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LE CLAUSOLE DI SECESSIONE COSTITUZIONALIZZATE (CENNI): IL POSSIBILE TERMINE DI PARAGONE DELL’ART 50 TUE

4. RECESSO DALL’UNIONE E SECESSIONE: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA?

4.2. LE CLAUSOLE DI SECESSIONE COSTITUZIONALIZZATE (CENNI): IL POSSIBILE TERMINE DI PARAGONE DELL’ART 50 TUE

Già in precedenza ci siamo chiesti come mai nel Trattato sull’Unione Europea, ed ancor prima nel Trattato Costituzionale, siano confluite delle ben specifiche disposizioni in materia di recesso.

Appare indiscutibile che, se non l’avessero ritenuto un tema importante e, a suo modo, di attualità (concependo il recesso di uno Stato membro come un’evenienza possibile e non del tutto irrealistica, anche se non particolarmente probabile in quel frangente)233, i membri della Convenzione Europea non avrebbero scelto di inserire nella loro bozza di testo costituzionale per l’Europa una previsione sulla possibilità di recesso, né la Conferenza Intergovernativa che portò al Trattato di Lisbona avrebbe optato per recuperare, in forma quasi immutata, proprio quel preciso articolo.

Si tratta di una scelta che, come si vedrà tra non molto, ricorre anche nei casi di costituzionalizzazione di un diritto di secessione a livello nazionale.

Essi partivano da una situazione nella quale, perlopiù, come evidenziato persino al massimo livello dalla mancanza di opposizione al referendum di permanenza nell’UE svoltosi nel 1975 nel Regno Unito, si riteneva possibile e legittimo il recesso dall’Unione, se non altro in via di fatto, dato che ben difficilmente l’UE o gli altri Stati avrebbero disposto di mezzi per potere far recedere dalle sue intenzioni un membro fortemente intenzionato al ritiro234.

Accedendo a tale visione, che sostanzialmente accettava la compatibilità del recesso con i valori e i principi dell’Unione, agli interpreti favorevoli a tale possibilità non restava che porsi una serie di domande: come disciplinare il ritiro dello Stato membro dall’UE? Quali sono le cause che possono giustificarlo? Quali i requisiti da rispettare? Dove appuntare maggiormente l’attenzione nella costruzione della clausola di recesso, sulle motivazioni sostanziali alla base della decisione o sul procedimento formale attraverso il quale dare attuazione a quest’ultima? Quali istituzioni coinvolgere nel procedimento,

233 Anche R

IEL, op. cit., pp. 593 ss. (scrivendo peraltro in un periodo antecedente non solo al Trattato di Lisbona, ma ai lavori della Convenzione Europea, nel quale la compatibilità del recesso con l’ordinamento comunitario era ampiamente sostenuta, ma tutt’altro che unanimemente accettata da politici e studiosi) si chiede quanto sia verosimile lo scenario rappresentato dall’uscita di uno Stato membro dall’Unione, ed afferma che “However, there are many telling portents that the potential of a State seeking to withdraw from the Union is not merely likely but inevitable at some stage in the not-too- distant future. And those portents come not merely from outside Europe but from within Europe itself”. L’autore procede poi ad una sommaria e generale analisi storica di alcuni periodi del passato più o meno recente del continente europeo, notando come in essi abbiano costituito una tendenza comune i tentativi di erigere aggregazioni politiche sovranazionali, poi regolamente falliti, per quanto una possibile contestazione sia quella che “the Union represents a new departure from the history of Europe” e quindi dovrebbe essere capace di evitare di cadere negli stessi errori di Stati e imperi del passato.

234 P

EI ROO, op. cit., pp. 30 s., osserva che nel periodo pre-Lisbona esisteva già con ogni probabilità “the

political possibility of a unilateral withdrawal from the EU”, ma che al tempo stesso occorresse registrare

“the legal inconceivability of the same”, motivo per il quale egli ritiene che l’introduzione di una disposizione come l’art. 50 TUE vada accolta con favore, “for providing a legal framework that would at the very least, ensure that the EU is institutionally prepared for the political crisis that such an event would pose”.

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e fino a che punto irrigidire o agevolare il recesso, attraverso l’imposizione di adempimenti più o meno pesanti?

Sono tutti interrogativi che, in una forma o nell’altra, si sono già posti alcuni Stati, quelli che per vari motivi hanno scelto di scendere a patti con la prospettiva della secessione e, anziché vietarla e combatterla, hanno preferito agire per porla sotto controllo.

Occorre quindi aprire una parentesi dedicata all’argomento, per tornare poi all’art. 50 una volta delineati meglio i contorni fondamentali della questione.

Potrebbe sembrare singolare che uno Stato, in uno dei momenti forse più solenni ed importanti della propria esistenza, ovvero l’istituzione di un nuovo ordinamento attraverso l’approvazione di una Costituzione, o un suo radicale rinnovamento per mezzo di una revisione costituzionale, decida di occuparsi nello specifico di una questione così potenzialmente controversa come la secessione di una sua parte235. Abbiamo già parlato delle critiche che sono state rivolte da alcuni studiosi di diritto pubblico comparato alla pratica di costituzionalizzare un diritto di secessione dallo Stato nazionale, critiche fondate in particolare sulla sua pretesa contrarietà all’insieme di principi ordinamentali che vanno sotto il nome di “costituzionalismo”, almeno se intesi come le regole fondamentali alle quali deve conformarsi un moderno ordinamento costituzionale di tipo occidentale, che si inserisce in una ben precisa corrente culturale frutto di un processo di sviluppo storico e filosofico.

Se un ordinamento del genere si fonda sull’enunciazione di valori essenziali, i quali di solito includono la proclamazione dell’unità e dell’indivisibilità dello Stato e dell’esclusiva sovranità di quest’ultimo, perché dovrebbe non solo permettere, ma anche incentivare il perseguimento di un obiettivo che parrebbe in grado di minare alle sue fondamenta quell’ordinamento stesso e consentire ad alcuni attori politici di operare dal suo interno per mutarlo profondamente?

Forse, però, esistono delle ragioni convincenti per le quali uno Stato può ritenere opportuno porsi il problema.

Una constatazione comune, nei discorsi politici e dottrinari circa la secessione, riguarda la tendenziale ostilità verso questo fenomeno, visto perlopiù in modo negativo, come una minaccia per equilibri territoriali ed istituzionali più o meno assestati236.

235 Forse, però, non si tratta di un comportamento così singolare e difficile da prevedere se, come scrive con una certa ironia FRIEL, op. cit., p. 593, “There is an old Irish adage that talks about the dynamics of group associations. The thrust of the adage is that having finally agreed to form a group, the very first agenda item for the group is: the split”. Restano da capire le ragioni dietro a questa supposta spinta universale alla separazione e alla regolamentazione della stessa, che in verità non sono mai le stesse in ogni circostanza.

236 Si veda ad esempio quanto scrive S. M

ANCINI, Costituzionalismo, federalismo e secessione, in

Istituzioni del federalismo, numero 4/2014, p. 779, nell’affermare che “Il presupposto di ogni discussione

sulla secessione è la sua fondamentale indesiderabilità. Un’indesiderabilità che, in parte, si spiega con considerazioni di natura strategica (“la secessione è destabilizzante sul piano interno e internazionale”), ma che ha radici ben più profonde, che affondano nella difficoltà di riconciliare le teorie liberali sulla cittadinanza con il nazionalismo, l’autodeterminazione e la sovranità”. Tuttavia, questa diffusa demonizzazione del fenomeno secessionista trova modo di riflettersi “nella schizofrenia della sua regolamentazione giuridica”. Si assiste infatti alla situazione, per vari aspetti paradossale, per la quale, sebbene sia il diritto internazionale che quasi tutte le Costituzioni vietino o comunque non incoraggino

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Non è quindi sicuramente per approvazione o per benevolenza verso questi sentimenti, evidentemente esistenti e dotati di sostegno presso una parte più o meno consistente della loro popolazione, spesso corrispondente a minoranze etnico-linguistiche, che uno Stato odierno decide di occuparsi della secessione; anzi, più spesso il suo scopo è proprio l’esatto opposto, ovvero quello di cercare di scongiurare il distacco di parte del Paese.

L’introduzione di una previsione che consenta la secessione, solitamente contenuta in un atto normativo di rango costituzionale237, può infatti rispondere ad una pluralità di funzioni ed essere ispirata da spinte divergenti, ma tendenzialmente non mira mai a facilitare la secessione, a renderla un diritto esercitabile in modo totalmente libero e insindacabile.

Essa può tentare di agevolare la nascita o la ricostruzione dopo un periodo di divisione di un nuovo soggetto politico, spesso di natura federale, nel quale si intendono aggregare diverse popolazioni ed entità prima indipendenti e distinte238.

In questo modo, secondo una logica confederale, si riconosce uno status particolare a tutte o ad alcune delle componenti del nuovo Stato, concependole come soci paritari di una stessa impresa, dotati di una pari posizione e dignità istituzionale, e dal cui consenso scaturisce, in via quasi pattizia, il nuovo ordinamento: queste componenti sono spinte a rinunciare all’indipendenza o sovranità di cui godevano proprio attraverso la promessa che, se lo vorranno, potranno in futuro riappropriarsene invocando la clausola di secessione.

Il diritto di secessione, quindi, è immaginato come un strumento strettamente funzionale alla creazione e al mantenimento dell’ordinamento federale, mediante il riconoscimento (formale) di una sorta di sovranità quiescente in capo ai membri della federazione,

affatto la secessione, sotto un profilo meramente fattuale “uno Stato nato da una secessione illegittima ha forti chances di essere riconosciuto dalla comunità degli Stati e dalle organizzazioni internazionali”, sottolinenando una notevole disparità fra la teoria e la prassi, fra ciò che in linea di principio viene respinto e bollato come pericoloso e ciò che in pratica è tacitamente accettato. Anche TANCREDI, op. cit., p. 450, accenna ai sentimenti negativi che la secessione suscita non solo a livello nazionale, ma anche internazionale, col diritto internazionale che “continua a mostrare un certo ‘sfavore’ verso i tentativi separatisti”, come si evince ad esempio dalla richiesta di “un’alta soglia di effettività secessionista per vincere la presunzione favorevole alla sovranità preesistente” o dalla “persistenza di asimmetrie favorevoli al sovrano - ed al suo diritto a veder rispettata la propria integrità territoriale, quantomeno da parte di altri Stati o soggetti terzi”, ben visibili nella disciplina internazionale applicabile in caso di secessione per gestire i conflitti. Insomma, non sono soltanto gli Stati a non vedere di buon occhio la divisione di uno Stato, ma la stessa comunità degli Stati, attenta ad evitare ripercussioni potenzialmente destabilizzanti, ma altrettanto aperta ad accettare nelle sua file le realtà territoriali che riescano di fatto a guadagnarsi una legittimazione politica e a consolidare la propria esistenza indipendente, purché rispecchino certe caratteristiche e non minaccino eccessivamente la tenuta del complessivo sistema, tant’è che “la prassi degli ultimi decenni ha messo in luce l’esistenza di regole di natura procedurale, il cui rispetto mira a mitigare, o ad evitare che si producano minacce o violazioni di interessi o valori la cui tutela spesso assume rilevanza collettiva”.

237 Ma, come vedremo fra non molto, in alcuni contesti nei quali il testo costituzionale non si pronunciava espressamente, ovvero era passibile di lettura in senso contrario alla legittimità della secessione, sono state le Corti costituzionali ad intervenire per portare chiarimenti in materia ed interpretare le disposizioni di rango primario in modo da ricavarne o meno un diritto di secessione costituzionalmente conforme. 238 Alcuni esempi di questa strategia sono menzionati da M

ANCINI, op. cit., pp. 789 ss., che ricorda i casi della Costituzione della Repubblica Sovietica Cinese del 1931, di quella sovietica, oppure di quella etiope del 1994.

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blanditi e tenuti sotto controllo tramite la concessione di un’eventuale via d’uscita dall’unione, anche se non sempre a questa promessa corrisponde un’effettiva disponibilità a consentire l’effettuazione del recesso e col passare del tempo, non di rado, simili previsioni finiscono per essere cancellate o svuotate di significato una volta che hanno assolto al loro scopo primario239.

Tuttavia, non necessariamente esso deve prestarsi ad impieghi così “cinici” da parte del potere centrale e risolversi necessariamente in una previsione meramente formale. Esso può anche e semplicemente decidere di agire in tal senso sulla base di una genuina preoccupazione per la stabilità dell’ordinamento, che si vuole tutelare dai rischi derivanti da un’eccessiva tensione attorno al tema della secessione.

In questo modo, lungi dal costituire un pericolo per il costituzionalismo come alcuni l’hanno voluta dipingere, la costituzionalizzazione della secessione potrebbe in realtà avere addirittura la potenzialità di salvaguardarlo impedendo l’esplosione di un conflitto altrimenti incontrollato.

C’è chi ritiene, infatti, che per quanto riguarda la secessione ignorare totalmente il fenomeno e lasciare che si sviluppi in modo libero e non supervisionato sia molto peggio che riconoscere apertamente l’esistenza del problema e tentare di porvi rimedio240.

Si suppone che, se lo Stato non prenderà in considerazione le aspirazioni alla secessione, le quali possono essere più o meno diffuse in un dato ordinamento, ma che potenzialmente prima o poi avranno modo di manifestarsi in qualsiasi realtà, federale o no, allora lo faranno le forze politiche favorevoli alla separazione e lo faranno alle proprie condizioni, avanzando pretese non sostenute dai testi costituzionali e cercando

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Ibidem (ad esempio la Costituzione cinese del 1975, al contrario di quella del 1931, non menzionava più il diritto all’autodeterminazione, anche sotto forma di secessione, riconosciuto in precedenza ad alcune minoranze nazionali). In generale, osserva l’autrice, è lecito nutrire dubbi sulla reale serietà ed utilità di disposizioni costituzionali in tema di secessione presenti in ordinamenti già di per sé colpevoli di ripetute e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali, come esemplificato dalla Costituzione birmana del 1947, la cui previsione del diritto di secessione delle minoranze è rimasta di fatto lettera morta. 240 W

EINSTOCK, op. cit., pp. 187 ss., paragona il secessionismo ad alcuni comportamenti umani comunemente ritenuti immorali (come la prostituzione e l’uso di droghe) che tuttavia un ordinamento giuridico può avere l’interesse a disciplinare, per evitare che essi vengano posti in atto senza alcuna parvenza di regolamentazione, in maniera smodata e potenzialmente pericolosa. L’autore individua tre condizioni delle quali è necessaria la sussistenza per poter dare luogo ad un diritto ad intraprendere simili azioni senza averne la pretesa morale: “the inevitability condition”, “the moral treshold condition”, “the consequentialist condition”. Essi assumono rispettivamente che esista una preponderante probabilità che le persone pongano in essere quelle condotte, anche se non hanno giuridicamente diritto; che i comportamenti da regolamentare non risultino comunque contrari ad un divieto morale assoluto, in modo da agevolarne una legittimazione; che si possa prevedere che le conseguenze di simili comportamenti non disciplinati giuridicamente siano più gravi “than the same behaviour engaged in within legal-procedural parameters designed to offset the foreseeable perverse consequences of granting the right”. Secondo l’autore neppure un esplicito divieto costituzionale di secessione sarebbe una soluzione ideale, perché anche se “such a constitution might very well diminish overt secessionist activity”, potrebbe darsi che allo stesso tempo essa venisse percepita come iniqua ed oppressiva dalle minoranze interessate alla secessione, contribuendo a fomentare tentativi di separazione parte di queste.

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di applicare, in assenza di una chiara normativa, regole di propria creazione, non di rado basate su semplici rapporti contingenti di forza politica241.

Ciò, ovviamente, comporta dei rischi, come quello che il confronto politico sfugga di mano agli attori e provochi reazioni inaspettate, anche violente, specialmente se nessuna delle parti è disposta a recedere dalle proprie posizioni, e se ai tentativi dei secessionisti di rivendicare il conseguimento di un obiettivo ufficialmente non sanzionato dalla Costituzione e probabilmente incompatibile con essa le autorità centrali rispondono mediante una strategia di contrapposizione e repressione, inasprendo il conflitto242. Inoltre, come non è difficile comprendere, situazioni simili si rivelano anche propizie per l’utilizzo strategico della minaccia di secessione, al quale abbiamo già fatto cenno, sia pure con riferimento al diverso contesto del recesso dall’UE.

Ci si riferisce a quel tipo di condotta, a cui hanno fatto ripetutamente ricorso alcune regioni di Stati notoriamente affetti da problemi di separatismo243, consistente nel minacciare la secessione di un dato territorio non avendo come finalità ultima la secessione stessa, ma il conseguimento di un vantaggio di qualche altro tipo, si tratti del formale riconoscimento di una posizione istituzionale particolare e privilegiata in seno all’ordinamento, di modifiche costituzionali funzionali ai propri interessi, od anche e più semplicemente benefici politicio od economico-fiscali.

Un comportamento analogo si basa sull’indubbio potere dissuasivo che la minaccia di secessione è in grado di dispiegare nei confronti delle controparti del soggetto che la formula, specialmente laddove le conseguenze pratiche di un eventuale distacco non siano affatto chiare, e le parti vogliano quindi evitare a tutti i costi di addentrarsi in territori sconosciuti e potenzialmente assai problematici244.

241

Ne è convinto D. HALJAN, Constitutionalising Secession, 16C Worcester Place, Oxford, OX1 2JW, Hart Publishing LTD, 2014, pp. 261 s., che fa presente come “No constitutional order is truly immune from the possibility of secession or fracture (albeit perhaps remaining only latent)”, in particolare gli ordinamenti definibili come “ ‘multi-national’ ‘pluralist’ states”, per i quali la costituzionalizzazione della secessione rappresenterebbe quindi un atto di prevenzione assai utile.

242

Ne vediamo probabilmente un valido esempio nelle odierne vicende spagnole, nel corso delle quali il Governo nazionale, facendo leva sulla previsione costituzionale dell’indivisibilità del Paese (e quindi sul sostanziale divieto di secessione di parte di esso, almeno in assenza di una riforma costituzionale), si è opposto con forza alle richieste di autodeterminazione delle autorità catalane, finendo però per incrementarne, mediante il rifiuto di trattative e compromessi, il desiderio di distacco con mezzi anche unilaterali.

243 Fra i casi più noti e importanti ci limitiamo ad accennare a quelli del Québec, i cui tentativi di secessione dal Canada (culminati nei referendum del 1980 e del 1995) hanno finora teso, in realtà, a porre le basi per un particolare status di associazione politico-economica con la federazione, senza recidere completamente i legami , e della Catalogna, dietro alle cui recenti rivendicazioni sembra celarsi in buona misura il rigetto da parte di Madrid della proposta catalana di raggiungere un accordo fiscale sulla falsariga delle condizioni privilegiate delle quali beneficiano già alcune Comunità Autonome. Per maggiori informazioni su entrambi i casi si vedano P.DUMBERRY, The Secession Question in Quebec, e J. M.CASTELLÀ ANDREU, The Proposal for Catalan Secession and the Crisis of the Spanish Autonomous

State, entrambi in Processi di secessione e ordinamenti democratici dal punto di vista del diritto internazionale e comparato, cit., pp. 357-380 e pp. 429-448.

244

Del diritto di secessione come “risorsa coercitiva” parla V. I. DIAMANTI, L’improbabile ma rischiosa

secessione, in Il Mulino, 1995, p. 185, citato da MANCINI, op. cit., p. 788, la quale nota che, com’è abbastanza facile da intuire, una simile arma verrebbe a trovarsi soprattutto nelle mani delle regioni più ricche e/o popolose di uno Stato, le uniche che potrebbero effettuare minacce di secessione dotate di una qualche credibilità, in quanto dotate di caratteristiche idonee a poter esistere e sopravvivere come entità

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Difatti, posto di fronte alla ventilata possibilità che una parte del Paese possa seriamente tentare di sottrarsi all’autorità centrale/federale, il governo nazionale con ogni probabilità preferirà non rischiare di trovarsi a gestire risultati imprevedibili e quindi cederà alle richieste dei “secessionisti”, acconsentendo a dare loro quello che vogliono per non pregiudicare l’equilibrio complessivo dell’ordinamento.

In questi casi mancherebbe un’autentica volontà di portare a fondo le proprie minacce, che si configurerebbero come un mero strumento di ricatto, da impiegare per aumentare il proprio peso contrattuale e prevalere in una disputa politica che persegue finalità del tutto diverse dal conseguimento dell’indipendenza per un dato territorio, richiamandosi solo strumentalmente ad aspirazione separatiste per alimentare e convogliare particolari sentimenti dell’opinione pubblica.

I comportamenti in questione sono passibili, specialmente se ottengono successo nel procurare ai loro autori i vantaggi desiderati, di essere ripetuti in più occasioni, ogni qual volta appaia strategicamente utile, sfruttando e perpetuando la situazione di perdurante incertezza circa le conseguenze della secessione.

Così agendo rischia però, al contempo, sia di banalizzare il richiamo all’ideale della secessione (del quale può risultare evidente, a lungo andare, l’impiego meramente rivolto a fini utilitaristici ed immediati) che di influire negativamente sullo sviluppo delle dinamiche politiche, suscettibili di ridursi sempre più a contrasti fra posizioni avverse bruscamente rivolti attraverso diktat di una delle parti, che non si fa scrupoli di