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L’ART 50 TUE COME CLAUSOLA DI SECESSIONE COSTITUZIONALIZZATA: UN’ANALOGIA FONDATA?

4. RECESSO DALL’UNIONE E SECESSIONE: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA?

4.3. L’ART 50 TUE COME CLAUSOLA DI SECESSIONE COSTITUZIONALIZZATA: UN’ANALOGIA FONDATA?

Nella sezione precedente abbiamo tentato, nel modo più sintetico consentito da un tema di per sé suscettibile di un’estesa trattazione per la sua complessità, nonché politicamente discutibile, di delineare le caratteristiche fondamentali che le clausole di secessione di rango costituzionale possono assumere e presentano in concreto negli Stati che ne sono forniti.

Tale analisi era propedeutica al confronto che andremo a svolgere in quest’ultima sezione, prima di avviarci alle conclusioni.

Quello che ci interessa adesso è tornare ancora una volta sull’art. 50 TUE, in modo da fare quanto ci siamo ripromessi all’inizio della nostra ricerca: verificare se e quanto esso sia stato influenzato da modelli esterni all’ordinamento dell’Unione Europea ed in particolare da esempi tratti da esperienze costituzionali nazionali.

All’inizio di questa quarta parte, scrivendo del rapporto concettuale fra secessione da uno Stato e recesso di uno Stato membro dall’UE, si è concluso che, per quanto caratterizzati da affinità innegabili, i due rimangono entità distinte e non sovrapponibili. Queste, pur rifacendosi spesso a motivazioni analoghe legate all’aspirazione di una popolazione a “riprendere il controllo” sul proprio territorio e le proprie istituzioni (si tratti di contestare il modello UE mediante un rafforzamento dello Stato nazione oppure di accedere alla piena sovranità ed indipendenza tramite la creazione di un nuovo soggetto politico, anche inserito nell’ambito della governance multilivello europea), sono difficili da porre sullo stesso piano.

Rimane la differenza non trascurabile che si riscontra fra enti statali, dotati di un carattere sovrano e membri dell’Unione in virtù di trattati internazionali, i quali non ambiscono affatto a cancellare ogni traccia di indipendenza degli stessi, rispettandone l’identità costituzionale e tutelandone in vario modo le prerogative, e unità territoriali subnanazionali appartenenti ad uno Stato, le quali, anche nel caso in cui, in un sistema federale o regionalista, godano di una buona dose di autonomia e di partecipazione alla gestione dei propri interessi, non potranno mai assurgere al medesimo status dei primi, che costituiscono soggetti di diritto privilegiati ai sensi dell’ordinamento internazionale, ai quali spetta di rappresentare in quella sede anche le proprie ripartizioni interne. In sostanza, come già accennato, nel caso di uno Stato membro che partecipi ad un’organizzazione internazionale è sempre possibile per questo, secondo la grande maggioranza degli interpreti, sciogliere i propri vincoli sovranazionali261 e cessare di appartenervi, rimuovendo tutte le limitazioni che attraverso la stipulazione di un trattato aveva scelto di imporre ai propri poteri sovrani.

261 Anche se, come si ricorderà, non tutti gli autori concordano sulla configurabilità di un diritto di recesso unilaterale dalle organizzazioni internazionali in mancanza di un’esplicita pattuizione in tal senso, ritenendo in tal caso necessario il consenso delle altri parti del trattato.

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In teoria, questo stesso scenario si ripresenta anche per l’Unione Europea, che non ha mai rinnegato le sue basi affondanti nel diritto internazionale, nonostante che da esse sia poi scaturito un ordinamento che, come riconosce apertamente ormai da tempo la stessa Corte di Giustizia, risulta assolutamente peculiare e, per quanto sia estremamente problematico classificarlo come ordinamento costituzionale in tutto e per tutto, allo stesso tempo non è più semplicemente riducibile a quello internazionale, fornito com’è di proprie istituzioni, di una competenza esclusiva o condivisa con quella degli Stati membri che abbraccia interi settori di materie, di propri meccanismi di risoluzione delle controversie ed interpretazione del diritto prodotto dall’UE stessa etc262

.

Tutti questi rappresentano chiari indizi della sostanziale separazione dell’ordinamento europeo sia rispetto a quelli nazionali che a quello internazionale più generale, separazione che introduce elementi di ambiguità nell’analisi, facendo sì che la disposizione in discussione, così come il corpus normativo nel quale si inserisce, venga a trovarsi a metà strada fra due modelli.

Si pone allora la domanda: date le premesse, quanto si avvicina l’art. 50 alla categoria delle clausole di secessione già ammesse da vari ordinamenti statali? Si può, anche a prezzo di qualche adattamento semantico e concettuale, farlo rientrare in questa famiglia? Oppure, accanto e ancor più della rispettiva natura, ad accomunare le due tipologie di previsione è la funzione svolta?

Per fare ciò, occorre prendere di nuovo in considerazione le caratteristiche dell’art. 50 e confrontarle con alcuni dei tratti principali dei suoi presunti corrispondenti a livello costituzionale nazionale, in modo da evidenziare somiglianze e discrepanze.

Tanto per cominciare, sarà utile fare qualche osservazione sulla funzione ipoteticamente assegnata all’art. 50 e sui compiti che esso dovrebbe assolvere nel sistema UE.

A suo tempo abbiamo ricordato quelle che furono le ragioni pragmatiche che influenzarono in maniera probabilmente decisiva l’introduzione dell’art. 50.

Quest’ultimo, in buona sostanza, risponderebbe all’esigenza tutta politica di contrapporsi all’incalzare del discorso politico euroscettico, incentrato sulla mancanza di democrazia nel funzionamento concreto dell’Unione e sul carattere asseritamente irreversibile ed opprimente delle limitazioni alla sovranità nazionale frutto dei Trattati. L’obiettivo che si voleva raggiungere con il formale riconoscimento di una clausola espressa di recesso era quindi, in una logica di do ut des, maggiore disponibilità da parte

262 Senza contare la vigenza del principio di supremazia del diritto UE su quello nazionale, figura di creazione giurisprudenziale (Costa c. Enel, 1964), e successivamente recepita, non sempre con la stessa estensione immaginata dalla Corte di Giustizia e non senza ambiguità, dai giudici costituzionali dei vari Stati membri, come illustra FRIEL, op. cit., pp. 604 ss. L’autore osserva come la formulazione di questa dottrina contenuta nella sentenza Costa, nello svolgere riflessioni circa la natura delle Comunità Europee, fosse gravida di importanti conseguenze anche per la questione del recesso, dato che si affermava che “The transfer by the States from their domestic legal system to the Community [Union] legal system of the rights and obligations arising under the Treaty carries with it a permanent limitation of their sovereign

rights, against which a subsequent unilateral act incompatible with the concept of the Community cannot prevail” (Flaminio Costa v. E.N.E.L., Case 6/64, [1964] E.C.R. 585, 590, citato ibidem, p. 605). Da

segnalare poi il comportamento degli Stati membri che, pur avendo l’opportunità di introdurre un’espressa clausola di supremazia, sul modello dell’articolo VI della Costituzione statunitense, non lo hanno fatto, implicando così una precisa scelta in tal senso, ovvero l’implicita accettazione, pur non gradendola particolarmente, della dottrina giurisprudenziale della supremazia.

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delle frange politiche e degli Stati membri meno aperti ad un approfondimento del progetto comune europeo, alleviandone i timori di un’eccessiva riduzione della sovranità statale e di una perniciosa perdita di influenza degli Stati membri a livello decisionale.

Tutto questo proprio mentre ci si avviava (dapprima in forma solenne e simil- costituzionale con il Trattato Costituzionale, poi con forse meno enfasi, ma comunque perseguendo innovazioni significative) a cambiare in modo tutt’altro che superficiale i connotati dell’Unione, mediante un aumento delle competenze e dei campi d’azione di questa.

Allargando la visuale, non si tratta forse di un ragionamento che, mutatis mutandis, abbiamo già incontrato parlando di secessione?

Si è sottolineato, in effetti, come in alcune esperienze la costituzionalizzazione della secessione abbia rappresentato proprio questo, un espediente tecnico non privo di risvolti politici impiegato per tranquillizzare partners riluttanti in occasione del momento fondativo e/o di rifondazione/riforma di un ordinamento federale, attraverso l’assicurazione della salvaguardia di un certo ruolo autonomo dei membri della federazione, assieme alla possibilità di abbandonarla qualora questi desiderino in futuro riappropriarsi di tutte o di parte delle prerogative cedute a favore delle istituzioni federali263.

A ben riflettere, una funzione analoga potrebbe essere assegnata anche alla disposizione in questione, specie se vista nell’ottica del tendenziale processo di allargamento dell’UE264

.

Questo non significa necessariamente che dell’art. 50 si intendesse fare lo stesso uso che, come rammentato, hanno ricevuto simili previsioni costituzionali, che assai spesso hanno finito per diventare una mera lettera morta, utile solo in via contingente e da accantonare in seguito, una volta raggiunti gli scopi di aggregazione o ricostruzione perseguiti per evitare una pericoloso rimessa in discussione dello status quo, pur non potendosi nemmeno presupporre che le istituzioni UE risultassero particolarmente ansiose di sperimentarne l’applicazione nella realtà dei fatti.

Si è affermato, anche da parte di alcuni membri della stessa Convenzione Europea, che l’art. 50 fosse una previsione destinata a non essere mai applicata, e pensata di conseguenza265; in altre parole, parrebbe che quella del recesso di uno Stato membro

263

Si veda quanto già ricordato alle note 238 e 239 del presente elaborato. 264 Lo pensa ad esempio C

LOSA, Interpreting Article 50: exit and voice and…what about loyalty?, cit., p. 8, che scrive, riprendendo Helfer, che “Withdrawal provisions are perceived as guarantees for the broad membership of an organisation: they may encourage the ratification of a treaty by a larger number of states than those which would be prepared to ratify it in the absence of such a clause”, e che possono inoltre “enable states to negotiate deeper or broader commitments than would be attainable for treaties without unilateral exit clauses”, riducendo il bisogno di deroghe ed opt-outs.

265 In tal senso si vedano le parole di Giuliano Amato, all’epoca dei lavori Vicepresidente della Convenzione, riportate in https://www.express.co.uk/news/world/692065/Article-50-NEVER-to-be-used- Europe-Brexit-Italy-Prime-Minister, citato da EECKHOUT –FRANTZIOU, op. cit., p. 5. Nell’intervento ivi

menzionato, svoltosi durante una conferenza a Roma nel luglio del 2016, Amato afferma: “My intention was that it should be a classic safety valve that was there, but never used. It is like having a fire extinguisher that should never have to be used. Instead, the fire happened”, mostrando quindi di

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venisse concepita come un’eventualità talmente improbabile e di difficile verificazione che non occorreva neppure soffermarsi più di tanto sul suo pensiero, limitandosi a predisporre una generica previsione in materia senza troppo considerarne le implicazioni concrete, data la convinzione della sua sostanziale inutilità.

L’utilità dell’art. 50 si limita dunque a questo? Ad una semplice extrema ratio da invocare solo quando la situazione di tensione nelle relazioni fra uno Stato membro e l’Unione ha raggiunto livelli intollerabili, il cui impiego è altrimenti impensabile in circostanze per così dire “normali”?

In verità è probabilmente riduttivo voler configurare l’articolo in esame come un semplice strumento di conciliazione politica in una fase di sviluppo “costituente” (o quasi) dell’UE.

Sicuramente esso ha svolto anche una funzione analoga, come ben mettono in luce le circostanze e l’ambito del suo primo inserimento, ma c’è di più.

Non bisogna dimenticare che, prima di tutto e fondamentalmente, l’art. 50 interviene a colmare una significativa lacuna del diritto europeo, risolvendo una controversia politica e dottrinale che, fra alti e bassi, proseguiva sin dalla nascita delle Comunità. Con la sua approvazione e con l’entrata in vigore del TUE riformato a Lisbona, infatti, si chiude definitivamente il dibattito sulla liceità del recesso dall’Unione, con l’ammissione, da parte dei Trattati stessi, ossia di una fonte di diritto di livello primario e fondamentale nell’ordinamento UE, che “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione”.

Più e più volte si è qui insistito sull’importanza che questo ha avuto ai fini del dibattito in tema di recesso.

Ormai non si poneva più la questione del se questo fosse possibile e legittimo, ma del come, delle tempistiche e delle modalità che lo Stato era tenuto a rispettare al fine di effettuarlo conformemente alla disposizione.

Il recesso così, nonostante i persistenti dubbi di parte della dottrina sull’opportunità di una clausola che sembra porre le basi per invertire ed annullare decenni di progressi verso l’integrazione, contrapponendosi a quello che è stato il trend dominante dell’evoluzione europea fino ad oggi, diviene un’opzione reale, lecita e giustificata, smentendo definitivamente quelle voci che, facendo leva sui valori fondanti delle Comunità, si pronunciavano negativamente sulla legittimità di un recesso, almeno se concepito come atto unilaterale dello Stato, di rottura con l’ordinamento UE e di riappropriazione delle competenze trasferite.

Finito il lungo periodo nel quale gli studiosi potevano permettersi di speculare sulla possibilità del recesso e sui criteri che esso avrebbe dovuto rispettare, chiamando in causa ai fini di un’applicazione analogica il diritto internazionale consuetudinario o principi di diritto costituzionale propri degli ordinamenti federali, oggi il recesso è previsto e disciplinato nero su bianco e la disciplina fornita dai Trattati è l’unica passibile di applicazione, scartando altre strade266.

condividere la concezione dell’art. 50 come valvola di sicurezza, già delineata retro, ad esempio alla nota 96 del presente lavoro.

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Assodato che si tratta di una normativa specifica e speciale, che mira a regolare una materia ben precisa ad esclusione di altre soluzioni più generiche267, va notato che nel portare chiarezza essa si avvicina molto ad alcuni dei compiti che solitamente si impongono alle norme sulla secessione.

In particolare anch’essa, nel suo dare forma ad un apposito procedimento per il recesso, finisce di fatto per assolvere alla funzione stabilizzante e “pacificatrice” delle clausole di secessione.

Se non esistesse l’art. 50 o una previsione analoga, come si svolgerebbe il dibattito politico sul recesso?

È pur vero che, prima dell’introduzione di un’esplicita disposizione, gran parte del mondo politico ed accademico, in misura probabilmente maggioritaria, sosteneva la sua conformità al diritto comunitario, anche in forma unilaterale e non concordata con gli altri Stati membri, e che, in occasione del referendum all’uopo convocato nel Regno Unito nel 1975, gli altri Stati non si opposero al suo svolgimento, mostrando così, se non proprio di condividere, quantomeno di non avversare la sua celebrazione ed l’eventualità del recesso di uno Stato dalla CEE.

Tuttavia, in assenza di una disciplina specifica in materia, queste posizioni dovevano considerarsi come dettate da ragionamenti in termini di opportunità politica, mancando di una base giuridica rispetto alla quale valutare in maniera inoppugnabile la loro fondatezza, tant’è che, come si è visto, non erano affatto venute meno, persino in seno alla stessa Convenzione Europea, le opinioni secondo le quali il recesso, almeno se unilaterale, continuava a rappresentare un’enorme contraddizione con i valori europei e quindi non meritava di essere ricondotto allo stesso ordinamento del quale facevano parte questi ultimi.

In mancanza di una regola scritta, fissa e chiara per tutti, nulla poteva impedire in teoria un successivo ribaltamento di opinioni ed il prevalere di idee contrarie a consentire il recesso di uno Stato membro, con il prevedibile sorgere di dispute e controversie che, oltre ad avere pesanti ed inevitabili strascichi politici, con ogni probabilità avrebbero comportato anche un intervento della Corte di Giustizia, l’unica autorità legittimata a chiarire in modo dirimente e con efficacia vincolante il diritto vigente nell’ordinamento europeo, anche con riferimento alle fattispecie non esplicitamente contemplate.

In questo modo, la Corte avrebbe dovuto sobbarcarsi il peso di una decisione in materia, venendosi a trovare in “a quite uncomfortable situation”268

, al pari di quei giudici di vertice che, in altri ordinamenti, hanno dovuto misurarsi con la questione, spesso in

267 Anche perché, ex art. 54 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, come già rammentato, il recesso da un trattato è consentito “in conformità alle disposizioni del trattato”, rinviando quindi in primo luogo a quanto disposto nello specifico dal testo in questione. Nel caso in esame, tale funzione è sicuramente assolta dall’art. 50 TUE, che prevede come propria conseguenza la cessazione dell’applicazione dei Trattati allo Stato interessato.

268 G.M

ARTINICO, Identity conflicts and secessions before courts: three case studies, Revista General de

Derecho Público Comparado 21 (2017), ISSN: 1988-5091, núm. 21, Julio (2017) Iustel, p. 4, dove ci si

riferisce ad episodi come quelli che hanno coinvolto la Corte Suprema canadese ed il Tribunal

Constitucional spagnolo, chiamate a dirimere controversie in punto di diritto, la cui decisione,

nondimeno, finiva per esporle in modo diretto a critiche e contrasti sotto il profilo politico, “bringing them into the centre of political debates”.

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contesti politici tutt’altro che quieti, incaricandosi di cercare di delineare una disciplina applicabile laddove al più si potevano rinvenire nei testi scritti vaghi indizi a favore dell’una o dell’altra soluzione, norme di principio ricavabili in via interpretativa da adattare alla realtà concreta per rispondere ad una domanda di fondo: è ammissibile o no il frazionamento su base territoriale di un ordinamento, quando quest’ultimo non abbia disposto nulla in proposito? Il silenzio va interpretato come permesso o come un implicito divieto?

Le vicende di altri ordinamenti (ed in particolare di quello spagnolo, dove fra il governo nazionale e le autorità catalane sembra essersi ingaggiata una vera e propria guerra giudiziaria oltre che politica, la quale non ha mancato di coinvolgere pesantemente il giudice costituzionale e di minarne autorevolezza ed imparzialità)269 fanno intravedere i gravi rischi insiti in questa soluzione.

D’altro canto, in presenza di una disposizione come l’art. 50 molte di queste preoccupazioni svaniscono o si ridimensionano.

La Corte di Giustizia non sarebbe così tenuta a correre rischi e neppure a prendere una decisione così cruciale per l’ordinamento, che è già stata assunta attraverso la clausola stessa; tuttalpiù, il coinvolgimento della Corte nel procedimento di recesso potrà essere successivo, una volta che lo Stato ha già scelto di utilizzare la clausola, e si limiterà a pronunciarsi, se richiesta, sulla compatibilità dell’accordo con l’Unione raggiunto al termine dei negoziati, o su eventuali controversie relative a vari aspetti sorte nel corso della procedura stessa, secondo le norme dei Trattati che ne regolano le competenze270. Gli attori della procedura di recesso, ovvero lo Stato membro che intende distaccarsi e l’UE (in rappresentanza anche dei membri rimanenti), avranno sicuramente modo di scontrarsi e dividersi su numerosi punti, ma non sull’an della secessione.

Questo fatto, con l’imposizione di “regole del gioco” predefinite e condivise, dovrebbe servire a porre dei limiti ben precisi, stabilendo sin dal principio gli adempimenti da seguire per giungere all’obiettivo del recesso, i quali si impongono come esclusivi ed inderogabili.

Proprio quest’ultima precisazione ci aiuta a comprendere come, in realtà, i redattori dell’art. 50 non abbiano inteso introdurre una libertà di recesso assolutamente priva di

269

Per maggiore dettagli su alcune di queste sentenze si consulti ad esempio, per un sintetico ma efficace riepilogo, A. MASTROMARINO, La dichiarazione di indipendenza della Catalogna, in Osservatorio Costituzionale, Fasc. 3/2017, 27 novembre 2017 (http://www.osservatorioaic.it/la-dichiarazione-di- indipendenza-della-catalogna.html). Sull’inutilità ed anzi sulla dannosità di ricorrere in modo rigido al diritto, ivi compreso quello costituzionale, per reprimere istanze politiche controverse, anziché impiegare il flessibile strumento della negoziazione politica, si veda M. DELLA MORTE, La questione catalana e la

forza perduta del diritto, in www.diritticomparati.it. 19 ottobre 2017 (pubblicato sulla rivista “Il Mulino” il 9 ottobre 2017), il quale, analizzando proprio il caso spagnolo, osserva come, a partire dalla criticata sentenza 31/2010, si sia assistito a “la definitiva conversione della Costituzione in strumento di agone politico”. Al contrario, “Uno Stato responsabile, al tempo stesso, affida alla negoziazione politica il delicato compito di incanalare le istanze radicali (come avvenuto nel caso scozzese); si dimostra, infine, capace di comprendere la portata delle controversie e le ragioni della frustrazione popolare, specie se storicamente ricorrenti e per certi aspetti ragionevoli”.

270 Tuttavia, non si dimentichi che, come già illustrato (nota 200), non è chiaro quanto sia estesa la possibilità di judicial review della Corte di Giustizia sull’accordo, dato che non tutti i commentatori concordano sull’applicabilità di alcune disposizioni del TFUE relative alla Corte anche a questa particolare circostanza.

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limiti, per non dire arbitraria, basata su un diritto dello Stato membro ad agire come preferisce per dar seguito alla propria intenzione di recedere.

Esaminando la normativa dettata dal TUE per effettuare il recesso, e valutandone anche