-sca una buona introduzione al complesso tema dell’espressione, che è l’oggetto del mio contributo e di cui qui di seguito cercherò di mettere in evidenza alcuni aspetti rilevanti ai fini di un suo inquadramento, certamente parziale e riduttivo, visti anche gli ovvi limiti di spazio con-sentiti a questo testo. Nel fare ciò, il riferimento principale sarà l’opera di Rudolf Arnheim, che allo studio della psicologia dell’espressione ha dato un apporto fondamentale. Arnheim, infatti, pone l’espressione tra i punti nodali della propria teoria psicologica e ne scrive diffusamen-te sia in alcune opere monografiche sia in numerosi saggi 2, sostenendo la tesi che «l’espressione sia il contenuto principale della percezione» (R. Arnheim, 1966a, p. 80), argomentandola ed esemplificandola in va-rio modo e dandone un’ipotetica interpretazione in termini processuali.
Lo studio dell’espressione in Psicologia
Prima di entrare nel merito del nostro tema, va notato che Arn-heim è l’unico psicologo che si occupa estesamente e compiutamente
di espressione e ciò per ragioni alle quali mi pare opportuno far cenno. Da un lato, essendo oggetto del suo interesse precipuo lo studio della percezione visiva e, più in generale, del funzionamento della men-te, della cognizione, e avendo egli scelto a questo fine come terreno d’indagine il mondo dell’arte, è ovvio, o “naturale”, che si sia presto imbattuto e abbia dovuto affrontare il tema dell’espressività, che del fenomeno artistico costituisce uno degli aspetti salienti. Dall’altro, però, tale scelta non giustifica di per se stessa il suo esser solitario protago-nista in questo ambito d’indagine, dal momento che, come cercherò di mettere in luce più avanti, le proprietà espressive hanno «primato ge-netico e fenomenico» (W. Metzger, 1963, pp. 84-86) nella nostra espe-rienza del mondo.
Per comprendere i motivi della quasi totale assenza di studi sul-l’espressione, ci si può rifare a una rapida considerazione che al riguar-do fa lo stesso Arnheim, in una conversazione avuta con Lucia Pizzo Russo (1983, p. 16): «Lo studio dell’arte mi ha fatto capire certi mec-canismi percettivi prima ignoti. Per esempio l’espressione dinamica, condizione necessaria della percezione artistica, che non è contemplata nella teoria ufficiale della percezione, vuoi perché entità non misura-bile, vuoi perché considerata epifenomeno trascurabile».
L’emarginazione dell’espressione dagli studi psicologici e la loro inadeguatezza a confronto della sua importanza erano state denunciate già molti anni prima ancora da Arnheim (1966b, p. 243): «L’espressio-ne è rimasta, in psicologia, straniera. [...] L’espressio«L’espressio-ne vie«L’espressio-ne o comple-tamente trascurata, o trattata come una manifestazione esterna della mente del tutto distaccata da essa, un lusso del comportamento, utile diagnosticamente ma totalmente avulso dallo sforzo che una persona o un animale compiono per realizzare qualche cosa. Coerentemente con questo atteggiamento, gli psicologi sperimentali hanno in genere limi-tato i propri studi sull’espressione a materiale prodotto artificialmente: espressioni facciali e gesti stereotipi eseguiti da attori, disegni lineari schematici, ecc. Anche qui, l’espressione è isolata rispetto al contesto». Non si può dire che ai nostri giorni la denuncia e i rilievi critici di Arnheim abbiano perso di attualità. Certo, al comportamentismo si è sostituito l’ormai imperante cognitivismo, il quale ha prodotto nella psicologia un rinnovamento di ampia portata, con una rifocalizzazio-ne dell’interesse di studio per i processi interni o mentali 3 e con la promozione di un’intensa «liberalizzazione metodologica» (R. Luccio, 1982, p. 23), ma di fatto l’espressione continua a essere, in psicologia, «straniera».
E non solo l’espressione, ma con essa gran parte di ciò che ha a che fare con la nostra esperienza diretta – con il «mondo della qualità e della percezione sensibile» (A. Koyré, 1965, p. 22), vale a dire con l’intuizione, la fantasia, l’affetto, l’immaginazione 4 – che, assieme alla
tanto perlustrata sfera logico-razionale e a quella emotiva e motivazio-nale, costituisce il fondamento dell’attività cognitiva.
Vi sono spiegazioni di carattere epistemologico, a loro volta inter-pretabili in chiave sociale e politica, che rendono conto di questa mas-siccia esclusione. L. Pizzo Russo (1997, p. 80) nota che «per affermar-si, la scienza moderna ha dovuto screditare l’esperienza diretta», e cita in proposito queste considerazioni di Stefan Amsterdamski (1981, p. 548): «Dal mondo degli oggetti direttamente accessibili ai sensi, la scienza si trasferisce progressivamente in un mondo di oggetti astrat-ti che si muovono in un astratto spazio geometrico retto da leggi uni-versali. Il mondo delle qualità sensibili immediatamente accessibili alla conoscenza viene sostituito da un mondo di grandezze, forme e rap-porti, da un mondo suscettibile di misurazione. Ciò che per secoli era stato considerato un autorevole criterio di verità – la conoscenza diret-ta – viene ora giudicato fallace».
Detto in altri termini, la scienza moderna ha abbattuto «le barrie-re che separavano cielo e terra unificando l’universo. […] Ma essa ef-fettuò questa unificazione sostituendo al nostro mondo della qualità e della percezione sensibile – il mondo che è teatro della nostra vita, delle nostre passioni, della nostra morte – un altro mondo, il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale, sebbene ci sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo» (A. Koyré, 1965, pp. 22-23). Lungi dal voler avanzare dubbi sulla validità euristica ed epistemica del metodo quantitativo e sperimentale, ciò che sto cercando di met-tere in risalto è la necessità di affrontare «di nuovo le grandi questioni della psicologia, che vertono sulla natura della mente e sui suoi pro-cessi, su come l’uomo costruisce i suoi significati e le sue realtà», e ciò a dispetto «di quella che Gordon Allport chiamava la “metodolatria”» e «del costume dominante (i “piccoli studi accurati”)» (J. S. Bruner, 1990, p. 15).
E l’espressione è una delle «grandi questioni della psicologia». Fatta questa doverosa premessa, cercherò ora di illustrare alcuni degli aspetti principali che, a mio parere, caratterizzano il fenomeno dell’espressività e di fare chiarezza su alcuni equivoci o malintesi in cui si può cadere affrontando questo tema.
L’espressione consiste nel carattere delle cose e ha il suo corrispettivo nell’aspetto dinamico degli oggetti e degli eventi percettivi
Arnheim (19742, p. 445) definisce l’espressione «come i modi di
es-sere del comportamento organico e inorganico che si manifestano nel-l’aspetto dinamico degli oggetti e degli eventi percettivi», e così
manifesta-zioni non si limitano a quanto viene captato dai sensi esterni, ma sono in modo cospicuo attive nel comportamento mentale e sono usate me-taforicamente per descrivere un’infinità di fenomeni non sensoriali: il morale a terra, l’alto costo della vita, la spirale dei prezzi, la lucidità della discussione, la compattezza della resistenza» 5. Il commento è importante perché evidenzia un aspetto dell’espressione del tutto tra-scurato dalla poca letteratura esistente in proposito e cioè il fatto che la percezione dell’espressione ha valore fondante rispetto al funziona-mento della mente: il pensiero metaforico, che trova manifestazione sia nel linguaggio parlato che in quello iconico come in altri generi di lin-guaggi, ne è una dimostrazione.
Allo stesso modo, la concezione che traspare dalla definizione di Arnheim, da quel che mi consta e fatta forse e in parte eccezione per quella di Kurt Koffka (1935), è l’unica che collega inscindibilmente il fenomeno dell’espressione alle caratteristiche dinamiche del funziona-mento della percezione e della mente, dandone così una ipotetica in-terpretazione di tipo processuale.
Nel saggio intitolato La teoria gestaltista dell’espressione, da cui egli trae la definizione appena citata, Arnheim (1966a) discute in modo approfondito del rapporto esistente fra le caratteristiche dinamiche della situazione stimolante e la corrispettiva esperienza fenomenica che abbiamo di tale situazione, fondando tale rapporto sull’ipotetico prin-cipio gestaltista dell’isomorfismo 6. In questa sede possiamo solo ripor-tare in estrema sintesi la sua tesi, che è poi quella su cui si basa e si snoda gran parte dell’enorme opera da lui compiuta.
In sostanza e usando gli stessi termini metaforici di Arnheim (19742, p. 438), l’atto della percezione può essere considerato come il risultato della «lotta» che si instaura fra le forze percettive insite nella configu-razione stimolante, le quali «invadono» l’organismo cercando di man-tenere integra la propria energia, e le forze di campo di natura fisio-logica presenti nell’organismo stesso, le quali hanno il compito di con-trapporsi a quelle invaditrici, organizzandole «nel pattern più semplice possibile» 7.
L’esito della lotta fra questi due tipi di forze antagoniste è ciò che chiamiamo percetto e la denominazione data alle forze insite nell’og-getto stimolante è quella di «tensioni direzionate», la cui presenza co-stituisce anche il veicolo della sua espressività: «tutto il percetto è di-namico, vale a dire dominato da tensioni direzionate. Tali tensioni sono componenti che ineriscono allo stimolo percettivo, esattamente come la tonalità ad un colore o la dimensione a una forma. Ma possiedono una proprietà del tutto unica, non condivisa dagli altri componenti: essendo forze fenomeniche, illustrano e richiamano il comportamento delle forze anche altrove e in generale. Dotando l’oggetto o l’evento di una forma di comportamento percepibile, tali tensioni gli
conferisco-no un “carattere”, e richiamaconferisco-no il carattere consimile di altri oggetti o eventi. Questo appunto si intende affermando che tali aspetti dinamici del percetto ne “esprimono” il carattere» (R. Arnheim, 1966a, p. 68). L’espressione, dunque, consiste nel «carattere» delle cose e tale carattere trapela dalla percezione delle forze fenomeniche – le tensioni direzionate – presenti nella configurazione del pattern stimolante e della loro interazione. Anche Koffka (1935, pp. 376-77) usa questo termine nel trattare delle qualità espressive, che egli denomina «carat-teri fisiognomici», intitolando così il paragrafo specificamente dedicato all’argomento; tali «caratteri» sono quelli che gli «oggetti del campo» manifestano, esercitando «un effetto sul nostro comportamento», ma che non sono «esprimibili in termini di forma o di colore o di utilità pratica»; il chiamarli fisiognomici è giustificato, oltre che da una cer-ta tradizione di studi 8, dal fatto che «questi caratteri sono più pro-nunciati, per noi, nelle forme umane», anche se «possono appartene-re a qualsiasi oggetto».
L’affermazione di Koffka riguardo a una maggior pregnanza che la percezione fisiognomica – intesa come percezione dell’espressività uma-na – ha nella nostra quotidiauma-na esperienza, così come l’uso dell’espres-sione «caratteri fisiognomici» da lui adottata, offre l’occadell’espres-sione per met-tere in luce un possibile equivoco che si può generare o a una visione errata che si può avere nei confronti di questo fenomeno: ritenere che la tendenza a percepire le qualità espressive in tutto ciò che non è uma-no o che uma-non è animato provenga esclusivamente dalla uma-nostra prece-dente esperienza e conoscenza dell’espressività umana; in altre parole, che la percezione dell’espressione degli animali o degli oggetti inanimati sia una conseguenza, un’estensione o un’applicazione di una disponi-bilità della nostra specie a cogliere e a comprendere le manifestazioni fisiognomiche dei nostri simili negando, implicitamente o meno, che i caratteri espressivi risiedano nelle qualità percettive del pattern stimo-lante, di qualunque tipo esso sia.
Il “patetico abbaglio”
Un autorevole studioso, che in un saggio intitolato, appunto, On
Physiognomic Perception sostiene con convinzione una posizione molto
simile a quella appena esposta, è sir Ernst Gombrich (1963) e vale la pena soffermarsi brevemente su di essa, per mostrarne l’intrinseca debolezza.
Dopo un divertente preambolo di carattere storico, Gombrich en-tra nel merito del contenuto del suo saggio, affermando la reale esi-stenza e «immediatezza» della «percezione fisiognomica»: «esiste vera-mente una “percezione fisiognomica” che convince immediatavera-mente e
senza dubbi. Noi tutti esperiamo questa immediatezza ogni qual vol-ta guardiamo attenvol-tamente un volto umano. Ne vediamo la contentez-za o la malinconia, la gentilezcontentez-za o la durezcontentez-za, sencontentez-za renderci conto che stiamo leggendo dei “segni”» 9 (ibidem, p. 47). Ma questo tipo di «rea-zione “globale” e immediata all’espressione non è limitata a una lettura dei volti e dei gesti umani». Infatti, come gli psicologi hanno rileva-to10, «una risposta simile è evocata» anche dagli animali; «così il pin-guino ci darà l’impressione di essere serio, il cammello altezzoso, il se-gugio triste» 11.
Ricordando a questo punto la frequente ricorrenza delle metafore nella lingua, Gombrich afferma che esse «testimoniano con quale fa-cilità applichiamo la percezione fisiognomica in campi ove è ancora meno razionale farlo; parliamo di colori allegri o di suoni melanconi-ci», e così continua: «qualsiasi poesia, buona o cattiva, fornisce esempi di questa estensione della percezione fisiognomica, conosciuta anche come il patetico abbaglio 12, mediante la quale si narra di cieli sorri-denti e di nuvole minacciose, della carezza del vento e del calmante mormorio del ruscello» (ibidem). Sposando l’allora nuova teoria della percezione, elaborata nell’ambito del New Look 13, Gombrich così pro-segue: «in realtà se vogliamo seguire Bruner 14 e altri nel considerare la percezione come un processo di categorizzazione, possiamo sostene-re che l’uso di categorie fisiognomiche quali “sorridente” o “minaccio-so” è una delle nostre primarie e più fondamentali reazioni» (ivi, pp. 47-48). Testimonianza della giustezza di tale ipotesi, secondo lo storico dell’arte, è il carattere «regressivo» di queste «reazioni», che egli però ora denomina «esperienze»: «depone a favore di questa concezione il carattere “regressivo” di simili esperienze» (ivi, p. 48).
Per Gombrich, dunque, la percezione fisiognomica è una mera, anche se primaria e fondamentale, «risposta», una «reazione globale e immediata», che si attiva al presentarsi di una data manifestazione espressiva umana e che è basata su una inconsapevole lettura di non meglio precisati «segni»; una sorta di indizi o di segnali naturali. Per «estensione», questa risposta è data, in modo fallace o sempre «meno razionale», anche di fronte ad animali e cose, come è massicciamente testimoniato dall’uso della metafora nel linguaggio comune e, soprat-tutto, in quello poetico. Per quanto riguarda quest’ultimo, ciò è dovu-to al fatdovu-to che «il poeta vive in un mondo dove tutte le cose possono ancora essere divise in sorridenti e accigliate, conservando egli la capa-cità del bambino di indagare e interrogarsi su ogni cosa c’è in natura – e ogni cosa in natura gli risponderà in modo sufficientemente chiaro per permettergli di “classificare” il mondo in queste categorie “fisio-gnomiche”». Non solo la poesia, ma tutte le arti fanno affidamento su queste «risposte» per ottenere «alcuni dei loro effetti»: «ciò che chia-miamo il carattere “espressivo” dei suoni, dei colori e delle forme non
è, dopo tutto, niente altro che questa capacità di evocare reazioni “fi-siognomiche”» (ivi, pp. 48-49).
Insistendo sulle metafore, Gombrich sostiene che esse sono «mani-festazioni di associazioni non ancora violate, di caselle sufficientemente ampie da contenere sia l’azzurrità di un cielo primaverile che il sorriso di una madre» e rese interessanti dal fatto che molto spesso tali «ca-tegorie» sono intersensoriali: «il sorriso appartiene alla categoria del-le esperienze, calde, luminose, dolci; il cipiglio è freddo, scuro e amaro in questo mondo primordiale in cui tutte le cose ostili o spiacevoli ci danno l’impressione di essere simili o, almeno, equivalenti». Inoltre, questo tipo di categorizzazione regressiva, non convenzionale e sineste-tica sembra possedere un certo grado di oggettività, vale a dire non essere né del tutto soggettiva né esclusivamente determinata dalla cul-tura: «anche se la lingua o le abitudini culturali possono incidere mol-to sull’uso corrente di particolari metafore o di certi clichés poetici, non ci aspettiamo affatto che l’uomo chiami “amara” la propria inna-morata, né che si canti il sorriso “freddo” e “scuro” di una madre che coccola il suo bambino» (ivi, p. 48).
A questo punto e a parte l’impiego non molto rigoroso della termi-nologia psicologica 15, dovrebbe essere sufficientemente chiara la tesi propugnata da Gombrich ed evidente la sua debolezza.
Per limitarci a un solo aspetto, che la percezione dell’espressione sia una conseguenza, un’estensione o un’applicazione della percezione fisiognomica, è un assunto del tutto erroneo, com’è mostrato per altro dall’uso massiccio che, sia nel linguaggio comune sia in quello poeti-co o tout poeti-court artistipoeti-co, viene fatto della metafora, ma anche di altre figure retoriche come, ad esempio, la sinestesia. Esiste un’infinità di termini con connotazione espressiva che hanno la loro derivazione dal-la percezione e dall’esperienza fenomenica del mondo fisico e che, per estensione, sono spesso usati per indicare espressioni fisiognomiche 16. Lo stesso Gombrich, ce ne fa qualche esempio, quando scrive che non ci si aspetta che qualcuno definisca «freddo» e «scuro» il sorriso della madre che carezza il figlioletto, dal momento che il sorriso stesso ap-partiene «alla categoria delle esperienze, calde, luminose, dolci»: agget-tivi che hanno origine dalla percezione – tattile, visiva, gustativa – del-l’ambiente fisico e che, per estensione o per analogia, possiamo usare nel campo della fisiognomica. «L’espressione non si limita agli organi-smi viventi dotati di coscienza. Una fiamma, una foglia volteggiante, l’urlo di una sirena, un salice, una rupe scoscesa, una sedia Luigi XV, le crepe nel muro, il calore di una teiera di porcellana, il dorso irto di un porcospino, i colori del tramonto, una fontana, il lampo e il tuono, i movimenti sussultanti di un pezzo di filo ricurvo: tutto ciò trasmet-te espressione tramitrasmet-te i nostri diversi sensi. L’importanza di questo dato di fatto è stata oscurata dall’ipotesi popolare, secondo la quale in
simili casi è semplicemente l’espressione dell’uomo che si trasferisce sugli oggetti» (R. Arnheim, 1966a, p. 81).
L’abbaglio di Gombrich è, dunque, alquanto drammatico, viste l’au-torevolezza di chi ci è incorso e le implicazioni che esso comporta nel-l’ambito della concezione sia dell’uomo che del fenomeno artistico.
Di fatto, lo storico dell’arte, della cui opera compiuta nel suo cam-po disciplinare ovviamente non intendo qui sminuire l’ampia e rilevan-te portata, si appella a una rilevan-teoria psicologica che è congeniale alla vi-sione che egli aveva dell’arte – quella esposta in Arte illuvi-sione 17 (E. H. Gombrich, 1960) – e che si manifesta, pur in estrema sintesi, anche attraverso questo suo saggio sul tema dell’espressione. Teoria psicolo-gica il cui assunto di base si riconduce al contenuto dell’articolo di Jerome S. Bruner (1957) citato da Gombrich, che Arnheim (1969, p. 97) così critica: l’articolo di Bruner «si accosta notevolmente alla po-sizione assunta in questo libro quando asserisce che “tutta l’esperienza percettiva è necessariamente il prodotto finale di un processo di cate-gorizzazione”. Tuttavia, considerando più da vicino l’articolo, si trova che secondo Bruner tale categorizzazione è limitata all’inserimento dei percetti del presente in appositi loculi costruiti in passato. Sebbene egli ammetta che “certe unità o identità primitive all’interno della perce-zione devono essere innate o autoctone, e non apprese”, non vede tali categorie non apprese operare all’interno della percezione diretta in se stessa. Ma come potrà l’ingresso percettivo del presente venir classifi-cato nelle categorie del passato, salvo che non possieda, anzitutto, una configurazione categoriale? Bruner è un esempio di quel tipo di ap-proccio cui allude Wolfgang Metzger, quando osserva che gli psicologi spesso affrontano il problema dell’organizzazione percettiva “anzitutto a livello del piano immediatamente superiore” 18, vale a dire, troppo