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Visione, forma e contenuto in Arnheim e Wittgenstein

Nel documento Rudolf ArnheimArte e percezione visiva (pagine 188-200)

di Giuseppe Di Giacomo

Le riflessioni di Rudolph Arnheim sviluppate in Arte e percezione

visiva 1 sono incentrate sul problema della visione e sulla connessione

di forma e contenuto, con particolare riferimento alle opere d’arte; esse presentano inoltre una produttività e un’attualità che possono es-sere anche evidenziate attraverso le riflessioni di un filosofo come Ludwig Wittgenstein, di uno storico dell’arte come Aby Warburg e di un artista come Paul Klee.

Il punto di partenza di Arnheim è che «ogni percezione è anche pensiero» 2, e questo significa che la nostra visione non è una registra-zione meccanica e passiva di elementi sensibili, ma è un’attività volta a cogliere le «strutture significanti» interne a quegli stessi elementi 3. Già nello sviluppo dell’organismo la percezione ha inizio con l’afferra-re configurazioni strutturali particolarmente evidenti. Il riconoscimento è infatti un’importante caratteristica funzionale della percezione ed è per raggiungere questo scopo che gli organi sensori, sia dell’uomo che degli animali non umani, debbono essere filtri percettivi grazie ai quali si ottengono dati sensibili organizzabili e adoperabili.

Sotto questo profilo la posizione di Arnheim è vicina a quella di Ernst H. Gombrich per il quale la nostra sopravvivenza, così come quella degli animali, dipende dalla capacità di riconoscere determinati elementi significativi della realtà. Siamo cioè “programmati” per esplo-rare con lo sguardo il mondo alla ricerca degli oggetti che dobbiamo evitare o inseguire, e per reagire più prontamente a certe immagini che ad altre. Sembra anzi che quanto maggiore sia l’importanza biologica di una determinata caratteristica, tanto maggiore sia la facilità con la quale la si riconosce, per quanto vaga questa possa essere. Non solo gli uomini ma anche gli animali sono capaci di queste reazioni elemen-tari, come dimostra il fatto che ci si è sempre serviti di immagini per attirarli o per spaventarli. Le reazioni di questi ultimi infatti, non che essere il risultato di un apprendimento, sono istintive e fanno pensa-re che l’organismo sia programmato per selezionapensa-re nel mondo circo-stante quegli elementi che consentono loro di sopravvivere 4.

Gli organi sensori sono dunque filtri percettivi e questo fa sì che la percezione sia sempre incompleta; è proprio questa incompletezza che

rende possibile la produzione e il riconoscimento di immagini nelle quali la percezione umana organizza i dati ottico-retinici. L’uomo tut-tavia è in grado di percepire oggetti anche a prescindere dalla loro funzione immediata rispetto alla sopravvivenza. Si tratta, potremmo dire, di una “capacità interpretante” grazie alla quale i dati vengono gerarchizzati sotto un certo profilo.

L’importanza del processo di riconoscimento di un’immagine è ve-rificabile, secondo Gombrich, anche nei manifesti pubblicitari, la cui attrattiva è dovuta proprio alla capacità del disegnatore di unire alla sorpresa un’immediatezza di significato. Di fatto «senza il significato dell’immagine non avremmo potuto comprendere la convenzione» 5, e ciò sta a indicare che passiamo dal significato alla convenzione. Inol-tre il riconoscimento dà luogo a una trasformazione dell’intera confi-gurazione, come dimostrano esemplarmente le “figure bistabili”: sco-priamo ciò che le immagini rappresentano ricreandone il significato. Per questo l’apparenza di ciò che vediamo cambia non appena siamo in grado di inferire cosa ci sta di fronte.

Allo stesso modo per Arnheim una forma è valida solo in quanto trasmette un significato. Infatti, se il percepire implica sempre «concet-ti percet«concet-tivi» 6, la visione organizza il materiale grezzo fornitole dai sensi, creando uno “schema” corrispondente di forme generali che si possono applicare non solo al caso individuale ma, in modo analogo, a un numero infinito di altri casi. Perché dunque la percezione possa riconoscere un oggetto è necessario che privilegi alcuni dei suoi trat-ti, così da poterlo paragonare ad altri oggettrat-ti, ed è in questo senso che, come si diceva, la percezione è “interpretante”. Insomma, proprio per-ché un oggetto non viene mai percepito nel suo isolamento, l’immagi-ne che ce l’immagi-ne facciamo è l’immagi-nello stesso tempo determinata e indetermi-nata. Di fatto un’immagine, non che essere soltanto visiva, implica an-che altre immagini depositate nella memoria percettiva e altri elementi non visivi, di tipo tattile, sonoro, ecc. Nella percezione pertanto deter-minatezza e indeterdeter-minatezza sono complementari e, tenendo conto del fatto che l’indeterminato può essere soltanto pensato, si compren-de pienamente l’affermazione di Arnheim secondo la quale ogni per-cezione è anche pensiero. Così, quando guardiamo, focalizziamo sem-pre oggetti determinati che però, per essere percepiti come tali, impli-cano indeterminatezze di vario tipo, relative a quegli stessi oggetti e anche alle loro somiglianze e dissimiglianze con altri oggetti. È in que-sto senso che l’indeterminato contribuisce essenzialmente all’interpre-tabilità delle determinatezze sensibili e fa della visione, come sostiene Arnheim, un’attività «creativa» 7.

Tale creatività si manifesta nel fatto che l’immagine dell’oggetto che vediamo non dipende soltanto dalla sua proiezione retinica in un momento dato, ma anche dalla totalità delle esperienze visive che di

quell’oggetto, o di uno analogo, abbiamo avuto durante la nostra vita. Di fatto ogni esperienza visiva è inserita in un contesto di spazio e tempo: come l’aspetto dell’oggetto è influenzato da quello degli oggetti vicini nello spazio, così lo è dalle esperienze visive che l’hanno prece-duto nel tempo. In definitiva: «Le tracce mnestiche degli oggetti fami-liari possono influenzare la configurazione da noi percepita» 8. Questo fa del vedere un modo creativo di afferrare la realtà e questo modo creativo è lo stesso che caratterizza l’opera d’arte che, già in questo senso, non è una semplice riproduzione della realtà. E come un’espe-rienza visiva implica sempre una “totalità”, cioè un indeterminato, così un’opera d’arte organizza una molteplicità di significati e di forme en-tro una struttura globale che definisce il posto e la funzione di ogni particolare entro il tutto. Il fatto è che, secondo la tesi di Arnheim in base alla quale la forma è valida solo in quanto trasmette un significa-to, in un’opera d’arte le strutture significanti non costituiscono il “con-tenuto” dell’opera, ma si danno nella configurazione degli elementi formali di questa. Ed è sempre questa totalità a impedire che i parti-colari di un’opera siano autosufficienti: nel guardare un’opera d’arte si deve cercare sempre di cogliere la sua organizzazione globale. Tale organizzazione, necessaria per la comprensione di un’immagine, sia o meno artistica, implica sempre uno “scheletro strutturale”. Per Arn-heim infatti l’immagine-guida nella mente dell’artista è non la previsio-ne esatta dell’immagiprevisio-ne finale dell’opera, bensì «lo scheletro struttura-le, la configurazione di forze visive che determina il carattere dell’og-getto visivo» 9. Questo vuol dire sia che «quando questa immagine-guida si perde di vista, la mano va fuori strada» 10, sia che tale imma-gine-guida può essere rivestita «da una grande varietà di forme» 11. L’artista dunque, pur avendo nella mente un’immagine-guida, non sa esattamente quale configurazione questa prenderà. Nessun metodo lo-gico può determinare il passaggio dall’immagine iniziale a quella finale ed è per questo che l’opera finisce per sorprendere lo stesso artista.

Anche Paul Klee, parlando del suo modo di dipingere, scrive che comincia a disegnare senza avere in mente alcun soggetto preciso, la-sciando che il segno si muova liberamente finché non dia luogo ad ac-cidentali rassomiglianze che vengono a mano a mano sottolineate ed ela-borate: è la percezione attuale che richiama una percezione anteriore. È come se il pittore operasse per far sopraggiungere un senso che lui stes-so non ha concepito prima: lavorando senza progetto, egli apprende qualcosa che non sapeva prima di aver terminato il suo compito.

Per Arnheim quell’immagine iniziale, o immagine-guida, non può diventare una rappresentazione se non passando attraverso un “me-dium”, cioè attraverso un particolare mezzo espressivo che fa della rappresentazione non la riproduzione di qualcosa di già esistente, ben-sì la creazione di qualcosa di nuovo e di sempre diverso. Per questo

«ogni grande artista dà vita a un nuovo universo in cui le cose più familiari appaiono in una maniera in cui non sono mai apparse a nes-suno» 12. Questo vuol dire che gli elementi formali, ovvero i mezzi espressivi, senza dare luogo a una rappresentazione determinata, iden-tificandosi con essa, sono disponibili per rappresentazioni molteplici. Anche Klee scrive a questo proposito che «gli elementi devono pro-durre forme, senza tuttavia immolarvisi, anzi conservando se stessi» 13. Proprio perché non “si sacrificano” al contenuto di una determinata rappresentazione, gli elementi restano disponibili per rappresentazio-ni sempre nuove e diverse. In questo senso è interessante quando Klee nel suo diario racconta che all’età di nove anni andava nella trattoria dello zio dove «c’erano tavoli con piani di marmo levigato, la cui su-perficie era, per vetustà, un intrico di solchi. In questo labirinto di linee si potevano vedere grottesche figure umane e fissarle con la matita» 14. Questo vedere nei solchi della superficie di marmo figure diverse è, per dirla con Wittgenstein, un vero e proprio “vedere come”: un intrico di linee improvvisamente si anima e in esse scorgiamo una figura, un vol-to, una fisionomia; cogliamo “di colpo” qualcosa che rimaneva nascosto alla visione ottico-retinica e che non possiamo indicare senza rimandare proprio a quell’intrico di linee. Questo vuol dire che quelle linee pos-sono dar luogo a una molteplicità di rappresentazioni, nessuna delle quali è pre-vedibile. Così lo sguardo del pittore, nel rendere visibile ciò che in quelle linee si nasconde, trasforma il visto in qualcosa che sem-pre e di nuovo ci sorsem-prende e del quale nessuna spiegazione logica può rendere ragione.

Secondo Arnheim, se la forma è «la configurazione visibile del con-tenuto» 15 e quindi è sempre «forma di un contenuto» 16, allora essa non è altra dal contenuto ma è il contenuto stesso. È quanto Adorno afferma quando definisce la forma un «contenuto sedimentato» 17, ed è quanto afferma anche Klee, nella Confessione creatrice (1920), quando scrive: «L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile» 18. “Ren-dere visibile” è rivelare una dimensione nascosta che è interna al visi-bile stesso e grazie alla quale quest’ultimo si configura in modi molte-plici. In altri termini, la forma non si dà mai come pura, dal momento che è sempre intrisa di contenuti che si sono stratificati in essa e che lo sguardo del pittore, che Klee definisce «penetrante», e quello del-l’osservatore, che definisce «brucante» 19, rendono visibile, non però una volta per tutte ma in modo sempre nuovo e diverso. Di qui appun-to, per Adorno e per Klee, la storicità dell’opera d’arte.

Anche per Arnheim una configurazione si percepisce come forma di un intero genere di oggetti e non di un singolo oggetto. E non a caso si rifà a un esempio di Wittgenstein: «Il disegno lineare di un triangolo si può vedere come una cavità triangolare, un solido, una figura geometrica; come ritto sulla base o appeso per il vertice; come

una montagna, un cuneo, una freccia, un indicatore, e così via» 20. Per questo ogni configurazione è semantica: nel momento stesso in cui è vista offre una molteplicità di significati. Di qui quella che Arnheim giudica una delle sue tesi fondamentali: «La creazione di immagini, artistica o altro, non consiste semplicemente nella proiezione ottica dell’oggetto rappresentato ma è un equivalente, reso tramite le pro-prietà di un mezzo espressivo particolare, di quanto si vede nell’ogget-to» 21. L’immagine dunque, senza essere la riproduzione retinica del-l’oggetto, “rende visibile” mediante le caratteristiche di un mezzo espressivo particolare le strutture significanti dell’oggetto stesso: sono tali strutture significanti, incarnate negli elementi formali (ad esempio in linee e colori), a far sì che un’immagine figurativa dia luogo a una molteplicità di rappresentazioni che sono già tutte contenute in quegli stessi elementi formali.

È quanto ritroviamo anche in Klee. La sua arte infatti consiste nel-l’evidenziare l’importanza degli elementi formali del quadro, ovvero le sue linee e i suoi colori, e le sue figure rappresentano un “ponte” fra l’interno e l’esterno, vale a dire tra la dimensione non-visibile e quel-la visibile: il visibile ha le sue radici nell’invisibile e soltanto da que-st’ultimo può trarre la sua linfa vitale, senza la quale sarebbe condan-nato a una rovina senza rimedio. Non a caso Klee, nel parlare della fine di un mondo figurativo, si riferisce alla fine di un mondo che ha assolutizzato il visibile, condannandosi con ciò stesso all’asfissia.

Allo stesso modo, secondo Arnheim, se la dottrina illusionistica, basata su un “realismo ingenuo”, non riconosce alcuna differenza tra l’oggetto fisico e l’immagine dello stesso percepita dalla mente, ciò accade perché gli “illusionisti” «dimenticano la basilare differenza tra il mondo della realtà e l’immagine di esso come viene riprodotta me-diante i colori o il marmo» 22. Insomma, quello che l’immagine rappre-senta passa attraverso il “medium” dell’immagine stessa: il contenuto fa tutt’uno con la forma sensibile, non è altro da essa. In questo sen-so, afferma Arnheim, il “medium” prescrive il modo migliore di ren-dere le caratteristiche del modello. Si può dunque dire che è nell’ope-ra d’arte che si rivela l’intreccio di visibile e invisibile, ovvero il fatto che il non-visibile – i diversi e molteplici significati che possiamo co-gliere nell’opera – è sempre e da sempre inscritto nella forma sensibile. Per questo l’esperienza della visione che l’opera ci offre è storicamente interminabile.

Non si può non vedere su questo punto una stretta affinità tra le posizioni di Arnheim e quelle di Aby Warburg, per il quale c’è nel-l’immagine una dimensione sensibile che non si lascia tradurre nei si-gnificati che sono in essa incorporati, vale a dire nelle rappresentazioni che via via ce ne facciamo. Proprio l’aver sottolineato l’importanza del “medium”, e dunque l’identificazione di forma e contenuto, permette

di superare sia il punto di vista formalistico che, rifiutando di assimi-lare l’opera d’arte a un qualunque “testo” storico, finisce col sottrar-le ogni dimensione temporasottrar-le, sia quello storicistico, che risolve l’ope-ra nella storia e nella cultul’ope-ra. Si tl’ope-ratta allol’ope-ra di riconoscere che il l’ope- rap-porto tra il visibile della forma e il non-visibile del contenuto, che è sedimentato in essa, è non un’antitesi bensì, per dirla con Merleau-Ponty, un “chiasma”. Quello che conta è il tragitto che dal fondo del-l’opera, dal non-visibile, conduce alla sua “apparenza”. Per questo, scrive Klee, «l’apparenza è più di ciò che la cosa dà a vedere» 23, e sempre per questo Edgar Wind sostiene che il lavoro di Warburg è volto a fare emergere un’«occulta molteplicità di rappresentazioni», che si manifestano proprio nella dimensione sensibile dell’immagine. In altri termini, l’interpretazione di un’opera d’arte non è qualcosa come la decifrazione di un geroglifico: non dissolve la forma traducen-dola in qualcosa d’altro, dal momento che si inscrive completamente dentro di essa. Scrive Wind a questo proposito: «Un grande simbolo è esattamente il contrario di un geroglifico; vive con maggior pienez-za quando il suo enigma è stato risolto» 24.

È dunque un pregiudizio, secondo Arnheim, pensare che il pitto-re lavori dipitto-rettamente sul modello, dal momento che lo stesso modello è sempre filtrato da quegli “scheletri strutturali” che guidano la mano dell’artista e che, passando attraverso gli elementi formali, ne fanno emergere gli aspetti significativi per lo stile dell’artista o della sua epo-ca. Così, se l’artista rinascimentale deve scegliere l’aspetto più corri-spondente al suo scopo e rassegnarsi alle omissioni che quel partico-lare punto di vista comporta, invece l’arte primitiva non sente questa regola e accosta liberamente gli aspetti più significativi di ogni parte dell’oggetto – come fa anche certa arte moderna, soprattutto il cubi-smo, combinando diverse vedute da angoli diversi.

Resta comunque il fatto che la modalità “giusta” di una rappresen-tazione pittorica dello spazio è determinata in ogni caso dallo stile di un dato periodo o stadio di sviluppo, ed è per questa ragione che la molteplicità dei diversi modi rappresentativi è accettabile. A questo proposito Arnheim parla di un livello di adattamento in base al qua-le uno stimolo dato viene giudicato in rapporto al livello normaqua-le che si è imposto nella mente del giudicante, non per le sue proprietà asso-lute; così, «nel caso della rappresentazione pittorica, il livello norma-le sembra desunto non dalla percezione diretta del mondo fisico ma dallo stile dei dipinti noti a chi guarda» 25. Questo significa che le for-me e i modi della percezione cambiano insiefor-me agli oggetti con i quali quelli sono in relazione. Una analoga riflessione la troviamo anche in Walter Benjamin quando scrive: «Nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi modi complessivi di esistenza delle collettività umane si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale» 26.

Per questo, continua Arnheim, in ogni contesto culturale il modo cor-rente di rappresentazione pittorica non è percepito affatto come tale e l’immagine è guardata semplicemente come una fedele riproduzione dell’oggetto. Questo significa, ancora una volta, che la forma si presen-ta già come contenuto, ovvero che forma e contenuto fanno tutt’uno. Diversamente, se invece del contenuto qualcuno vede le forme, o se si pretende di cogliere un significato indipendentemente dagli elementi formali, nel dipinto c’è forse qualcosa che non va. Non a caso, sia nel-l’arte astratta che in quella figurativa, gli elementi formali plasmati dal-l’artista – colori, metallo, legno, ecc. – danno sempre vita a un conte-nuto, e questo significa che «la forma “buona” non si vede» 27.

Così la forma figurativa di un oggetto, non che essere la sua proie-zione ottica, è data dal “medium” particolare nel quale l’immagine è eseguita, ed è questo a prescrivere il modo migliore di rendere le ca-ratteristiche di un modello: «Per esempio, un oggetto rotondo può essere rappresentato da una linea circolare mediante la matita. Il pen-nello, che produce larghe macchie, può riprodurre l’equivalente dello stesso oggetto con una chiazza di colore in forma di disco. Quando il medium sia la creta o la pietra, avremo l’equivalente della rotondità nella sfera» 28. Inoltre la forma è determinata anche dallo stile di rap-presentazione proprio di una specifica cultura o di un singolo artista e non soltanto dalle proprietà fisiche del materiale; così, «una chiazza di colore piatta può costruire una testa umana nel mondo pittorico essen-zialmente bidimensionale di Matisse: ma la stessa chiazza apparirebbe piatta invece che rotonda in uno dei dipinti fortemente tridimensionali di Caravaggio» 29. Tutto questo ci dice che per la percezione e il pen-siero la somiglianza tra l’immagine e il modello non si basa su una loro identità bensì sulla corrispondenza delle loro caratteristiche strutturali sostanziali. Queste ultime sono fornite da quel “medium” che è costi-tuito dagli elementi formali nei quali soltanto si dà il rapporto di somi-glianza tra l’immagine e il modello. Il fatto è che, se la forma è sempre forma di un contenuto, allora la rappresentazione, nel rappresentare qualcosa, rappresenta il proprio contenuto e di conseguenza il proble-ma della somiglianza si pone come somiglianza della rappresentazione con ciò che essa rappresenta e di cui appunto è rappresentazione.

È quanto affermano sia Adorno, per il quale l’immagine è «mime-si» di se stessa, nel senso che è rappresentazione del suo stesso conte-nuto 30, sia Wittgenstein, per il quale, se l’immagine artistica «mi dice se stessa», ovvero consiste «nelle sue forme e colori» 31, questo signi-fica che nel dire se stessa essa rappresenta quell’“altro” da sé che è

Nel documento Rudolf ArnheimArte e percezione visiva (pagine 188-200)