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L’arte di diventare ciò che si è

Capitolo 1. Un nuovo modo di concepire la conoscenza

1.2. L’arte di diventare ciò che si è

Sii una lamina d’oro- allora tutte le cose s’inscriveranno su di te a caratteri d’oro.

Nietzsche254

L’assunzione del divenire in senso eracliteo, porta con sé alcune conseguenze. Tutta la realtà viene assimilata a uno scorrere incessante in cui è impossibile mantenere alcunché di stabile. Qualsiasi contrapposizione viene

253 Cf. JGB, cit., pp. 106-107. E. von Hartmann viene chiamato “amalgamista” perché

l’inconscio, che egli pone come principio metafisico del mondo al posto della Volontà schopenhaueriana, è pensato come una combinazione di un principio logico (l’idea) e di un principio illogico (la volontà). Hartmann tenta di unire all’idea hegeliana (intesa come essenza delle cose) un principio di esistenza. Cf. anche FP 26[326] 1884: Hartmann “edulcora il

pessimismo con la teologia”. Per quanto riguarda Dühring, cf. la lettera a Köselitz del 20

maggio 1887: “… è veramente una delle teste meno originali, ma grazie alla sua impudenza d’agitatore, riesce ad ingannare proprio su questo fatto. Avrei potuto a pieno diritto chiamarlo amalgamista come ho fatto con Hartmann”.

254

F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, in OFN VI/1. D’ora in poi indicato dalla sigla Za seguita dal riferimento del brano e dal numero di pagina a cui ci si riferisce.

inghiottita nel flusso eterno del divenire. L’impossibilità eraclitea di immergersi due volte nello stesso fiume deriva dal fatto che a questo affluiscono acque sempre diverse, ma anche dal fatto che siamo noi stessi diversi255. Il flusso del divenire si presenta come l’unica realtà. Non essendovi più un mondo interno accanto al mondo esterno, non si può pensare di essere qualcosa, ma solo di diventarlo. “Negli stessi fiumi tanto entriamo quanto non entriamo, tanto siamo quanto non siamo”256.

Nel frammento 14[A 44] Eraclito esamina la condizione, esteriore ed interiore, di coloro che scendono negli stessi fiumi: esternamente sopraggiungono loro acque sempre diverse; internamente un analogo cambiamento incessante si produce nella loro vita o anima, che deve continuamente essere alimentata, ossia rinnovata, da esalazioni sempre nuove. Il mondo è in continua trasformazione, anche noi stessi lo siamo, in quanto parte del mondo apparteniamo allo stesso flusso257. Per questo dice Eraclito,

14[A 55]: I confini dell’anima nel tuo andare, non potrai scoprirli, neppure se percorrerai tutte le strade: così profonda è l’espressione che le appartiene.

L’anima non ha confini, perché nel percorrere le sue strade perdiamo la mappa, i tocchi della campana della nostra vita. Nella prefazione alla

Genealogia della morale, Nietzsche esprimeva tale impossibilità come una

condanna: “siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi…”258.

255

Per ulteriori approfondimenti sull’immagine del fiume in Eraclito cf. la nota 18 di Mondolfo su I frammenti del fiume e il flusso universale in Eraclito, in ZM, op. cit., p. 39.

256 SGIII, 14[A 46]; 22B49a DK. 257

Cf. OFN VIII/ 1, FP 7[55] 1887: "Se “c’è solo un essere, l’io”, e a sua immagine sono fatti tutti gli altri “enti” –se infine la fede nell’ “io” si sostiene e cade con la fede nella logica, ossia nella verità metafisica della categoria razionale; se d’altra parte l’io si dimostra qualcosa che

diviene: allora---".

258

F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1968-1984, p. 3. (D’ora in poi indicato con la sigla GM seguita dal numero di pagina a cui ci si riferisce).

Ogni esperienza è limitata in quanto fenomeno determinato della particolare situazione in cui ha avuto luogo la percezione. Nietzsche porta alle estreme conseguenze questa serie di riflessioni, giungendo alla distruzione del soggetto stesso. L’unità soggettiva è una finzione. Non esiste un Ego ma una pluralità di io, centri di forza che si contendono il dominio. L’individuo è l’equilibrio provvisorio raggiunto tra i vari io.

In questo contesto nasce lo spazio per una considerazione della morte come trasformazione in senso eracliteo.

Ogni materia inorganica è sorta da quella organica, è una materia organica morta. Cadavere e uomo”259.

I problemi filosofici riprendono oggi in tutto e per tutto la stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo opposto, per esempio il razionale dall’irrazionale, ciò che sente da ciò che è morto, la logica dall’illogicità, il contemplare disinteressato dal bramoso volere, il vivere per gli altri dall’egoismo, la verità dagli errori? La filosofia metafisica ha potuto finora superare queste difficoltà negando che l’una cosa nasce dall’altra e ammettendo per le cose stimate superiori un’origine miracolosa, che scaturirebbe immediatamente dal nocciolo e dall’essenza della “cosa in sé”. Invece la filosofia storica che non è più affatto pensabile separata dalle scienze naturali […] ha accertato in singoli casi […] che quelle cose non sono opposte, tranne che nella consueta esagerazione della concezione popolare o metafisica, e che alla base di tale contrapposizione sta un errore di ragionamento260.

Eraclito non esita a chiamare morte (θάνατος) ogni cangiamento (µεταβολή) da uno stato all’altro della materia.

259

OFN III/3, FP 23[34] 1872-1873.

14[A 49]: a Per le anime è godimento- oppure morte- diventare umide.

b Noi viviamo la morte delle anime, e le anime vivono la morte nostra.

14[A 53]: Per le anime è morte diventare acqua, e per l’acqua è morte diventare terra; ma fuori dalla terra sorge l’acqua, e fuori dall’acqua l’anima.

Per il filosofo di Efeso, nessuna cosa è questa o quella, ma diventa tale solo nel movimento della vita naturale. Secondo la spiegazione di Zeller, le cose “vengono continuamente create ex novo nel flusso dei fenomeni dalle forze operanti”. Esse manifestano “i punti in cui le opposte correnti di questo flusso si incrociano”261.

In un modo simile, Nietzsche sviluppa negli anni ’80 una concezione della realtà sulla base dell’ipotesi della volontà di potenza. Tutta la realtà è volontà di potenza, niente esiste al di fuori di questa. Noi stessi siamo il risultato provvisorio di una combinazione di forze, un frammento di questa volontà, che ci governa alla maniera della folgore eraclitea. La realtà è priva di senso e l’ “individuo”, essendo una parte di questa realtà, è anch’esso un’espressione necessaria, derivante dall’interazione tra le forze. Può quest’essere sottoposto al cambiamento agire in modo da determinare esso stesso la propria esistenza? Può costruire liberamente se stesso? Può “diventare” quello che vuole?

L’esortazione nietzscheana, “diventa ciò che sei!”, deriva da un’espressione di Pindaro262. E’ lecito chiedersi quale sia il suo significato originale e in che modo Nietzsche se ne appropri. Quale senso assume in relazione alla visione greca dell’esistenza individuale? Cosa significa “essere” per Pindaro?

I Greci credevano nel destino. Nella cultura greca arcaica, il δαίµων rappresenta la potenza mitica che dispensa buona o cattiva sorte all’uomo,

261 Cf. ZM, op. cit., p. 63. Pare possibile un accostamento all’immagine nietzscheana della

realtà come il tocco di spada tra le volontà di potenza che si scontrano.

ridimensionando così la responsabilità personale. Eraclito si oppone alla tradizione affermando che il δαίµων è per ciascuno la sua propria indole o maniera di essere, per cui ognuno è artefice del proprio destino. ηθος ανθρώπωι

δαίµων 263. Come abbiamo visto nella prima parte, il giovane Nietzsche valorizzava quest’aspetto assimilando il δαίµων eracliteo al carattere innato di Schopenhauer.

A distanza di anni, riemerge implicitamente il senso che Nietzsche aveva colto nella conoscenza di sé eraclitea, soltanto che adesso non c’è più un carattere innato, un mondo interno separato dal mondo esterno, ma l’unica dimensione del divenire, in cui la libertà di plasmare se stessi consiste nell’inserirsi attivamente nel flusso del divenire.

Si tratta di una visione che resta fondamentalmente tragica, dal momento che la realtà è ridotta a un divenire senza scopo. L’ipotesi della Volontà di potenza non cambia le carte in gioco. Essa è una forza che si autoalimenta, il cui essere è sempre un agire. Eraclito dice:

14[A 10]: All’anima tocca un’espressione che accresce se stessa.

L’uomo di Nietzsche può diventare soltanto ciò che è, poiché il gioco della Necessità resta alla base del processo del mondo come interazione tra le forze. Come può agire l’uomo all’interno della Necessità? Egli si ritaglia un campo di azione attraverso la creatività, uno spazio di libertà nella costruzione di sé. L’esortazione nietzscheana a diventare ciò che si è viene formulata sullo sfondo di un mondo governato dalla Necessità eraclitea.

La totale mancanza di senso della realtà, il suo essere necessariamente determinata, può essere trasformata attraverso una creazione artistica dell’individuo. Il volere ateleologico delle forze può essere trasformato in volere individuale e il determinismo in libertà, dall’uomo che si inserisce attivamente nella necessità. Volere qualcosa presuppone il conoscerla. Pertanto

la conoscenza di sé si presenta come un compito preliminare, un primo passo verso il diventare ciò che si è. “Diventare ciò che si sé”, questo “presuppone che non si abbia neppure una lontana idea di ciò che si è”264.

Il potere creativo dell’uomo nei confronti della realtà, include la possibilità di creare se stessi:

Nell’uomo creatura e creatore sono congiunti: nell’uomo c’è materia, frammento sovrabbondanza, creta, melma, assurdo, caos; ma nell’uomo c’è anche il creatore, il plasmatore, la durezza del martello, la divinità di chi guarda e c’è anche un settimo giorno265.

La frattura principale introdotta da Umano troppo umano è la sostituzione della scienza all’arte. Ma non si tratta di una vera frattura. La scienza proposta da Nietzsche è gaia e condivide con l’arte lo stesso sentimento. Ecco “ciò che

resta dell’arte” secondo Nietzsche:

Questo insegnamento dell’arte, di prendere piacere all’esistenza e di considerare la vita umana come un pezzo di natura, senza lasciarsi troppo trasportare, e come oggetto di uno sviluppo necessario –questo insegnamento si è radicato in noi, esso ritorna oggi alla luce come prepotente bisogno di conoscenza. Si potrebbe rinunciare all’arte, ma con ciò non si perderebbe la capacità da essa appresa: così come si è rinunciato alla religione, ma non agli incrementi e alle elevazioni dell’animo per mezzo di essa acquisiti. Come l’arte figurativa e la musica danno la misura della ricchezza di sentimento effettivamente acquistata e accresciuta grazie alla religione, così, se l’arte scomparisse, l’intensità e la molteplicità della gioia di vivere, cui essa ci ha abituato, esigerebbero ancora di essere soddisfatte. L’uomo scientifico è l’ulteriore sviluppo dell’uomo artistico266.

264 EH, § 9, p. 50. 265

JGB, cit., p. 134.

Per scienza Nietzsche intende principalmente l’esprimere giudizi, i cui termini non si collegano grazie ad un vincolo necessario. Quello che caratterizza questo tipo di giudizio è la concretezza: “soggetto e predicato sono assunti direttamente dalla sfera sensibile […] tratti dal mondo del divenire”267. La scienza è gaia perché i giudizi che la compongono esibiscono l’aspetto del gioco piuttosto che quello della necessità. Montinari dice che il giudizio che appare in Umano troppo umano “merita di essere considerato alla stregua di un nuovo metodo euristico”. Per questo “è difficile attribuirgli dei precursori (ma si ponga mente a Eraclito) ed è certo che fin’ora non sono apparsi dei continuatori”268.

Calma, semplicità e grandezza!

Anche lo stile deve rispecchiare questa aspirazione risultato della forza concentrata della mia natura.

“La via verso te stesso”269.

Se ne La nascita della tragedia l’arte simboleggia il dolore e la gioia originaria (il dionisiaco) che si scaricano in un’immagine apollinea e, in

Wagner a Bayreuth, l’artista assume il ruolo di riformatore della società270, in

Aurora è l’arte di plasmare se stessi come un’opera d’arte.

267 Cf. M. MONTINARI, OFN, IV/2, cit., p. 476. 268 Ivi, p. 477.

269 OFN IV/2, FP 17[27] 1876. 270

Cf. F. NIETZSCHE, Wagner a Bayreuth, § 4, in F. NIETZSCHE, Scritti su Wagner, Adelphi, Milano 1979.