Gli spagnoli furono i primi ad arrivare nel Nuovo Mondo e a conquistare ampi territori che andavano dai Caraibi all’America centrale e buona parte dell’America meridionale. Il sistema atlan ti co spagnolo rappresenta quindi la prima grande ondata dell’espansione europea attraverso l’oceano. Altri paesi europei, come la Francia, l’Inghilterra e l’Olanda avrebbero seguito l’esempio spagnolo, ma solo un secolo più tardi, quando ormai i valori, le pratiche, i costumi erano profondamente mutati rispetto all’epoca dei viaggi di Colombo. Anche i portoghesi, che giunsero nel Nuovo Mondo insieme agli spagnoli, costruirono, a causa delle condizioni incontrate e delle precedenti esperienze in Africa, degli insediamenti molto diversi da quelli spagnoli. Il sistema atlan ti co spagnolo, anche se molto differenziato al suo interno, acquista così delle caratteristiche specifiche che lo distin- guono, in parte, dagli altri imperi. Tale sistema è il risultato dell’interazio- ne tra elementi della società metropolitana, incluse ovviamente le politi- che imperiali, e le condizioni e realtà locali.
Se la conquista fu essenzialmente un’impresa privata condotta sotto l’egida della corona spagnola, caratterizzata da elementi medievali come la concessione di terre, titoli e privilegi in cambio dell’impresa colonizza- trice, in una fase successiva la corona cercò di esercitare un controllo più esteso sulle colonie americane in formazione. Lo stesso Cortés, che per le sue imprese aveva ricevuto un titolo nobiliare e poteri giurisdizionali mol- to estesi, ben presto vide la sua autorità fortemente limitata. La battaglia sull’encomienda costituisce un punto molto significativo della vicenda.
Istituita per ricompensare i servizi dei conquistatori e dare loro una parte di bottino sotto forma di tributi e prestazioni di lavoro indiano, i suoi ef- fetti distruttivi sugli indigeni e la sua tendenza ad alimentare l’istituzione
di feudi semi-indipendenti costrinsero la corona a ritirare queste conces- sioni nel tempo, provocando rabbia, disobbedienza e persino ribellioni, come nel caso peruviano.
Negli anni quaranta del Cinquecento c’erano circa seicento encomien- das nella Nuova Spagna e cinquecento in Perù. La maggior parte di queste
era stata concessa da Cortés e Pizarro agli uomini che avevano fatto par- te dei loro eserciti e queste concessioni erano poi state successivamente ratificate dalla corona. Questa, però, turbata dai maltrattamenti e dallo sfruttamento brutale degli indigeni da parte di molti encomenderos e pre-
occupata anche dal declino spaventoso della popolazione nativa, cercò di trasformare le pesanti prestazioni di lavoro degli indigeni in tributi. Deter- minata a prevenire l’insorgere di un’aristocrazia di tipo europeo, la corona lottò anche per impedire che l’encomienda si trasmettesse per via eredita-
ria. Malgrado la ribellione dei coloni in Perù e l’opposizione diffusa nella Nuova Spagna la obbligassero a revocare una clausola delle Leggi Nuove del 1542, secondo la quale tutte le encomiendas ritornavano alla corona
alla morte del detentore, la trasmissione dell’encomienda da una genera-
zione all’altra non fu mai un fatto automatico e doveva essere ratificata dalla corona, che ne rimase di fatto la padrona. Nel lungo periodo, questa situazione determinò la quasi totale scomparsa delle encomiendas nell’area
andina e mesoamericana e la loro sopravvivenza solo in alcune regioni di frontiera, come il Cile e la Nuova Spagna settentrionale1.
In questo modo la corona riuscì a strappare la manodopera indigena dal controllo assoluto dei coloni. Non si trattava solo di fornire a questi ultimi una protezione, come stabilito dalle bolle papali; in gioco c’era molto di più che la coscienza della corona. Gli indigeni erano infatti una fonte di tributi e di lavoro e la monarchia era decisa ad avere la sua quota da entrambi. Più combatteva in Europa, come avvenne sotto Carlo v, più cresceva la sua dipendenza dalle risorse dell’impero. La scoperta, nel 1545, della montagna di Potosí nelle Ande, seguita l’anno successivo da quella di un importante giacimento a Zacatecas, nel Messico settentrionale, in- crementò considerevolmente la quantità di risorse da guadagnare. Carlo e i suoi successori considerarono dunque l’impero come un giacimento immenso per soddisfare le loro necessità finanziarie. Di conseguenza, l’in- teresse per lo sfruttamento delle miniere d’argento si tradusse in un’at- tenzione continua a ciò che accadeva nelle Indie e in una serie di misure politiche in cui le considerazioni economiche e fiscali, inevitabilmente, presero sempre più il sopravvento.
Sebbene in via di principio l’encomienda fosse un’assegnazione di in-
diani e non di terra, gli encomenderos e le loro famiglie furono i primi a
trarre vantaggio dalle opportunità sempre maggiori che nascevano dallo sviluppo della società coloniale. L’influenza sociale e il reddito derivanti dalle encomiendas consentì loro di comprare grandi estensioni di territo-
rio per la coltivazione e l’allevamento di bestiame. L’acquisto di queste proprietà ebbe come risultato la nascita di ciò che sarebbe diventato il mo- dello classico della società coloniale ispano-americana, costruita su due pi- lastri strettamente interdipendenti: la città e la proprietà rurale (estancia o hacienda), che poteva variare considerevolmente in grandezza e utilizzo in
relazione alle circostanze locali. In alcune aree, come la regione di Oaxaca in Messico, vi erano poderi di dimensioni medie o medio-piccole, anche se lo sviluppo del maggiorascato, cioè la trasmissione della proprietà come eredità inalienabile a un singolo erede, a lungo andare favorì la concentra- zione dei poderi in grandi tenute2.
Nonostante si pensi all’America latina coloniale come a una società do- minata dal grande latifondo, in realtà gli spazi urbani ebbero una funzione politica e sociale fondamentale durante tutta l’epoca coloniale. Innanzi- tutto, le città svolsero un ruolo strategico importante durante la fase di conquista, in quanto i nuovi insediamenti fondati dagli spagnoli su vecchi centri di potere – come Città del Messico e Cuzco – dal niente si trasfor- marono in basi militari, centri di scambio commerciale e sedi dell’auto- governo municipale affidato ai conquistatori. Da qui, inoltre, partivano le spedizioni di conquista verso altri territori. L’importanza della città fu anche il risultato della decisione della corona di evitare la nascita di un’a- ristocrazia fondiaria come quella europea. I forti limiti posti allo sviluppo del sistema dell’encomienda bloccarono la trasformazione di privilegi per-
sonali in diritti giurisdizionali sul territorio. La condizione di proprietario non dava, infatti, l’accesso a un potere di tipo giurisdizionale o, detto in altro modo, il dominium sulla terra non concedeva direttamente il potere
politico. Il controllo delle cariche e degli uffici pubblici, che erano ubicati nelle città, divenne quindi l’unico modo per i creoli (discendenti dei con- quistatori, nati sul suolo americano) per accedere al potere politico3.
Sulla scia della tradizione giuridica romana, la città, invece, era consi- derata un segno visibile dell’imperium. In effetti, il ruolo della città nel-
la costruzione giuridica e sociale del territorio ispano-americano è stata fondamentale, dato che erano i consigli municipali a distribuire le terre ai
struttura sulla base di un dualismo tra città e campagna, entrambi titolari di diritti politici, lo spazio ispano-americano si organizza intorno ai mu- nicipi, le uniche istituzioni alle quali era riconosciuto un diritto di rappre- sentanza di fronte al re. Fin dal Cinquecento, infatti, i cabildos di Città del
Messico e di Lima inviarono dei procuratori permanenti presso la corte di Madrid. L’impossibilità di accedere ai diritti politici al di fuori dello spazio urbano ha contribuito dunque a fare della città la rappresentante di interessi principalmente rurali. In effetti, i municipi, la cui giurisdizione oltrepassava i limiti dell’area urbana, non si identificavano esclusivamente con gli interessi di quest’ultima, ma si consideravano i rappresentanti di un insieme territoriale più ampio, definito come una “polis agro-urbana”4.
La propensione delle città ispano-americane a inglobare lo spazio rurale circostante è evidente se guardiamo al modello di pianta a griglia imposto delle famose ordinanze di Filippo ii del 1573 sulla sistemazione e l’aspetto delle città del Nuovo Mondo: in base a questo modello le città dovevano avere una plaza mayor, delimitata da una chiesa e edifici pubblici, e un
struttura regolare delle strade5. Fu la fondamentale semplicità della pianta
a griglia (e la facilità di progettare e costruire una città così concepita) a farne il modello ideale da trasferire nella nuova società coloniale: nel 1580 nelle Indie spagnole c’erano circa 220 città e verso il 1630 il loro numero era cresciuto a 330. Queste città squadrate, con i monumentali edifici pub- blici e religiosi e le strade spaziose, si estendevano all’esterno verso uno spazio indefinito: senza mura che ne bloccassero l’espansione o la vista (escluse le città costiere minacciate dagli stranieri o quelle delle zone di frontiera), esse dimostravano la realtà del dominio spagnolo su un mondo alieno6.
Un altro elemento che limitò l’espansione della grande proprietà ter- riera fu la sopravvivenza delle comunità indigene. Anche se il territorio fu profondamente modificato dalla conquista, i villaggi indigeni non era- no solo il risultato della politica di congregazione condotta dalle autorità coloniali, ma anche delle strutture ereditate dall’epoca preispanica, come l’ayllu o il calpulli. Queste vennero mantenute dalle stesse autorità spa-
gnole per favorire il pagamento dei tributi e l’utilizzo della manodopera indigena nelle miniere, nelle proprietà terriere e nelle manifatture. I ca- cicchi, ossia i capi delle comunità, svolsero infatti un ruolo fondamentale come intermediari tra la società indigena e quella bianca, sia favorendo il pagamento del tributo – una tassa che tutti gli indigeni maschi compresi in età lavorativa dovevano pagare in quanto sudditi del sovrano spagno-
lo –, sia rendendo disponibile la manodopera richiesta dalla società bianca. In cambio, godevano di numerosi privilegi, come l’esenzione dal tributo o il potere di amministrare la giustizia all’interno della comunità. Dal punto di vista giuridico, infatti, le comunità indigene si giovavano di un’ampia autonomia, che permetteva loro di continuare ad avvalersi di alcuni mec- canismi preispanici come la distribuzione delle terre tra le famiglie della comunità e il mantenimento di terre comuni. Dal punto di vista religioso, tale autonomia era limitata dalla presenza di un parroco o di missionari, che avevano il compito di evangelizzare gli indigeni.
Questi soggetti territoriali furono chiamati dagli spagnoli repúblicas de indios, per distinguerli naturalmente dalle città da essi fondate, le “re-
pubbliche degli spagnoli”. In teoria si trattava di due “repubbliche” paral- lele, ognuna con i suoi diritti e privilegi; in realtà, il progetto di tenere le due comunità separate fu sin dall’inizio un ideale. Gli sconvolgimenti della conquista e della colonizzazione misero quotidianamente gli spa- gnoli e i nativi in relazione. Le donne indigene si trasferirono nelle case degli spagnoli come serve e concubine, mentre gli indigeni gravitavano in modo naturale nelle città degli spagnoli in cerca di nuove opportuni- tà nel mondo dei conquistatori. Il meticciato, prodotto dalla mescolanza biologica e culturale, minò quindi fin dall’inizio quella società bipartita che i funzionari reali avevano sperato di creare e di mantenere7. Gli in-
digeni potevano essere raggruppati nelle reducciones oppure obbligati a
vivere in barrios o quartieri particolari delle città a loro esclusivamente
riservati, la loro inferiorità poteva continuamente essere proclamata dai coloni; ma in un mondo dove numericamente erano molti di più dei co- loni, che a loro volta non potevano sopravvivere senza le loro prestazioni lavorative e sessuali, non c’era alcuna possibilità duratura di isolare le due “repubbliche”.
Il meticciato fu in effetti uno dei risultati più evidenti della conquista e colonizzazione spagnola sin dall’inizio dell’impresa. I matrimoni interet- nici, autorizzati dalla corona a partire dal 1514, dovevano infatti servire a realizzare la missione della Spagna di portare il cristianesimo e la civiltà ai popoli indigeni. Vista la mancanza di donne spagnole, le unioni forzate o consensuali con donne indigene erano considerate normali. Ma l’esistenza di una classe crescente di meticci creò difficili problemi di categorizzazio- ne in società che pensavano in termini di gerarchia. Se i meticci erano nati da genitori sposati, erano solitamente considerati creoli (spagnoli di ori- gine americana). Per quelli nati fuori dal matrimonio, ma accettati da un
gruppo familiare o dall’altro, l’assimilazione in quel gruppo era il destino normale, anche se l’illegittimità era uno stigma durevole. C’era, tuttavia, un numero crescente di meticci che erano rifiutati da entrambi i gruppi familiari e quindi incapaci di trovare una posizione in una società corpo- rativa organizzata gerarchicamente.
Il quadro fu complicato dalla presenza di schiavi africani che comincia- rono ad arrivare nella Nuova Spagna e nel Perù già dalla prima metà del Cinquecento. La maggior parte si stabilì nelle capitali dei due vicereami, Città del Messico e Lima. Anche se la schiavitù ben presto si diffuse nelle campagne, quella urbana fu una caratteristica costante in una società in cui gli schiavi africani raggiunsero tra il 10 e il 25% della popolazione del- le principali città (Lima, Città del Messico, Quito, Cartagena e Bogotá). Molti africani furono impiegati come domestici; altri, invece, divennero artigiani specializzati. Nelle isole caraibiche, si sfruttarono gli schiavi per la coltivazione della canna da zucchero, mentre in Nuova Spagna e in Perù essi lavoravano nelle haciendas, nelle miniere e nelle officine tessili inte-
grando la forza lavoro nativa. Contrariamente al caso inglese, le regole re- lative alla conversione, al matrimonio, all’affrancamento e alla proprietà dettero agli schiavi una certa autonomia, in particolar modo a quelli che vivevano nelle città8. In linea di principio, in quanto cristiani essi godevano
della protezione della Chiesa e, in quanto vassalli della corona, potevano cercare di ottenere dei risarcimenti dalla giustizia reale. L’affrancamento era quindi ottenuto più facilmente nell’America spagnola rispetto a quella britannica9. Grazie al flusso costante di affrancamenti, la popolazione nera
libera crebbe rapidamente, specialmente nelle città, dove, insieme agli schiavi artigiani, istituirono delle confraternite (ve ne erano diciannove a Lima nel xvii secolo)10.
I territori americani della Spagna furono progressivamente incorporati all’interno di una struttura imperiale. Sebbene non costituissero formal- mente un impero – il termine di “imperatore delle Indie” attribuito talvol- ta al monarca spagnolo non ottenne mai un riconoscimento ufficiale –, i territori transatlantici della Spagna furono dotati di un distintivo status
giuridico all’interno della monarchia composita spagnola, ossia formata da vari regni e territori. Nominalmente, questa monarchia era composta da due tipologie di regni e domini: quelli acquisiti per via ereditaria e at- traverso unioni dinastiche e quelli acquisiti per conquista. I primi, che si associavano alla pari, continuavano a essere governati in base alle leggi e costumi prevalenti al momento dell’unione. I secondi, in quanto territori
conquistati, erano sottoposti alle leggi dei conquistatori. Questa almeno era la teoria, anche se in pratica pure i regni come quello di Napoli e di Navarra, che facevano parte dei “conquistati”, mantennero tendenzial- mente le proprie forme di governo tradizionali11. Le Indie erano indiscu-
tibilmente un territorio conquistato e vennero unite e incorporate alla corona di Castiglia, come già aveva affermato Alessandro vi nella bolla del 1493. Ciò implicava l’applicazione, ai territori americani, di leggi e isti- tuzioni modellate su quelle castigliane. In quanto territorio incorporato, le Indie ricaddero nell’orbita del supremo organo di governo della Casti- glia, il Consiglio di Castiglia; all’interno di questo si formò ben presto un gruppo di membri selezionati che si dedicavano specificatamente agli af- fari americani e nel 1523 questo piccolo gruppo divenne formalmente una struttura separata, il Consiglio delle Indie, che fu il responsabile principale del governo, del commercio e della difesa dell’America spagnola per i quasi due secoli di dominio asburgico.
Per togliere a conquistadores ed encomenderos i poteri di governo ven-
nero create le Audiencias (la prima fu quella di Santo Domingo del 1511),
modellate sulle cancellerie o Audiencias di Valladolid e Granada. Si tratta-
va di tribunali giudiziari ma, contrariamente a quelle castigliane, esse svi- lupparono anche importanti funzioni di governo a causa della lontananza dei territori americani dalla presenza fisica del re. Verso la fine del xvi se- colo c’erano dieci Audiencias americane. Tuttavia, la suprema istituzione
di governo fu il vicereame, e nei territori americani ne furono creati due: quello della Nuova Spagna (1532) e quello del Perù (1542). Il viceré era l’al- ter ego del sovrano e lo specchio vivente della regalità in una terra lontana.
Scelto generalmente da uno dei grandi casati nobili di Spagna, il viceré attraversava l’Atlan ti co accompagnato da un ampio entourage di familiari e servitori e il suo arrivo sul suolo americano e il suo passaggio attraverso il territorio sino alla capitale rappresentavano un evento rituale accurata- mente programmato, come se il re in persona stesse prendendo possesso del proprio regno12. Il viceré non era solamente il governante supremo in
nome del re, ma anche il presidente delle Audiencias nella sua area di giu-
risdizione e il capo del tesoro e capitano generale dell’intero territorio. Subordinati ai viceré c’erano i governatori delle varie province del vicere- ame, insieme ai funzionari del governo locale: gli alcaldes mayores (per la
Nuova Spagna) e i corregidores, gli equivalenti dei funzionari castigliani
che esercitavano l’autorità locale per conto della corona. Fin dalla metà del xvi secolo, quindi, l’impero spagnolo delle Indie poteva contare su
un’articolata catena di comando, che andava dal Consiglio delle Indie ai viceré, alle Audiencias e ai funzionari locali.
Dato che i territori americani erano stati incorporati nella corona di Castiglia, essi dovevano essere teoricamente governati dal sistema giuri- dico castigliano. Basato sul diritto romano, quest’ultimo incorporava al- cune leggi tradizionali della Castiglia e fu codificato nelle Siete Partidas
mappa_02_sn4 I vicereami e le Audiencias dell’America spagnola, xvi secolo
Fonte: J. Burbank, F. Cooper, Empires in World History: Power and the Politics of Difference, Prince-
di Alfonso x, la grande raccolta di leggi del xiii secolo redatta da giuristi che si erano formati sul diritto romano e canonico. Il monarca, in quali- tà di fonte suprema di giustizia, doveva governare in accordo con queste leggi, che rappresentavano i principi fondamentali dell’ordine divino e naturale. L’ordinamento giuridico della monarchia spagnola, come tutti i sistemi giuridici dell’antico regime, aveva un carattere fondamentalmente pluralista, era cioè composto da diversi ordini, dotati ognuno di contenu- ti normativi e legittimità differenti: al di sotto dello strato superiore, oc- cupato dal diritto divino, naturale e delle genti, in buona parte alimentati dall’immenso arsenale del diritto comune, nel campo del diritto positivo, oltre a quello romano e canonico, troviamo vari diritti, articolati in base a una logica di integrazione e non di esclusione. In tale contesto, la legge regia era semplicemente una componente del diritto, anche se col tempo assunse un ruolo sempre più importante all’interno del diritto positivo13.
Queste caratteristiche determinarono una configurazione giurispruden- ziale del diritto, che si estendeva non solo al sistema atlan ti co spagnolo ma anche agli altri spazi dell’Atlan ti co. Sono caratteristiche che ci condu- cono agli antipodi dell’universo giuridico legale (ossia quello basato sulla supremazia della legge positiva) e ci mettono di fronte a un ordinamen- to costruito caso per caso, nel tentativo di conciliare universi normativi distinti. All’interno di un tale sistema non è affatto difficile concepire la sopravvivenza e la ridefinizione di un diritto indigeno, ossia di usi e co- stumi dei popoli nativi, sempre che non fossero in evidente contrasto con i principi fondamentali dell’ordine costituito. Non è nemmeno difficile comprendere l’esistenza di un compendio legale distinto per i territori americani della monarchia, la Recopilación de las Leyes de Indias (1680),
in quanto la natura essenzialmente giurisprudenziale dell’ordine giuridi- co proponeva soluzioni diverse in base alle diverse circostanze e i diversi interessi in gioco.
L’apparato giudiziario e di governo dei possedimenti indiani della co- rona si accompagnò a un apparato ecclesiastico sempre più elaborato e