Le società del mondo atlan ti co sono considerate il risultato dell’incontro di tre diversi soggetti collettivi, definiti genericamente “europei”, “amerin- diani” e “africani”. Sebbene queste categorie possano avere oggi un signi- ficato per noi, come tutte le categorie di appartenenza, vanno analizzate come costruzioni dinamiche in costante divenire. Essendo emerse durante l’età moderna, soprattutto in relazione alla formazione dello spazio atlan- ti co, la loro costruzione è stata complessa e non priva di interpretazioni contrastanti. Le analisi sulla formazione di tali categorie implicano infatti l’esame simultaneo di due dimensioni diverse, ossia la relazione tra la clas- sificazione esterna (data ai gruppi o agli individui dalle istituzioni o da al- tri gruppi) e l’auto-definizione di gruppi e individui (come si percepisco- no). I due processi – la classificazione e l’auto-percezione – si articolano e sovrappongono, costituendo l’uno una parte imprescindibile dell’altro48.
Oltre a dover essere interpretate in questa duplice dinamica, le categorie in questione – africani, amerindiani ed europei – sono mediate, e a volte disgregate, da altri tipi di appartenenze: la religione, la divisione tra nobili e cittadini comuni, tra cittadini e stranieri.
Iniziamo quindi con l’analisi della prima categoria identitaria: gli euro- pei. Gli europei scoprirono sé stessi, ossia di far parte di uno spazio cultu- rale percepito come omogeneo e distinto dagli altri, tra il xv e il xvi secolo grazie a tre eventi fondamentali: la caduta di Costantinopoli, che insedia un impero rivale al centro della cristianità; le esplorazioni geografiche e la conquista dell’America, che implicano la scoperta dell’“altro”; la Riforma protestante che rompe l’unità cristiana. Se da un lato i successi dell’impe- ro ottomano contribuirono a dare forma a una concezione regionale che associava l’Europa al cristianesimo, respingendo il campo musulmano – compreso nelle sue parti balcaniche – all’esterno dell’Europa, dall’altro la frammentazione religiosa – che impose di trovare altre forme di coesione oltre la religione – e il contatto inteso con il mondo esterno – che rafforzò per contrasto le caratteristiche singolari della civiltà europea – contribu- irono a far emergere una vera e propria coscienza49. Di conseguenza, gli
europei, che si pensavano in precedenza come dei cristiani e che percepi- vano la loro comunità come potenzialmente universale, cominciarono a identificarsi come una civiltà particolare, legata a un’antichità classica che ritenevano superiore a tutte le altre.
Allo stesso tempo, grazie alla nascita degli stati moderni e al rafforza- mento di strutture politiche più centralizzate, iniziarono lentamente a emergere identità più limitate: spagnoli, inglesi, francesi ecc. Mentre in alcuni casi l’appartenenza a queste comunità emergenti significava subor- dinazione al monarca (come in Francia e in Inghilterra), in altri implicava cittadinanza e accesso ai diritti (come in Spagna e nelle Province Unite)50.
Malgrado non siano da considerarsi come spazi nazionali o proto-nazio- nali, le rivalità e i conflitti sia in Europa che oltremare rafforzarono e ga- rantirono la sopravvivenza di tali distinzioni tra gli europei. Anche se le entità statali europee erano deboli, flessibili e permeabili durante l’epoca moderna, nel senso che le continue incorporazioni e perdite di territori determinavano frequenti movimenti di popolazione, l’esistenza di impe- ri coloniali e il sentimento di appartenenza a questi ultimi ha portato gli storici a indagare più approfonditamente categorie di appartenenza come quelle di Britishness, Spanishness, Frenchness, la cui ricchezza e complessità
semantica sono difficilmente traducibili in altre lingue, dato il loro utiliz- zo prevalente negli studi anglofoni. Sebbene queste identità non fossero all’origine del concetto di nazione politica, che apparirà solo alla fine del xviii secolo, è comunque importante indagare il loro significato e diffu- sione durante l’epoca moderna, in quanto permettono di considerare in maniera originale i rapporti complessi tra identità locali e identità “nazio- nali” così come quelli tra identità etniche o razziali51. Visto in questa otti-
ca, il rapporto coloniale non è più una relazione di dipendenza tra centro e periferia, ma va piuttosto considerato in termini di diritti di esclusione o inclusione in tutti i territori dell’impero52.
Tuttavia, nel corso dell’epoca moderna molti europei lavoravano come mercanti, missionari o soldati lontano dal loro paese d’origine, a volte all’interno delle stesse giurisdizioni politiche, ma spesso anche in pae- si stranieri. Abbiamo visto infatti che le esplorazioni e le conquiste del Quattro e Cinquecento furono di frequente imprese multinazionali, a cui collaborarono uomini provenienti da stati diversi, alcuni, come Colombo, lavorando per il monarca piuttosto che per la nazione. Nelle colonie, poi, dove i confini erano molto più fluidi e imprecisi, era anche difficile de- terminare la “nazionalità” degli abitanti. Ad esempio, quando nel 1640 il
Portogallo si separò dalla Spagna, le autorità di Lisbona e di Madrid non erano affatto sicure che gli abitanti del Brasile avrebbero seguito l’esem- pio della madrepatria. In quel momento, infatti, il Brasile era popolato da molti spagnoli che avevano più legami con la Spagna e l’America spagno- la che con il Portogallo53. Le colonie inglesi includevano, come abbiamo
visto, molti individui che non erano inglesi ma che provenivano da altri paesi della Gran Bretagna (Irlanda e Scozia) e da altri paesi europei (Ger- mania, Olanda ecc.). Anche se questi individui parlavano lingue diverse, praticavano fedi religiose distinte e avevano altri costumi sociali, furono progressivamente inclusi nello status di Englishmen, ossia di coloro che
godevano degli stessi diritti e privilegi degli inglesi.
Queste identità nazionali fluide erano attraversate da identità locali e regionali. In effetti, durante l’epoca moderna, gli abitanti della Spagna, ad esempio, non si sentivano spagnoli ma catalani, baschi, aragonesi ecc. Alcuni storici ritengono che fu l’incontro con il mondo esterno ad avviare la trasformazione di gallesi, scozzesi e irlandesi in britannici e di baschi, aragonesi e castigliani in spagnoli. Le identità nazionali europee nacquero quindi nelle colonie e a causa del colonialismo54. Altri sostengono invece
che l’incontro con l’esterno ha favorito la formazione di un’identità euro- pea piuttosto che delle identità “nazionali”, in quanto la supposta superio- rità rispetto agli altri contribuì alla coesione come “europei” a scapito delle specificità nazionali55.
Gli europei erano anche divisi tra coloro che rimanevano nelle metro- poli e coloro che emigravano nelle colonie. Per molto tempo la storiogra- fia ha insistito sulla diversità tra metropolitani e coloni, affermando che, se all’inizio dell’impresa colonizzatrice non vi erano differenze tra i due gruppi, con le generazioni successive gli interessi sempre più divergenti e la progressiva marginalizzazione politica ed economica dei coloni rispetto ai metropolitani portò a una progressiva separazione sino all’indipendenza. Questa trasformazione avvenne anche in Europa, dove all’inizio i coloni furono considerati come concittadini, ma col tempo cominciarono a essere rappresentati come degenerati e sleali. Tale retorica è stata spesso invocata dagli abitanti del Nord e Sud America per descrivere sé stessi come vittime dell’oppressione europea piuttosto che come persone che hanno approfit- tato della colonizzazione sfruttando e opprimendo le popolazioni indige- ne e africane. La letteratura sulla nascita e lo sviluppo di una cultura creola ispano-americana, distinta da quella spagnola nelle sue varie manifestazio- ni (artistiche, politiche, letterarie), ha contribuito molto a imporre lo ste-
reotipo di un’identità coloniale contrapposta a quella metropolitana56. In
realtà, quello che i creoli (ossia bianchi spagnoli nati in America) avevano sempre rivendicato, sino all’epoca dell’indipendenza, era una parità con gli spagnoli metropolitani. Essi non si sentivano affatto appartenenti a una comunità politica e culturale distinta: durante tutta l’epoca coloniale non si identificavano infatti come “creoli”, ma si definivano piuttosto españoles
(spagnoli), vecinos (cittadini), naturales de este pueblo (naturali di questo
paese), naturales de este reino (naturali di questo regno). Lo stesso termine
“creolo”, che all’inizio della colonizzazione indicava gli schiavi neri nati in America per distinguerli da coloro che venivano dall’Africa (chiamati
bozales), era stato imposto agli abitanti delle Americhe dagli spagnoli me-
tropolitani in senso dispregiativo. L’obiettivo era dimostrare l’inferiorità degli spagnoli nati in America – che i metropolitani imputavano al clima e alla vicinanza agli indigeni e agli africani – per avere la precedenza sulle cariche civili e religiose57. In realtà, anche a causa dei network – familiari,
commerciali, politici – che legavano gli spagnoli americani a quelli me- tropolitani e viceversa, era molto difficile fare una distinzione netta tra i due gruppi. Ciò fu particolarmente evidente durante le guerre di indipen- denza, quando le campagne per espellere gli spagnoli misero in risalto la difficoltà, anche per i repubblicani più convinti, di definire gli spagnoli come nemici.
Come abbiamo in parte già visto, coloro che gli europei definivano come “indigeni” erano in realtà gruppi molto diversi tra loro. La categoria fu in effetti un’invenzione europea, imposta dall’esterno ma che, tuttavia, alla fine dell’epoca coloniale era stata fatta propria dai discendenti dei na- tivi. In alcune parti del Nord America, gli indigeni che furono sterminati, marginalizzati e ridotti in schiavitù diedero vita a un movimento pan- indiano58. Nell’area andina, grazie alla spinta dei missionari, prese forma
una nuova religione pan-andina e il quechua, che era la lingua di un solo gruppo indigeno, divenne la lingua franca della regione59. Sebbene mol-
ti raggruppamenti indigeni fossero riusciti a sopravvivere alla conquista e a mantenere un buon livello di autonomia, altri gruppi scomparvero, a causa della mortalità, delle guerre, della migrazione forzata, dei processi di assimilazione con altri gruppi indigeni o dei matrimoni misti. Se da un lato alcuni gruppi si estinsero, dall’altro altri emersero durante l’epoca co- loniale: grazie ad alleanze interetniche, cambiamenti culturali, mutamenti dei luoghi di residenza, contatti con gli europei o divisioni di gruppi esi- stenti, nuove etnie indigene si formarono infatti con il colonialismo. In
alcuni casi queste rappresentavano il risultato di processi di adattamento e di etnogenesi; in altri, si trattava di costruzioni deliberatamente e co- scientemente fabbricate60. Uno dei casi più significativi è, da questo pun-
to di vista, quello dei Tlaxcala del Messico centrale, che si sono sempre considerati conquistatori piuttosto che conquistati. Avendo attivamente partecipato alla conquista come alleati di Cortés, e avendo successivamen- te contribuito alla sottomissione di altri gruppi indigeni inviando coloni negli insediamenti del nord della Nuova Spagna, trasformarono quella che era un’identità locale in un’identità etnica.
In altri casi i gruppi indigeni che apparvero durante l’epoca coloniale furono inventati da osservatori esterni. In effetti, gli europei che arrivava- no in America cercavano di classificare le popolazioni che incontravano. Anche se tali sforzi a volte si basavano su delle incomprensioni, la divisio- ne in gruppi, etnie o tribù creava mappe mentali e geografiche, condivise da europei e indigeni, che durarono per tutta l’epoca coloniale e anche oltre. Spesso le istituzioni statali ed ecclesiastiche dividevano gli indige- ni in amici e nemici, in civilizzati e selvaggi, in gentili e barbari, e queste divisioni davano vita a nuovi gruppi etnici. Ad esempio, nel Messico del nord, gli spagnoli, utilizzando una designazione precolombiana, chiama- rono chichimecas tutti i gruppi indigeni non conquistati e quindi nemici,
mentre in Brasile i portoghesi crearono la distinzione tra tupi (indigeni
della costa che condividevano un’eredità culturale e linguistica) e tapuai
(tutti gli altri).
Come si distinguevano gli indigeni dagli europei? Se all’inizio della colonizzazione erano i nativi che abitavano nel Nuovo Mondo, con il tempo, anche a causa delle unioni miste e di una percentuale sempre più ampia di persone con varia discendenza, le caratteristiche per distinguere gli indigeni dagli altri si basarono sempre più su elementi esterni e com- portamentali, come il colore della pelle, l’abbigliamento, le maniere e la reputazione. Nell’America spagnola, ad esempio, quella di indios divenne
una categoria amministrativa, riferendosi a tutti coloro che pagavano il tri- buto al re. La distinzione tra indigeni ed europei era quindi fondamentale
a livello politico, in quanto indicava chi poteva avere accesso a determinati diritti. La distribuzione di diritti e doveri tra indigeni ed europei fu però resa più complicata dall’esistenza di una nobiltà indigena che, in vari casi, aveva diritto a un trattamento speciale. Nell’America spagnola, ad esem- pio, questa godeva degli stessi privilegi accordati alla nobiltà ispanica, in quanto, come i creoli, era esonerata dal pagamento del tributo. La necessi-
tà di classificare le persone per sapere se potevano godere di certi diritti o erano obbligati ad alcuni doveri incoraggiò un’elaborazione costante delle differenze tra europei e indigeni. La ricerca ossessiva da parte degli europei di segni esteriori di distinzione sociale rifletteva la loro volontà di contrad- distinguersi come appartenenti alla società dei conquistatori61.
Le distinzioni tra conquistatori e conquistati cominciarono però a offuscarsi per il mescolamento razziale e soprattutto perché a esse si so- vrapposero altre differenze. Anche se le unioni miste furono più frequenti nelle società coloniali iberiche rispetto a quella francese e ancora di più a quella inglese (che arrivò a proibire i matrimoni misti), ciò non significa che le prime, come le seconde, non avessero imposto un confine netto tra colonizzatori e colonizzati. Nella società coloniale spagnola furono le ca- stas a dare avvio a una società gerarchica basata sul colore della pelle. Il ter-
mine, originariamente usato in Spagna per denominare un insieme umano o animale con una discendenza conosciuta e specifica, era utilizzato per indicare i meticci (nati dall’unione di bianchi con indiani), i mulatti (nati dall’unione di bianchi con neri) e tutta una serie di gruppi, a loro volta prodotti di questi incroci – come gli zambos, ad esempio, che rappresenta-
vano l’unione tra indigeni e neri. Con il moltiplicarsi delle combinazioni aumentavano anche i tentativi di descriverle utilizzando delle tassonomie, basate sui gradi di parentela e sulla tonalità del colore della pelle. Nei fa- mosi “ritratti di casta”, di cui sono state individuate più di cento serie, gli artisti settecenteschi si sforzavano di dare una forma visiva a un sistema di classificazione pensato per enfatizzare e mantenere la supremazia sociale di una élite creola che si sentiva minacciata dalla contaminazione dal basso. Tali dipinti, che rappresentavano iconograficamente tutte le combinazio- ni, incroci e mescolanze di razze dal nero al bianco, costituivano in realtà dei tentativi per imporre un ordine sulla confusione, per fare l’apologia e mantenere la supremazia sociale di un’élite – quella creola – che si sentiva minacciata dalla contaminazione62.
La questione se gli indigeni fossero considerati una razza diversa dagli europei è molto controversa. Alcuni storici lo negano, sostenendo che essi erano considerati alla stessa stregua degli europei, con le medesime po- tenzialità. Per loro, l’etnicità e la razza sono piuttosto problemi teologici, posti dalla necessità di riconciliare l’origine comune degli uomini con le differenze dei gruppi umani63. Dato che queste sono spiegate dal clima e
dal cibo da un lato, dal peccato e dalla redenzione dall’altro – ossia da fenomeni contingenti e non costitutivi –, il razzismo sarebbe quindi un fe-
nomeno moderno legato alla secolarizzazione e allo sviluppo della scienza moderna. Altri, invece, sostengono che l’esperienza coloniale ha condotto, già in epoca moderna, alla nascita di categorie razziali che spiegavano le differenze tra le popolazioni in termini di caratteri biologicamente eredi- tati64. Un terzo gruppo di storici, infine, afferma che le categorie razziali
sono state il prodotto della trasformazione progressiva delle differenze re- ligiose o di status: le prime sono entrate in gioco quando le seconde sono diventate meno importanti65. Nell’Atlan ti co spagnolo, il concetto tardo
medievale di purezza di sangue (limpieza de sangre), che nella penisola
indicava le differenze religiose, si arricchisce di altri contenuti. Non solo, per accedere alle cariche bisognava dimostrare l’assenza di antenati ebrei o musulmani, ma anche l’assenza di antenati indigeni o neri. Le società coloniali dell’America ispanica erano infatti ossessionate dal colore, come dimostrano le pinturas de castas, ossia i tentativi di rappresentare tutte le
combinazioni; in questa specie di pigmentocrazia, la “bianchezza” rappre- sentava l’indicatore della posizione nella scala sociale. L’accusa di sangue misto, che implicava lo stigma dell’illegittimità, era utilizzata per giustifi- care una politica segregazionista che escludeva le castas (indigeni, meticci,
mulatti e neri) dalle cariche pubbliche e dall’affiliazione alle corporazioni e confraternite dei creoli. Se è vero che le barriere di questa segregazione erano flessibili nelle società di antico regime, è anche vero che tali pratiche di discriminazione si sono progressivamente irrigidite e codificate produ- cendo un’ideologia della razza ben prima che gli europei disponessero del concetto di eredità.
Il termine “africano” cominciò ad apparire alla fine del xvii secolo. L’esperienza degli africani fu estremamente diversificata nel mondo atlan- ti co, in quanto alcuni rimasero nel vecchio continente, altri emigrarono volontariamente e infine un terzo gruppo fu esiliato forzosamente con la schiavitù. Gli africani che parteciparono alla tratta come mercanti o inter- mediari divennero familiari con le lingue, le pratiche e le norme europee acquisendo spesso nuove identità. La tratta mise inoltre in relazione co- munità africane che in precedenza non avevano rapporti, contribuendo così a creare un processo di acculturazione interafricana ed espandendo l’uso di alcuni linguaggi, culture e religioni su uno spazio più ampio. Du- rante questo periodo, infine, molte enclave africane furono trasformate in centri dove coesistevano africani ed europei. Questa coesistenza contribuì a creare i cosiddetti Atlantic Creoles (creoli atlantici), ossia persone che
lavoravano nell’Atlan ti co, come soldati, marinai, mercanti, artigiani o che avevano sviluppato una cultura cosmopolita. Molti di questi, nel corso del xviii secolo si recarono anche nelle Americhe, riportando in Africa ciò che avevano acquisito sul piano economico e culturale e contribuendo in questo modo a introdurre nel continente nuovi elementi della cultura at- lantica66.
Gli africani che giunsero in America, come abbiamo visto, provenivano da regioni diverse. Anche se alcune comunità africane nel Nuovo Mondo mantennero differenze culturali basate sulla loro provenienza, convalidate
da osservatori esterni – che in genere distinguevano gli africani a seconda della loro origine o del porto di origine –, la maggior parte degli storici è d’accordo nel ritenere che gli africani in America, separati dalle loro fa- miglie e dai luoghi di origine e costretti alla schiavitù, dettero vita a un processo di “creolizzazione” e “africanizzazione”. Essi si africanizzarono perché, piuttosto che identificarsi con un luogo o una specifica cultura, tendevano a costruire comunità pan-africane, nel senso di comunità dove si condividevano valori basilari delle comunità di origine, mescolati a volte con la cultura europea. Allo stesso tempo, però, si creolizzarono perché tali processi portavano a una crescente omogeneizzazione tra i gruppi. Così, ad esempio, le persone che provenivano da diversi luoghi della baia del Biafra arrivarono ad accettare la designazione di ibo anche se questo
termine non era mai stato utilizzato in Africa.
Gli studi sulle comunità africane in America si sono completamente rinnovati rispetto al passato. Invece di focalizzarsi sulla sopravvivenza di elementi africani in America, i nuovi studi tendono a concentrarsi sulle esperienze concrete degli individui che viaggiarono dall’Africa all’Ameri- ca, cercando di ricostruire le loro vicende dalle zone interne del continente africano sino al loro arrivo nel Nuovo Mondo. In questo modo mostrano che, oltre a essere schiavi, gli africani erano anche migranti e, come tutti i migranti, davano un senso al loro presente attraverso il loro passato. Que- sti studi sostengono la necessità di considerare la cultura africana come una cultura di resistenza ma anche costruttiva, che esprimeva la sua identi- tà anche nel far parte della società e non solo nell’opporvisi67.
Se vi è ancora dibattito sul carattere razziale della categoria degli indi- geni, la questione è meno controversa per gli africani, in quanto la maggior parte degli storici ritiene che si tratti di una categoria razziale, almeno sin dal Seicento. Anche se vi erano diversi gradi di schiavitù – che dipende- vano dal lavoro richiesto, dal fatto che i proprietari trattassero gli schiavi come oggetti oppure come uomini e concedessero loro la conversione o la