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LA FORMAZIONE DI UN CETO DIRIGENTE

UN CETO TRA REALTÀ E MITO: IL PATRIZIATO VENEZIANO

3.2 LA FORMAZIONE DI UN CETO DIRIGENTE

Il fenomeno che diede vita giuridica al patriziato veneziano fu la Serrata del Maggior Consiglio. Tra fine XIII e inizio XIV secolo furono modificati i requisiti d’accesso a tale organo attraverso l’affermazione del principio che, per accedere permanentemente al suo interno, era necessario esserne già membri oppure esserlo stati negli ultimi quattro anni. Ulteriori candidature dovevano essere sottoposte a verifiche da parte della Quarantia. Nel giro di pochi anni i criteri per l’ammissione divennero più astringenti fino a che, nel 1323 l’appartenenza al Maggior Consiglio divenne fondamentalmente ereditaria ed imprescindibile per l’assegnazione di incarichi ed uffici. In questo quarto di secolo gli

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appartenenti a questo consiglio erano più che raddoppiati, superando il migliaio di membri171. L’effetto fu quello di definire i « contorni sociali dell’élite dirigente a Venezia

attraverso la creazione di un legame giuridico tra l’appartenenza al corpo sovrano e lo status sociale »172, sancendo cioè l’appartenenza al ceto dirigente in relazione alla partecipazione

alle sedute del Maggior Consiglio. Conseguentemente, perdere il diritto di partecipare alle elezioni che si tenevano nel Maggior Consiglio significava perdere il proprio titolo nobiliare ed essere esclusi dalla casta che si era formata.

Il requisito fondamentale per poter essere eletti per le cariche dello Stato divenne perciò la nascita all’interno di una famiglia patrizia. Il numero delle casate, e quindi dei suoi membri, che detenevano il diritto di accedere al Maggior Consiglio aumentò di trenta unità all’indomani della guerra di Chioggia come ricompensa per l’aiuto prestato durante gli anni di guerra. La regolamentazione dell’accertamento della condizione nobiliare divenne quindi una delle maggiori preoccupazioni statali: i cinquant’anni tra fine XIV e inizio XV testimoniarono gli sforzi compiuti per stabilire irreversibilmente l’esclusività del patriziato. In tal senso, venne istituita una politica specifica atta a porre le basi per l’identità di questa

ruling class, misure che comprendevano, tra le altre, regole più cogenti in materia

matrimoniale rispetto al passato. Tuttavia, il prisma dell’impermeabilità del ceto patrizio fu raggiunto con le deliberazioni di inizio XVI secolo, quando venne istituito il cosiddetto Libro d’Oro delle nascite e un registro dei matrimoni che concernevano i patrizi173.

3.2.1 ALCUNE CARATTERISTICHE

Riconoscere un patrizio ai tempi della Serenissima Repubblica non era affatto arduo: essi, quando si recavano a Palazzo Ducale, indossavano una toga nera. Questa costituiva per i nobili un « abito da lavoro per l’attività politica »174 ed era un vero e proprio segno

d’identità: di uniformità rispetto i propri pari e di distinzione nei confronti del resto della popolazione non patrizia. In questo senso la toga era una rappresentazione dello spirito

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Lane, Storia di Venezia cit., pp. 131-135; cfr anche Idem, The Enlargement of the Great Council of Venice, in J. G. Rowe e W. H. Stockdale, a cura di, Florilugium Historiale: Essays Presented to Wallace K. Ferguson, Toronto, University of Toronto Press, 1971, pp. 237-274

172 D. Raines, La dote politica della sposa nei giochi di potere del patriziato veneziano (XVI-XVIII secoli), in U.

Baldini, in G. P. Brizzi, a cura di, AMICITIAE PIGNUS. Studi storici per Piero Del Negro, Milano, Edizioni UNICOPLI, 2013, pp. 401-425

173

S. Chojnacki, Family and State, Women and Men, in Women and Men in Renaissance Venice. Twelve Essays on Patrician Society, Baltimore and London, The John Hopkins University Press, 2000, pp. 7-8; cfr. Raines, La dote politica cit. Questa politica di definizione dell’identità patrizia e altre considerazioni su ruolo della famiglia e relazione della stessa con la realtà statale saranno più marcatamente affrontate nel prossimo capitolo

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repubblicano e dei suoi valori, in primo luogo l’uguaglianza formale della nobiltà della città di Venezia. Il colore della sopravveste cambiava a seconda dell’incarico ricoperto, ad esempio il rosso designava l’appartenenza alla Signoria e al Consiglio di X, il porpora indicava il grado senatorio, blu e viola erano i colori dei membri del Collegio. In questo senso si esprimeva un’importante insegnamento: solo l’attribuzione di una carica da parte delle assemblee della Repubblica poneva un patrizio in condizioni di distinguersi e di elevarsi al di sopra degli altri patrizi175.

Se la toga, nera o di altro colore, era un elemento che esteriorizzava la condizione patrizia, un aspetto di converso interiore – per così dire – che accomunava tutti i patrizi era il già menzionato arbitrium. Questa facoltà, che ogni patrizio era chiamato a porre in essere nel caso in cui gli fosse richiesto di ricoprire il ruolo di giudice o di arbitro, era il fondamento del sistema giuridico della Repubblica, come già affermato176. Tale prerogativa ovviamente poteva prestarsi ad abusi, ma venne comunque mantenuta fino al crollo della Serenissima. Il suo utilizzo era giustificato dalla ricerca pragmatica del bene della res

publica177. Oltre a conferire al patriziato un rilevante potere decisionale, l’arbitrium aveva

anche il vantaggio di favorire il ragionamento politico in luogo di quello tecnico. Quando esercitata, questa prerogativa formava dunque l’abito mentale per sostenere le più complicate questioni di governo, le quali richiedevano una non incurante dose di elasticità, contribuendo a quell’attitudine alla politica di cui il patriziato diede costante prova nei secoli.178

La percezione della distinzione – e della distanza – che intercorreva sul piano giuridico nei confronti della popolazione non nobile era ben avvertita dai patrizi. Non solo, questa divisione era anche giustificata a livello teorico con l’asserzione che solo i nobili fossero gli unici cives. Questa è l’idea che comunemente era avvalorata dagli scrittori veneziani del XV e XVI secolo. La Serrata del Maggior Consiglio divenne quindi momento qualificante non solo nella formazione di una nobiltà ereditaria, ma, in accordo con la concezione medievale del diritto di cittadinanza, anche di un popolo dotato di diritti politici, che non furono garantiti invece a coloro che non vi presero parte. Il cerchio si chiudeva perciò con il riconoscimento che nel Maggior Consiglio avevano accesso solo i nobili cittadini, mentre la

175 Ibidem, pp. 45, 47 176 infra, p. 43 177

Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani cit., pp. 314-315

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plebe ne era esclusa179. Questo sforzo di autolegittimazione era solo uno degli aspetti del

pensiero politico del patriziato, il quale era spesso mosso dalla volontà di dare giustificazione alla repubblica aristocratica nella sua forma storica180. Riflessione politica

che sfociò nel mito, come vedremo. 3.2.2 UFFICI E CARICHE

Essere un patrizio con un seggio all’interno del Maggior Consiglio era un fatto gravido di conseguenze: forse la più importante, che fungeva da premessa per gli altri fattori, era che i membri di quest’organo, ritenuto la fonte del potere, degli onori e delle cariche181, erano

investiti di quella stessa sovranità, seppur in misura evidentemente minore, di cui era depositario il doge. Ad esempio, i rettori inviati dalla Dominante nei territori ad essa soggetta si distinguevano nettamente nei confronti di governatori e amministratori incaricati da sovrani e signori di altre realtà statuali. Una discriminazione che trovava ragion d’essere nel fatto che i primi, a differenza dei secondi, non erano dei meri rappresentanti di un’autorità superiore: essi stessi erano custodi della sovranità della Repubblica. I rettori, e gli altri ufficiali inviati da Venezia, erano perciò simboli viventi della Serenissima Signoria e ne incarnavano il potere e le facoltà182. Altrettanto importante era il fatto che l’ascrizione

ai ranghi del Maggior Consiglio era l’operazione preliminare per concorrere alle elezioni per uffici e incarichi: in sintesi, la carriera politica di ogni patrizio vedeva il proprio punto d’origine nell’accesso al Maggior Consiglio.

Tre erano i fattori principali che determinavano, in genere, il cursus honorum di un patrizio: ricchezza, grandezza e rilievo della sua famiglia d’appartenenza183. Erano presenti ovviamente anche delle eccezioni: un caso clamoroso è rappresentato Antonio Grimani, doge nel 1521, il quale proveniva da un casato di medie dimensioni, aveva una madre non nobile e non disponeva nemmeno di cospicue fortune economiche. La sua abilità di mercante gli permise di superare questi ostacoli e, grazie al patrimonio guadagnato, di proiettarsi con successo all’interno del sistema governativo veneziano, riuscendo anche a garantire al proprio figlio un seggio cardinalizio184. Un valore aggiunto, positivamente

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A. Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, in G. Arnaldo, M. P. Stocchi, a cura di, Storia della Cultura Veneta. Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, III, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1981, pp. 527- 532

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Ibidem, p. 515

181

infra, pp. 37-38

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Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente vento cit., pp. 302-303

183

Finlay, La vita politica cit., p. 115

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valutato all’interno del sistema politico veneziano, era l’età avanzata, che si collegava all’esperienza e alla temperanza, al punto che l’età media a cui venivano eletti i dogi era 72 anni185. Non solo chi occupava questa carica, ma tutti gli uffici più prestigiosi, e che

comportavano maggior autorità, era invariabilmente destinati ad essere occupati da anziani patrizi, al punto che Robert Finlay definì i massimi vertici della compagine governativa come una vera e propria gerontocrazia186.