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Logocentrismo: 3 o 4 taglie

Nel documento Rudolf ArnheimArte e percezione visiva (pagine 80-97)

di Maurizio Ferraris

0. “A Psychology of the Creative Eye”

Arte e percezione visiva 1, l’opera di Rudolf Arnheim che vogliamo discutere e celebrare è, senza esagerazione, un libro epocale. Se con-sideriamo che quando è uscito si pensava ancora che l’arte è apparire sensibile dell’idea, come voleva Hegel e come ripetevano i neoideali-sti – il che, in parole povere, significa che chi visita un museo contem-pla i promemoria dei concetti degli artisti – portare l’attenzione sulla percezione, era un gesto di una novità dirompente. E, per quanto può valere la mia piccola storia personale, non c’è dubbio che la mia pro-posta di concepire l’estetica anzitutto come aisthesis 2 non sarebbe stata concepibile senza il movimento di cui Arnheim è un esponente insigne. In Estetica razionale, il mio riferimento privilegiato andava a Il

pen-siero visivo 3, libro più direttamente utile per i miei scopi, visto che in

Arte e percezione visiva, come spiega Arnheim chiudendo la prefazione

alla nuova, e interamente riscritta, edizione del 1974, l’auspicio è «che questo libro continui a giacere, con qualche “orecchia” alle pagine, annotato, sporco di colori e di gesso, sul tavolo e sulla scrivania di chi si occupa attivamente di teoria e pratica dell’arte».

Mi intrigava, tra l’altro, la splendida ambiguità del titolo, “Pensiero visivo”. Significa che il pensiero entra nella visione, come sostengono tutti i filosofi, da Cartesio a Hume a Kant ecc., oppure che la visione ha una sua autonomia rispetto al pensiero, come sostiene la scuola ge-staltista in cui si è formato Arnheim, e che sottolinea come – seguendo l’icastica formulazione di Kanizsa – «l’occhio, se proprio si vuole che ragioni, ragiona comunque a modo suo»?

Probabilmente, entrambe le cose. Rivendicare il valore del visibile, dello strato percettivo, suggerisce, contemporaneamente, il tentativo di nobilitare quello strato, mostrando quanto conti per il pensiero, quan-to sia pensiero esso stesso. È un fenomeno molquan-to comune tra gli psi-cologi della percezione, così come tra i filosofi, anche tra i più sensi-bili alla questione: in fondo è stato proprio un grande fenomenologo sperimentale avantilettera come Berkeley a sostenere che quando guar-do un ritratto di Giulio Cesare non veguar-do solo colori, ma colgo con-temporaneamente una idea, riconosco una persona.

Così, quando vedo, per esempio, una figura come questa

non vedo soltanto delle macchie di colore, bensì un rettangolo, un libro, un titolo, il nome di un autore ecc. Dunque, è vero che la ne è importante, però lo è in quanto il pensiero interferisce nella visio-ne, al punto che senza pensiero la visione non ci sarebbe, o sarebbe pochissima cosa.

Ancora un passo, e siamo a Gregory 4, che ci fa un esempio famo-so, questo:

argomentando che un analfabeta (e forse uno che non sa l’inglese) non decifrerebbe la scritta e, di conseguenza, non riconoscerebbe nemmeno le ombre.

A maggior ragione questo discorso dovrebbe valere per una attività sofisticata come l’arte, ricordiamo gli esempi di Gombrich 5: Castel Sant’Angelo, in una xilografia tedesca del 1540, manifesta dei tratti gotici; Notre Dame, riprodotta nel Seicento da Matthäus Merian, pre-senta degli elementi di architettura barocca; il rinoceronte raffigurato da Dürer è uno strano mostro che ha poco da spartire con quelli che vediamo allo zoo. Ancora un passo, e siamo al memorabile dialogo tra Amleto e Polonio:

Amleto: Lassù, vedete quella nuvola? Non ha quasi la forma di un cammello? Polonio: Per la santa messa, pare proprio un cammello.

Amleto: O piuttosto una donnola. Polonio: Ha la gobba come una donnola. Amleto. O una balena.

Polonio: Una vera balena.

E Arnheim? Da una parte, come gestaltista, rivendica l’autonomia del visivo. Dall’altra, come studioso dell’arte, è sensibile agli argomen-ti, diciamo così, di Gregory e di Gombrich (ma potremmo dire anche di Cartesio e di Hume, di Kant e di Nietzsche). Questo proprio

per-ché nell’arte abbiamo a che fare con una prestazione estremamente sofisticata, e non con un puro vedere. Con una creazione, come reci-ta il sottotitolo del libro che, stranamente, non compare nella traduzio-ne italiana: “Una psicologia dell’occhio creativo”.

Proprio così: dell’occhio creativo. Bene, ma quest’occhio creativo è paradigmatico, nel senso che crea sempre, o lo è solo nell’arte? Secon-do me, lo è ovviamente nell’arte, o persino nella lettura, ma in tanti altri casi, no, e se non lo ammettiamo finiamo per mortificare la per-cezione, la sua splendida indifferenza al pensiero.

In altri termini, e venendo al dunque, i casi sono due, almeno idealmente: o la visione interferisce nel pensiero, o il pensiero interfe-risce nella visione. Non è lo stesso, e se si fa valere la seconda, allora cadiamo nel logocentrismo, cioè nella subordinazione del vedere (co-me simbolo dell’esperienza in generale) al pensare. E co(co-me le T-shirt, il logocentrismo si trova essenzialmente in tre taglie:

1. Medium. L’esperienza attuale dipende da una esperienza pre-gressa (Hume 6).

2. Large. Le intuizioni senza concetto sono cieche (Kant 7). 3. Extra-Large. Non ci sono fatti, solo interpretazioni (Nietzsche 8). Esaminiamole una alla volta, tenendo sottomano Arte e percezione

visiva, e in un paragrafo cruciale e ambiguo, quello che si intitola

“L’influenza del passato”. 1. Medium

L’esperienza attuale dipende da una esperienza pregressa. Sembra

ragionevole: senza necessariamente impegnarsi in assunzioni forti come quella secondo cui “i fatti sono carichi di teorie” (come sostengono, lo vedremo, i logocentrismi large ed extra-large), basterà far notare che noi ci accostiamo al mondo con delle aspettative (penso che le sedie siano fatte per sedersi e le posate per mangiare), e che queste attese derivano dalla nostra esperienza precedente (per esempio, abbiamo imparato da bambini a stare a tavola).

Ma sarà vero, letteralmente e in tutti i casi? Prendiamo questa immagine:

È netta l’impressione che l’isola sbuchi di botto dall’acqua, anche con gli uccelli posati in cima. Ma noi sappiamo benissimo che non è possibile, se non altro perché non ci è mai capitato di vedere o di sen-tirci raccontare una cosa del genere (al massimo, abbiamo sentito di vulcani che emergono poco alla volta dal mare, o di atolli devastati dallo Tsunami, ma in nessun caso c’erano uccelli). Eppure l’impressio-ne resta. Dunque, è falso che l’esperienza attuale dipende sempre da

una esperienza precedente. Ci sono casi – e questo a mio avviso è

in-contestabilmente tra quelli – in cui prevalgono altri fattori, che, come nelle situazioni studiate dalla psicologia della Gestalt, hanno a che fare piuttosto con l’organizzazione del materiale visivo che non da un fare (e anche il ricordare lo è) della soggettività.

Lo dimostra con chiarezza questa seconda immagine, che è stata concepita proprio nel quadro di una teorizzazione gestaltista 9:

Inutile negarlo: l’impressione è che la canna da pesca passi dietro la vela, per il prevalere della continuità cromatica. Il che contrasta non solo con la nostra esperienza, ma anche con il buon senso che guida la nostra fisica di tutti i giorni: quanto dovrebbe essere lunga la can-na per poter raggiungere e superare ucan-na barca che a occhio dista 10 metri, e per poi ritornare a non più di 2 metri dal pontile? E perché, malgrado questa prestazione miracolosa, la canna ci sembra incurvata dall’alto al basso, e non piegata orizzontalmente, come un arco gigan-tesco o come un boomerang fuori misura? Anche qui, è falso che

l’esperienza attuale dipende sempre da una esperienza precedente.

L’esperienza precedente ci dice solo: “ecco una canna da pesca”, il miracolo lo fa l’organizzazione gestaltica.

E Arnheim, cosa ne dice? Nega, e con forza, la tesi dell’esperien-za pregressa, e lo fa per l’appunto col vigore di un gestaltista: «Ogni esperienza visiva è inserita in un contesto di spazio e di tempo. Come l’aspetto dell’oggetto è influenzato da quello degli oggetti vicini nello spazio, così è influenzato dalle esperienze visive che l’hanno preceduto

nel tempo. Ma riconoscere queste influenze non vuol dire che forma e colore dell’oggetto sono automaticamente modificati da tutto ciò che lo circonda, oppure, per spingere l’argomentazione fino alle estreme conseguenze, che l’aspetto dell’oggetto è soltanto la somma di tutte le influenze su di esso esercitate. È una concezione che, riferita alle rela-zioni spaziali, sarebbe evidentemente assurda; eppure la si è riferita di frequente alle relazioni temporali» 10. E subito dopo cita Kanizsa per corroborare la propria tesi: «Ci siamo familiarizzati con le cose che ci circondano proprio perché esse si sono costituite per noi tramite forze di organizzazione percettiva che hanno agito prima e indipendente-mente dall’esperienza, consentendoci in tal modo di sperimentarle». Arnheim, dunque, passa alla grande il test del logocentrismo medium. Visto che si tratta di una forma di logocentrismo moderato, a maggior ragione dovrebbe superare a mani basse il test di forme più estreme come il logocentrismo large ed extra-large. E invece, sorprendente-mente, non è così. Proseguiamo nell’esibizione delle taglie, avendo sempre sotto mano il libro di Arnheim.

2. Large

Le intuizioni senza concetto sono cieche. Come dicevo, se la taglia

media presenta difficoltà e controsensi, a maggior ragione sembra implausibile il logocentrismo più forte, quello che sostiene che l’espe-rienza visiva è determinata non da altre esperienze visive (in un pro-blematico regresso all’infinito), bensì da categorie logiche indipendenti da qualunque esperienza, che si sovrappongono al dato percettivo conferendogli un senso e una forma di cui altrimenti sarebbe sprovvi-sto. Anche qui la psicologia della percezione ha molto da dirci.

Consideriamo la figura riportata qui sopra 11. I triangoli, e le loro disposizioni, sono uguali. Lo sappiamo. Tuttavia, siamo sinceri, quel-lo che vediamo (per via della alterazione apportata dagli sfondi) sono gruppi di triangoli profondamente differenti: i primi tre sono orientati

in alto a destra, i due di mezzo in basso a destra, quelli alla base in basso a sinistra. E non c’è niente da fare: abbiamo un bel sapere che si tratta sempre del medesimo gruppo di triangoli ripetuto su sfondi diversi, il risultato obiettivo è diverso. Dunque è falso che le intuizioni

senza concetto sono cieche, nel senso che se davvero i concetti

guidas-sero le intuizioni, una volta che sappiamo che i triangoli sono uguali, dovremmo continuare a vederli uguali, il che non accade affatto: si hanno i concetti, e non si vede.

È un effetto che si ottiene in forma ancora più macroscopica con la cosiddetta “illusione di Müller-Lyer”. Possiamo ripeterci all’infinito (ed è vero) che i due segmenti sono uguali. Resta che continuiamo a vedere quello di sinistra come più lungo di quello di destra.

La morale è presto tratta. La consapevolezza concettuale non rie-sce a determinare sino in fondo il dato percettivo, come per l’appunto dovrebbe essere se davvero le intuizioni senza concetto fossero cieche. Un buon esempio, ancora, è dato dal cosiddetto “conigliopapero” di Jastrow, che è il caso di una figura bistabile, cioè dotata di due esiti possibili.

Posso vedere un papero con il becco rivolto a sinistra, oppure un coniglio con il muso rivolto a destra. E posso così, se lo desidero, for-marmi il concetto di “conigliopapero”, un animale che è sia un coni-glio sia un papero. Bene. A questo punto, visto che sono dotato di quel concetto, dovrei essere in grado di vedere un conigliopapero.

Facciamo l’esperimento. Ci si riesce? Disgraziatamente, no. Si continua a vedere o un coniglio, o un papero, e se cerchiamo di vedere il coni-gliopapero ne vien fuori, nel migliore dei casi, un ircocervo mostruo-so che non ha niente né del coniglio né del papero, un essere quasi piatto, e con una bocca orripilante che è poi l’occhio, rispettivamen-te, del coniglio e del papero.

Nello stesso genere, abbiamo un bel sapere che l’esagono di sini-stra “c’è” nel disegno di desini-stra: non lo vediamo.

Adesso prendiamo un altro esempio, che illustra l’altro lato della faccenda, e cioè che anche senza una dotazione concettuale strutturata il dato visivo appare pienamente riconoscibile 12.

Queste non sono nulla più che macchie. Non ne sappiamo niente. Eppure le vediamo benissimo, ne riconosciamo la forma e i rapporti reciproci. A un certo livello, se abbiamo del tempo libero, possiamo anche impegnarci a riconoscere delle figure nelle macchie – per esem-pio, la prima da sinistra assomiglia abbastanza al gallo che simboleg-gia la Repubblica Francese, il bianco all’interno della seconda figura da destra è la testa di un drago di Walt Disney – ma anche uno che non abbia idea né della Repubblica Francese, né di Walt Disney, ve-drebbe quelle macchie esattamente come noi (come faccio a dirlo? Beh, è anni che guardo queste figure, e solo in un secondo momento, a furia di guardarle e per vincere la noia, che ho effettuato queste identificazioni). Anche qui, è falso che le intuizioni senza concetto sono

cieche: non abbiamo i concetti, eppure si vede, e si vedrebbe la

stes-sa costes-sa anche se, per compiacere uno psicologo che ci sta sottoponen-do a un test, sostenessimo che la prima macchia a sinistra ci ricorda (badate bene: non è, come viceversa avverrebbe con una fotografia) nostra madre e la prima a destra nostro padre.

Un ultimo esempio, che ci tornerà utile alla fine di questo discor-so. Cosa dicono gli abitanti di Metropolis? “Look up in the sky! It’s a bird, It’s a plane! It’s Superman!” Vedono sempre qualcosa, e il fat-to che a lungo non sappiano cosa vedono non fat-toglie nulla al vedere. Ancora una volta, è falso che le intuizioni senza concetto sono cieche. E Arnheim come la mette? Come ho anticipato, dopo aver passa-to il test del logocentrismo medium, non passa quello del logocentri-smo large: «Un uomo che aspetti all’angolo della strada la sua ragaz-za sarà portato a riconoscerla in quasi ogni donna che gli viene incon-tro, e tale tirannia della traccia mnemonica diventerà più forte col pas-sare dei minuti. Uno psicoanalista scoprirà organi sessuali maschili e femminili in ogni opera d’arte. L’impulso esercitato dai nostri bisogni sulla percezione viene usato dagli psicologi nel test di Rorschach: l’am-biguità strutturale delle macchie d’inchiostro impiegate in questo reat-tivo permette una gran varietà di interpretazioni, così che il soggetto in esame ha la possibilità di cogliere spontaneamente proprio quella che è più caratteristica della sua conformazione psichica» 13.

La dichiarazione è vagamente sconcertante. Avevamo lasciato Arn-heim alla proba affermazione gestaltistica della indipendenza del con-tenuto percettivo rispetto al fare della soggettività, e due pagine dopo lo troviamo che tratta la sua fidanzata come una macchia di Rorscha-ch… Sì, perché non è possibile citare, a poche righe di distanza, e co-me se si trattasse dello stesso processo, (1) il riconoscico-mento di una persona nota, e come tale determinata, (2) la proiezione di una pretazione simbolica su un oggetto determinato, e (3) la libera inter-pretazione di forme insignificanti come tali.

I buoni consigli dei gestaltisti sono dimenticati, almeno in questo contesto, e l’anima nera è diventata Gombrich, citato subito prima del brano che ho riportato: «Quanto più un oggetto ha per noi un interes-se di carattere biologico, tanto più ci troveremo ad esinteres-sere ‘intonati’ al suo riconoscimento e tanto più tollerante sarà pertanto il nostro stan-dard di corrispondenza formale», come dire che di notte tutte le muc-che sono nere. E Gombrich, come sappiamo, sosteneva

tranquillamen-te che l’artranquillamen-te condiziona la visione normale. Il che, se le parole hanno un senso, significa che, di fronte alla Cattedrale di Strasburgo, abbia-mo due opzioni: o berci tre pastis per vederla come l’aveva dipinta Monet (secondo il suggerimento di Gianfranco Contini), oppure mu-nirci del dipinto di Monet per risparmiarci i tre pastis, che fanno male. La morale, secondo me, è presto tratta. Come gestaltista e percet-tofilo, Arnheim difende l’autonomia del visivo (e per questo scarta il logocentrismo medium, l’azione dell’abitudine). Come estetologo ed estetofilo, come storico e amante dell’arte, tuttavia, non esita ad ab-bracciare la tesi del logocentrismo large, l’idea che le intuizioni senza concetto siano cieche. E, paragonando la sua fidanzata a una macchia di Rorschach, cade persino in braccio al logocentrismo extra-large, alla prevalenza delle interpretazioni sui fatti.

3. Extra-Large

Non ci sono fatti, solo interpretazioni. Ora, se le versioni medium e

large del logocentrismo pongono problemi, figuriamoci poi la versio-ne extra-large professata da Nietzsche. In effetti, fa acqua da tutte le parti. Che non ci siano fatti, solo interpretazioni, comporta che il mondo si dissolva in una fuga infinita di interpretazioni. Sulle prime sembra sensato, ma basta pensarci un poco e vediamo che non funzio-na. Anche a tavolino e senza figure, come risulta da questo semplicis-simo esperimento.

Si prenda la frase in questione:

(1)Non ci sono fatti, solo interpretazioni.

E ora si sostituisca una sola lettera, la “f”, con quella che le è im-mediatamente successiva nell’alfabeto, la “g”. Otteniamo una seconda frase perfettamente sensata dal punto di vista sintattico e grammaticale.

(2)Non ci sono gatti, solo interpretazioni.

Perfettamente sensata, ma anche un po’ scema, riconosciamolo con franchezza. Perché non è affatto vero che non ci siano gatti, ma solo interpretazioni. Ci sono cani, gatti, persone, case, atomi, continenti, pianeti, e poi anche, qualche volta, delle interpretazioni. E, notatelo, chi dice che non ci sono fatti, solo interpretazioni, vuol dire proprio che non ci sono cani, gatti, persone, case, atomi, continenti, pianeti, ma solo interpretazioni.

Ma passiamo alle figure.

creare una immagine fortemente ambigua. Di che si tratta? Di una moneta? Di un tappo da birra? Di un ufo danneggiato? Di una foglia? Di un sigaro toscano? Le interpretazioni sono aperte. Ma è poco ma sicuro: non si tratta né di un coniglio, né del Monte Bianco, né di Mo-zart. Dunque non è vero che le interpretazioni sono infinite e che, per-ciò, non ci sono fatti, solo interpretazioni.

Prendiamo ora il cubo di Necker.

Ci appare o come una scatola con il fondo in alto a sinistra e l’apertura in basso a destra, o come una scatola con il fondo in basso a destra e l’apertura in alto a sinistra (questo secondo esito, almeno per me, è meno facile). Certo, uno può anche, con uno sforzo maggio-re, pensare ad altri esiti: l’apertura è sulla faccia alta, o su quella bassa, o sulla faccia sinistra, o sulla faccia destra, o su quella posteriore 15. E con questo abbiamo 6 esiti, quante sono le facce di un cubo.

Ci va poi tutta la perversa sagacia di Wittgenstein 16 per ipotizza-re che si tratta di un disegno senza profondità, o di un filo di ferro piatto (fate l’esercizio, un po’ riesce).

per perdere il cubo, che scompare nonostante tutta la nostra buona volontà e i nostri sforzi di memoria.

Dunque, ancora una volta, non è vero che le interpretazioni sono infinite e che, perciò, non ci sono fatti, solo interpretazioni (se poi uno volesse sostenere che quel cubo è suo zio, ebbene, nessuno glielo po-trebbe vietare, ma questo è un altro paio di maniche, e ha a che fare non con la percezione visiva, ma con l’elogio della tolleranza).

Ultima figura. Questo signore è Friedrich Nietzsche, quello che ave-va detto che non ci sono fatti, solo interpretazioni. O almeno fino a non molti anni fa pensavo che fosse lui, e lo pensavo insieme a tanti altri (lo si trova spesso nella iconografia nietzschiana). Tanto che avevo fatto mettere la sua foto sulla copertina di un libro su Nietzsche che ho cu-rato con altri colleghi 17. Tranne che dopo l’uscita del libro un amico fo-tografo mi ha informato del fatto che si tratta di Umberto I di Savoia, una cui immagine è finita, fortuitamente (è vero però che un poco si as-somigliano, baffoni e aria spiritata) nella lista canonica delle immagini di Nietzsche. Ora, immaginiamo di poter mostrare questa foto a Nietzsche e di chiedergli: “Sei tu?” Possiamo scommetterci: avrebbe detto che non

Nel documento Rudolf ArnheimArte e percezione visiva (pagine 80-97)