FAMIGLIA PATRIZIA, STATO E POLITICA
4.2 LA SOCIETÀ PATRIZIA A VENEZIA
4.2.2 VOLONTÀ TESTAMENTARIE
Un’analisi più precisa dei testamenti può essere a questo punto utile per confermare alcune nozioni già espresse in merito ai diversi orientamenti assunti da uomini e donne patrizie nei confronti della parentela. In merito alla questione della dote, che a breve sarà esaustivamente affrontata, le decisioni prese dai testatori variano sensibilmente: all’interno del nucleo parentale, le preoccupazioni di padri, fratelli del padre, nonni e zii paterni sono indirizzate prevalentemente verso gli interessi del patrilignaggio, quindi in primo luogo i discendenti maschi diretti, ma non solo. Nello specifico, anche la volontà di compiere donazioni dotali verso le donne appartenenti al proprio lignaggio era riconducibile a logiche di ricerca di onori e profitti per la linea maschile. Tra le donne si riscontrano invece modelli differenti: esse ancora una volta non badano a logiche di lignaggio, distribuendo spesso le proprie sostanze al di fuori del lignaggio maritale. Quando un uomo aiuta le figlie delle sue figlie, e indirettamente il lignaggio del cognato, la ragione si colloca nell’assenza di un erede diretto che perpetui il suo lignaggio. Le donne non dimostrano invece tale pregiudizio277. In sintesi, come già accennato, nelle scelte testamentarie, gli uomini tendono
a favorire il proprio lignaggio, mentre le donne non condividono tale priorità. Per loro le considerazioni di lignaggio, maritale o natale, sembrano non importare, al contrario dei
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Ibidem, pp. 215-218
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legami famigliari, sia maschili che femminili, maritali che natali, i quali si pongono invece come l’imperativo seguito nelle loro valutazioni278.
Premettendo che queste considerazioni sono state dimostrate per il XV secolo, è utile prendere ora in esame alcuni testamenti che Marin Sanudo ha ritenuto opportuno trasmettere ai posteri e in tal modo verificare se a inizio XVI secolo si riscontrano discontinuità con il modello sopra proposto. Non è qui tuttavia possibile esprimere giudizi di natura quantitativa, a causa della tendenza del diarista di riportare solo i testamenti dei patrizi maschi più in vista all’interno del panorama politico veneziano, quindi ci limiteremo ad apprezzamenti di tipo qualitativo. Il primo caso è quello del cardinale Giovanni Battista Zen, morto nel maggio 1501, a Padova, dove nei giorni precedenti al decesso si erano lì recati alcuni parenti, nell’evidente attesa della lettura del testamento, che avvenne pubblicamente279. Dalla lettura dei legati si evince la smisurata ricchezza posseduta da questo personaggio, che superava i cento mila ducati.
La maggior parte di questi averi venne destinate a opere pie e caritatevoli, ma il legato più sostanzioso è quello destinato a quegli stessi parenti che si trovavano nella città patavina al momento della morte del cardinale: quindicimila ducati per sette parenti maschi da Ca’ Zen. Di questi, novemila furono lasciati ai diretti perpetuatori del suo lignaggio: seimila ducati al nipote Girolamo di Pietro e tremila allo stesso Pietro di Cattarino, suo fratello. Mille ducati furono dati a Silvestro di Pietro, probabilmente un altro nipote, anche se nei
Diari ciò non viene esplicitato. Tremila ducati furono assegnati a un’altra coppia formata
dal figlio Vincenzo e dal padre Tommaso Zeno, di cui però non conosciamo i precisi legami parentali con il cardinale. Allo stesso modo non è esplicitata la parentela che lega il testatore ad Alvise di Francesco e a Baccalario Zen, entrambi beneficiati di mille ducati280.
Non conoscendo i precisi legami parentali e non potendo perciò sapere se tutti i patrizi sopracitati appartengano allo stesso o a più lignaggi interni alla casata, dobbiamo limitarci a notare che il cardinale ha deciso di favorire la casata di appartenenza, dividendo le sue ricchezze tra soli parenti di sesso maschile che portavano il suo stesso cognome.
Nell’ottobre 1513 in un scontro con l’esercito spagnolo nemico morì Andrea di Nicolò Loredan, provveditore generale e in passato anche Capo del Consiglio di X281. Il testamento
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Ibidem, p. 150
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Diari, IV, col. 34-36
280
Ibidem, col. 79-80
281
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è sensibilmente diverso da quello del cardinale di Ca’ Zen, ma non nell’esprimere un evidente interesse di fondo per le sorti del lignaggio:
Et fo letto il suo testamento. Lassa la casa granda a suo nepote Andrea Loredan di sier Alvise conditionata, ma prima la sia in vita soa di soa moglie, a la qual lassa ducati 4000 computà la soa dote e tuto il mobele di casa et certa possession; la casa che vadi di heriede in heriede in perpetuo, et non essendo più soi parenti in Colegio, per il Principe che sarà sia electo uno da ca’ Loredan qual galdi la dita caxa e sii chiamato Andrea, ancora che altro nome avesse.282
La prima preoccupazione che anima il provveditore generale, dopo alla restituzione della dote della mogie, è quella di legare la casa, la risorsa evidentemente più importante nella mentalità del testatore, a una catena di eredi, a quali è richiesto di rimanere all’interno del Collegio, in modo tale da garantire al lignaggio una posizione rilevante all’interno della vita politica283. Di notevole importanza è la misura che Andrea di Nicolò Loredan vuole che venga adottata qualora questa condizione non sia rispettata: egli prospetta quella che potremmo definire come l’adozione di uno dei membri della più estesa casata dei Loredan. Colui che sarà eletto avrà modo di identificarsi con il nuovo lignaggio attraverso la possessione della casa, emblema quindi di questo segmento lignatico all’interno di ca’ Loredan, e il cambio del nome in Andrea, lo stesso del testatore284. Il testamento prosegue infine con alcuni donativi in denaro ad un cugino e ai rispettivi figli, appartenenti allo stesso casato, per poi contemplare i cognati, da ca’ Minio, e altri legati lasciati ad altri parenti di ca’ Loredan e ca’ Venier. In questo caso, dopo aver assicurato gli interessi del lignaggio nel modo analizzato, il patrizio divide le sue sostanze all’interno della rete parentale bilaterale, in cui c’è spazio anche per i legami stabiliti attraverso il proprio matrimonio con i parenti della moglie285.
Degno di interesse è anche il caso Pietro di Pietro Guoro dai Carmini. Egli non disponeva di eredi che perpetuassero un suo lignaggio, perciò la scelta è stata quella di beneficiare « tutti i soi parenti da cha’ Guoro e da cha’ Zivran »286, quindi la linea di discendenza paterna
e quella – con tutta probabilità – materna. Una scelta che venne approvata da Marin
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Ibidem, col. 181-182
283
Per una disamina generale sulla questione successoria si rinvia a Rouland, Antropologia giuridica cit., pp. 223- 226, dove si pone in evidenza come, oltre ai beni materiali, oggetto di trasmissione sono anche funzioni e cariche
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Si veda quanto affermato in merito sullo « spazio di lignaggio » in ibidem, pp. 216-217
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Diari, XVII, col. 181-182
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Sanudo287, anche perché comunque Pietro decise di lasciare la proprietà dell’immobile
all’interno della casata Guoro. Ultimo dettaglio, dentro dell’edificio era riposta, in un tabernacolo, una spina che si diceva appartenesse alla corona di Cristo: questa fu donata alla scuola della Misericordia, alla quale Pietro apparteneva288, invece di rimanere come lascito
alla sua casata, probabilmente in alternativa alle pias causas usualmente presenti negli altri testamenti. Cause pie che sono invece ben presenti nel testamento di Pietro Grimani, cavaliere gerosolimitano, abate di Rosazzo e priore di Ungheria, figlio del futuro doge Antonio. Pietro Grimani decise di lasciare tutte le sue sostanza, una volta eseguiti alcuni specifici legati, al padre e « per mitade, a’ soi fradeli sier Vicenzo e sier Hironimo »289,
confermando il più generale orientamento teso a garantire gli interessi del patrilignaggio da parte degli uomini patrizi veneziani.
Si discosta da questa tendenza l’ultimo caso qui presentato, quello del procuratore Antonio Tron, che nel codicillo redatto nel corso della malattia, che ne causò la morte nel gennaio 1524, designò come erede Gasparo di Tommaso da ca’ Molin, suo pronipote, figlio di una figlia di sua sorella, la quale si era sposata con un certo Angelo Miani. A questo parente Antonio lasciò una grandissima somma di danari, mentre ai figli, Luca e Marco, solo un « zerto stabele a Rialto, conditionato si harano fioli »290. Distribuì la sua ricchezza
anche tra vari parenti da ca’ Foscarini, Lion e Marcello. Inoltre egli fece dono a Pietro Contarini e a suo figlio, parenti per via materna, di millecinquecento ducati del Monte nuovo e la metà di una certa osteria a Rialto, la cui altra metà era già posseduta dagli stessi Contarini291. Antonio Tron sembrerebbe aver dedicato perciò più attenzione alla estesa rete
bilaterale in cui era collocato piuttosto che limitarsi a salvaguardare gli interessi dei suoi stessi figli. Nonostante questo caso, riteniamo comunque possibile confermare la tendenza generale, già riscontrata per il XV secolo, dei nobiluomini veneziani a porre al centro delle proprie volontà testamentarie quelle misure che più avvantaggiavano il lignaggio d’appartenenza, senza trascurare però tutti quei legami acquisiti per via ereditaria – in linea materna – e quelli conseguiti attraverso il matrimonio, cioè la parentela cognatizia.