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ASPETTI ECONOMICI: MERCANTI E PROPRIETARI TERRIER

UN CETO TRA REALTÀ E MITO: IL PATRIZIATO VENEZIANO

3.3 ASPETTI ECONOMICI: MERCANTI E PROPRIETARI TERRIER

Nel XIV e XV secolo il commercio era l’anima dell’economia patrizia: era organizzato in

mude, cioè viaggi pianificati dal Senato che coordinava l’attività mercantile, i cui principali

beneficiari erano i patrizi. Fino al pieno XV secolo questa fu una storia di sostanziale successo e fonte di prosperità per l’economia veneziana187. Nel periodo tra fine XV e inizio

XVI avvennero però significativi mutamenti che segnarono la crisi del sistema della muda e portarono a una concentrazione dell’attività commerciale nelle mani di poche ricche famiglie, dissuadendo i patrizi meno abbienti dall’investire in questo settore188. I fattori di

crisi furono molteplici: innanzitutto il lungo periodo di conflitto, che rese insicura la navigazione e costrinse il governo veneziano a dirottare le galere mercantili perché fornissero supporto alla flotta militare, con gravi danni per il commercio189. Un altro

elemento che è stato sottolineato in correlazione con il deterioramento di questo sistema statale del commercio è quello della crisi della fraterna nella gestione dell’impresa commerciale190.

È necessario sottolineare che non si verificò, in questo momento di transizione tra XV e XVI secolo, una crisi complessiva del sistema commerciale veneziano, la quale avvenne invece successivamente a causa della concorrenza delle potenze nord europee e dello spostamento del baricentro dei commerci191. Ciò che si verificò fu il significativo calo dei

partecipanti, a favore della concentrazione degli investimenti commerciali nelle mani di

185

Finlay, La vita politica cit., p. 172, dove si fa riferimento al XV e XVI secolo

186

Ibidem, pp. 166-167, 170-176

187

L. Pezzolo, The Venetian Economy, in A Companion to Venetian History, 1400–1797, a cura di E. R. Dursteler, Leiden- Boston, Brill, 2013, pp. 256-264

188

Cozzi, Knapton, Dalla guerra di Chioggia al 1517 cit., p. 123, 125; B. Doumerc, Il dominio del mare, in Tenenti, Tucci, a cura di, Il Rinascimento. Politica e cultura cit., p. 153

189

Doumerc, ibidem, p. 160-162

190

Ibidem, p. 171; per la gestione dell’impresa commerciale da parte della fraterna si veda ibidem, p. 151-153; per una definizione della fraterna veneziana si veda A. Bellavitis, Family and Society, in Dursteler, a cura di, A Companion cit., pp. 335-337

191

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poche famiglie192. I patrizi che non potevano più partecipare alle imprese commerciali

dovettero perciò cercare altre forme di guadagno, come un incarico statale retribuito. Un ulteriore aspetto va infine evidenziato: in questo modo diminuivano anche le possibilità per i giovani patrizi di svolgere il proprio apprendistato con la mercatura. Un fattore non di poco conto, dato che era opinione comune che « il commercio forniva, con i proventi per il vivere, anche qualità civili, quanto cioè si confaceva all’identità ideale del patrizio veneziano »193. Negli stessi secoli in cui il sistema delle mude raggiungeva l’apice del

successo, un altro fenomeno, di segno profondamente opposto, prendeva gradualmente piede: l’espansione della proprietà terriera patrizia nella Terraferma.

I momenti determinanti di questo radicamento della proprietà fondiaria patrizia furono quelli legati alla vendita dei possessi signorili degli Scaligeri e dei Carraresi, dopo la conquista territoriale delle città venete a inizio XV secolo: in particolar modo nell’area padovana a ridosso della laguna ci furono importati investimenti in tal senso. L’espansione fondiaria non era un fenomeno di per sé nuovo, ma ora assunse proporzioni più vistose. Un discorso analogo è valido per l’area trevisana, dove anche qui la presenza veneziana divenne più capillare. In generale, l’attenzione del patriziato era rivolta quindi ai distretti più confinanti con la laguna, ad eccezione del Friuli, dove tale presenza è sempre stata nettamente marginale, tranne nella zona sud-occidentale. Nel padovano e nel trevigiano la penetrazione fondiaria perciò mise a frutto l’avvenuta conquista per imprimere maggior velocità ad un fenomeno in atto da secoli. Un fenomeno analogo si realizzò nel Polesine, mentre nella Romagna l’espansione terriera ebbe inizio verso la metà del XV secolo. Gli altri distretti non attirarono nella stessa misura l’attenzione del patriziato: nel lontano bresciano, nel veronese e nel vicentino le nobiltà locali mantennero la propria egemonia sulla proprietà fondiaria locale194.

Quale fu la reazione da parte del governo veneziano nei confronti di questa diffusione? In via di principio ostile: oltre a causare possibili attriti con i signori di quelle terre – nel periodo precedente alla conquista della Terraferma – c’era una ragione di fondo ben più rilevante, che concerneva « esigenze di omogeneità e di coesione e di coordinamento del patriziato »195. La proprietà fondiaria presentava una struttura completamente diversa

rispetto quella del commercio: la prima era strettamente individuale, o comunque familiare,

192

Ibidem, p. 268; Doumerc, Il dominio del mare cit., pp. 177-178

193

Cozzi, Knapton, Dalla guerra di Chioggia al 1517 cit., p. 122

194

G. M. Varanini, Proprietà fondiaria e agricoltura, in A. Tenenti, U. Tucci, a cura di, Storia di Venezia, V, Il Rinascimento. Società ed economia, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996, pp. 809-854

195

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e di natura intimamente privata, la seconda collettiva e invece regolata dallo Stato. In aggiunta, gli utili che la terra offriva era anch’essi privati, nel senso che non garantivano un’entrata anche a patrizi di medie e basse fortune, come invece provvedeva il sistema commerciale statale, prima che quest’ultimo entrasse in crisi. La proprietà fondiaria era segno di distinzione all’interno del ceto patrizio, accentuando la linea di demarcazione tra ricchi e poveri196. Oltre a un profitto più stabile rispetto a quelli garantiti dal commercio, la

terra conferiva lustro sociale e poneva il patriziato sullo stesso piano della nobiltà di Terraferma e aggiungendo ulteriori barriere all’interno del ceto patrizio.197

Una domanda ora è necessario porsi: a fronte di questa distinzione interna al patriziato, di natura sia quantitativa – data dalla maggior ricchezza di alcune famiglie acquisita col commercio – e qualitativa – conferita dal prestigio che deriva dall’acquisto della terra – si è in qualche misura verificato un cambiamento all’interno di questo ceto, come effetto dei fenomeni sopra descritti? Una conferma di un mutamento sembrerebbe riscontrarsi in un discorso pronuncio dal doge Lorenzo Loredan198 nel 1513, che nelle intenzioni del doge

doveva incitare i patrizi presenti al Gran Consiglio a partecipare attivamente alla difesa di Padova e Treviso. Nella prima parte di quest’arringa sono contenuti alcuni interessanti riferimenti all’acquisizione di comportamenti estranei alla tradizionale identità patrizia:

Poi il Principe si levò suso et parloe, dicendo : «Semo certi che non sia niun in questo Consejo che non desideri il ben e conservation di la sua patria, come dia far ciascadun che ama la libertà, et però non si afaticherà in questo; ma si vede che per li nostri pecati Dio zà anni ge ha flagellato, e quando credevemo esser fuori semo dentro; perchè se avemo concità l’ira di Dio contra e venuti in odio ai nostri subditi per le pompe si feva e carete e altre cosse no da zentilhomeni, come si soleva far, ma da signori, e vegnir a lite per confini […].199

Ostentazione del lusso attraverso le « pompe » e le « carete» e litigi per i confini delle proprietà fondiaria con i vicini: comportamenti che caratterizzavano la nobiltà di terraferma e che avrebbero dovuto rimanere estranei al patriziato veneziano200. Occorre

196

Ibidem, pp. 126-127

197

Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto cit., p. 325; Cozzi, Knapton, Scarabello, Dal 1517 alla fine della Repubblica cit., p. 171

198

per informazioni biografiche si veda DBI, s.v. LOREDAN, Lorenzo, a cura di Michela Dal Borgo, Vol. 65, 2005

199

Diari, XVI, c. 489-490

200

Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto cit., p. 312; cfr. anche Idem, Repubblica di Venezia e Stati italiani, p. 170, dove si sostiene che nella seconda metà del XVI si completa un processo di separazione del patriziato della laguna che la rende una nobiltà « disgiunta inseparabilmente dai comuni mortali, meritevole di particolari prerogative, inconfondibile con gli altri »

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però chiedersi se il discorso del Loredan avesse carattere retorico o se denunciasse un’effettiva transizione verso modelli di vita diversi, estranei alla tradizione lagunare. Una domanda alla quale è molto difficile dare una precisa risposta. Un dato è però senza dubbi riscontrabile: tra fine XV e inizio XVI secolo si pone in maniera nuova il problema della povertà di parte del ceto patrizio. Una questione alla quale non si troverà mai un’efficacie soluzione e che permarrà fino al crollo della stessa Repubblica201.

3.3.1 ASPETTI SOCIALI: UN CETO DISOMOGENEO

Per valutare appieno la distanza che si era creata all’interna della compagine patrizia si deve prendere in considerazione il discorso pronunciato da un altro doge, il neo-eletto Andrea Gritti. Egli, il giorno 26 maggio 1523, enunciò i punti programmatici del proprio governo. Nella conclusione egli affrontò con decisione la questione presa in considerazione in questo paragrafo:

il Doxe si levò in piedi et fece le parole solite far per li Doxi il primo Gran Consejo […] poi disse che l’ era disposto aiutar li poveri zentilhomeni ed il publico et il privato perchè in questa terra ne son richi, mezani e poveri, et è ben conveniente il richo aiuti il mezan e il mezan il povero : e su questo si dilatò troppo, et con questo messe fine. 202

Segnali in tal senso si erano già verificati alcuni anni prima: lo testimoniano le vicende di due Capi dei Quaranta, Gabriele Bon e Francesco Falier, i quali nel 1492 avanzarono alcune proposte a favore dei nobili indigenti, e di Giovanni Antonio Minio, che in Maggior Consiglio si oppose ad un provvedimento, avanzato nel mese di dicembre 1501, che doveva dimezzare gli stipendi pubblici per far fronte alle spese di guerra. Ciò avrebbe significato diminuire i provenienti di quell’ampia fetta di patriziato che sussisteva grazie agli incarichi. Tutti e tre furono esiliati dal Consiglio di X, con l’accusa di voler disturbare l’ordine pubblico203.

L’indigenza economica aveva effetti negativi per il singolo patrizio perché lo relegava in una condizione di piena emarginazione: da un punto di vista politico, egli non poteva

201

Per tale problema si veda ad esempio L. Megna, Nobiltà e povertà. Il problema del patriziato povero nella Venezia del ‘700, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, CXL, (1981-1982), pp. 319-340

202

Diari. XXXIV, c. 228-229

203

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aspirare alle cariche più prestigiose e autorevoli perché non prevedevano un compenso. Da un punto di vista culturale, essere poveri significava non poter dare ai propri figli l’istruzione necessaria per adempiere ai compiti governativi. Non solo la povertà aveva effetti gravi sulla condizione dei singoli patrizi che ne erano affetti, ma aveva anche conseguenze più ampie: la questione verteva su come adoperare quest’ultimi all’interno delle rete amministrativa senza che essi abusassero delle loro posizioni per guadagnare un utile o su come evitare aperte ribellioni e moti di dissenso204. Non da ultimo, la povertà

poteva spingere alla già accennata pratica della corruzione205. La motivazione indicata per

spiegare perché il problema si manifestò in questo momento storico è quella dell’incremento demografico, che interessa il patriziato per tutto il XV secolo, trend che si rovescerà nel corso del pieno XVI secolo. Il considerevole aumento quantitativo della nobiltà, unito al già menzionato ridimensionamento dei guadagni dalle attività commerciali, spinse i nobili depauperati a cercare un impiego pubblico, affollando l’aula del Maggior Consiglio206.

Nonostante questa evidente disomogeneità interna, il patriziato continuava ad essere giuridicamente una compagine di eguali. Un dato che appare in forte contrasto con la realtà di alcuni patrizi che si assicurarono lustro e autorità tali da rasentare una dignità principesca: è il caso di alcune famiglie che riuscirono a gestire un vero e proprio monopolio dei vescovadi e dei benefici ecclesiastici all’interno della Repubblica o di altre casate che ottennero investiture feudali207. In particolare, i Grimani, i Corner e i Pisani

avevano contribuito alla mediazione tra Papato e Repubblica nel post-Agnadello e avevano ricevuto come ricompensa numerose utilità ecclesiastiche, che rendevano dubbia la lealtà di questi patrizi e dei loro famigliari verso la Venezia. Analogamente, divenire feudatari implicava l’effettiva possibilità di sottrarsi al controllo esercitato sugli altri patrizi, come nel caso dei Vendramin, signori di Latisana, o quello degli Zorzi a Zunelle208. D’altro canto il

controllo effettuato sui membri di questo ceto si amplierà notevolmente nella seconda metà del XVI secolo, con l’avocazione da parte del Consiglio di X, nel 1571, di tutti i processi criminali in cui fosse presente un patrizio, come offeso od offensore. Una decisione gravida

204

Cozzi, Knapton, Scarabello, Dal 1517 alla fine della Repubblica cit., p. 170

205

Infra, pp. 8-9

206

G. Trebbi, La società veneziana, in Cozzi, Prodi, a cura di, Dal Rinascimento al Barocco cit., p. 134

207

Ibidem, pp. 142-144

208

Cozzi, Knapton, Scarabello, Dal 1517 alla fine della Repubblica cit., pp. 21-22, 172; per una mappatura completa delle isole giurisdizionali all’interno della Repubblica di Venezia e del loro rapporto con la Dominante si veda S. Zamperetti, I piccoli principi: signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600, Venezia, Il cardo, 1991

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di conseguenze, dal momento che si conferiva ad una ristretta cerchia di nobile un’enorme facoltà decisionale nei confronti di individui che, su di un piano meramente formale, erano loro pari209.