Come abbiamo in parte visto, in termini di migrazione, l’Africa, non l’Eu- ropa, dominava il mondo atlan ti co. Dalla scoperta dell’America fino al 1820 circa dieci milioni di africani furono trasportati attraverso l’oceano; il rapporto tra africani ed europei che arrivarono nel Nuovo Mondo era di quattro a uno. Si tratta del più ampio movimento di migrazione forzata nella storia. Nonostante il fatto che, a partire dalla celebre opera di Philip Curtin del 1969, la tratta atlantica sia oggi la migrazione meglio studiata
dal punto di vista statistico, non esiste ancora un accordo completo sulle cifre. Si sta però delineando un consenso generale sulle analisi di Curtin quanto al volume complessivo della tratta: secondo questo autore sareb- bero nove milioni e mezzo gli africani introdotti nelle diverse colonie del Nuovo Mondo e, tenendo conto della mortalità connessa al middle passa- ge, undici milioni circa quelli partiti dall’Africa16.
Prima dell’arrivo degli europei, l’oceano Atlan ti co aveva un ruolo marginale nella vita degli africani. C’erano pochissimi porti atlantici e la maggior parte dei contatti con il mondo esterno passava via terra anziché via mare – se si escludono le interazioni afro-asiatiche attraverso l’oceano Indiano. In alcune regioni dell’Africa occidentale, gruppi di individui si avventuravano in mare per pescare, di solito a poca distanza dalla riva. Ma, più in generale, una combinazione particolare di venti e correnti, l’assenza di mari protetti, pochi porti naturali, barriere pericolose al largo e grosse onde impedivano una tradizione marittima. L’arrivo degli europei sulle coste occidentali implicò invece la mobilitazione di decine di migliaia di intermediari africani (interpreti, soldati, marinai, mercanti itineranti) per il funzionamento della tratta degli schiavi, la formazione di molti africani per condurre le imbarcazioni a vela e la trasformazione di villaggi dedi- ti alla pesca in porti atlantici. Gli africani, inoltre, entrarono in un ricco commercio con gli europei, che, come abbiamo visto, non coinvolgeva solo gli schiavi ma molteplici prodotti. Tra il 1680 e il 1780 il valore del commercio africano atlan ti co aumentò di sei volte17.
Tuttavia, contrariamente all’America, l’arrivo degli europei in Africa occidentale non significò un processo di colonizzazione delle terre, eccet- to il caso dell’Angola dove i portoghesi si insediarono sin dalla prima metà del Cinquecento. La loro presenza era però limitata a una piccola area in- torno a Luanda, a pochi presidi nell’interno e a un avamposto commer- ciale a Benguela. In ogni caso, la maggior parte degli europei era talmente vulnerabile alle epidemie africane che solo pochi riuscirono a insediarsi in modo permanente sulla costa. Gli europei, inoltre, non erano interessati solo agli schiavi, ma anche ad altre merci, in particolar modo l’oro, l’a- vorio, il pepe, i coloranti, le gomme, la cera d’api. In cambio, davano agli africani tessuti, armi, oggetti di metallo oltre a pagare tasse, dazi doganali e tributi. Gli africani non erano dunque semplicemente sfruttati dagli eu- ropei ma partecipavano attivamente al commercio con quest’ultimi, com- preso quello degli schiavi. I forti e le fattorie europee in Africa non de- vono essere quindi considerati i simboli del potere europeo ma iniziative
imprenditoriali congiunte tra africani ed europei (joint African-European ventures)18. Gli europei gestivano i forti ma gli Africani controllavano il
loro personale. Oltre a una collaborazione economica, si svilupparono an- che legami culturali tra le due parti, dato che dovettero imparare a cono- scersi, a comunicare e a fidarsi l’uno dell’altro.
Per i primi 250 anni di relazioni commerciali afro-europee, l’oro co- stituì la base principale dello scambio e solo all’inizio del xviii secolo il valore complessivo degli schiavi cominciò a superare quello dell’oro e degli altri prodotti. In effetti, almeno in una prima fase, gli europei desideravano principalmente oro e non schiavi; erano piuttosto gli afri- cani a vendere loro schiavi al posto dell’oro, obbligando gli europei a rivenderli sulla Costa d’Oro in cambio del metallo prezioso. Anche se il commercio di altri prodotti continuò per tutto il Settecento, il traf- fico di schiavi cominciò a svalutare gli altri scambi: negli anni ottanta gli schiavi costituivano il 90% del valore delle esportazioni africane. La tratta atlantica degli schiavi iniziò ad acquisire importanza alla fine del xvi secolo, triplicò in volume nel corso del xvii secolo e raddoppiò di nuovo durante il xviii secolo. Gli anni ottanta del Settecento rappre- sentano il culmine del commercio, quando circa 866.000 schiavi africa- ni attraversarono l’Atlan ti co.
grafico_03_sn2 Il ritmo della tratta atlantica (1563-1866)
Fonte: M. Dorigny, B. Gainot, Atlas des esclavages. Traites, sociétés coloniales, abolitions de l’Antiquité à nos jours, Autrement, Paris 2006, p. 20, modificata.
Gli africani, come la maggior parte delle popolazioni, accettavano la schiavitù che era ampiamente praticata in tutto il continente. La mag- gior parte degli schiavi era il prodotto delle guerre, che spesso venivano fatte proprio per assicurarsi dei prigionieri. I vincitori mantenevano de- gli schiavi, ma ne mettevano altri sul mercato, poiché gruppi numerosi di prigionieri potevano rivelarsi pericolosi. Oltre che di razzie e catture operate in guerra, gli schiavi erano anche il risultato dell’applicazione di regole del diritto consuetudinario (certi tipi di infrazione venivano san- zionati con la riduzione in schiavitù e la deportazione). Un articolato mercato di schiavi era attivo quindi prima dell’arrivo degli europei e l’esi- stenza di altre tratte già ampiamente sviluppate, in particolar modo quel- la transahariana e quella orientale (attraverso l’oceano Indiano), rese pos- sibile lo sviluppo di quella transatlantica. Gli europei si trovarono perciò di fronte a reti di approvvigionamento di schiavi già esistenti, anche se la crescente domanda americana di forza lavoro africana le riorientò verso l’Atlan ti co e le espanse considerevolmente. Il motivo per cui la schiavi- tù era un elemento importante e così diffuso della società africana risiede nel fatto che la proprietà della forza lavoro, più che quella della terra, era la principale fonte di ricchezza. Data l’assenza nella società africana del concetto di proprietà della terra, il possesso degli schiavi rappresentava per gli africani la principale modalità di accesso a un genere di ricchezza privata e riproducibile. Per questo motivo, non deve sorprendere la gran- de diffusione della schiavitù in Africa. Anzi, proprio in quanto proprie- tà mobili, che quindi potevano essere ereditate e generare ricchezza, gli schiavi africani erano usati in una più ampia varietà di modi rispetto a quelli europei o americani: oltre ad essere sfruttati come contadini o ma- nodopera bracciante, essi costituivano un gruppo subordinato e fidato, sia per la riscossione di entrate sia per l’esecuzione di attività amministra- tive e militari19.
Un’altra spiegazione che permette di rendere conto del ruolo dell’Afri- ca nera nella tratta consiste nell’assenza di un sentimento di appartenenza a una stessa comunità africana. Questa è una caratteristica che distingue nettamente gli africani dagli europei. Questi ultimi infatti, fin dal tardo medioevo, erano incapaci di schiavizzare altri europei, in quanto si consi- deravano tutti membri della stessa communitas cristiana. Una concezione
dell’identità africana, invece, non esistette sino al xix secolo e ciò impedì agli africani di sentirsi membri di una stessa comunità religiosa e culturale al di là delle appartenenze etniche o politiche20. Lo schiavo era innanzitut-
to l’“altro”, ossia uno straniero o un outsider la cui morte sociale era una condizione necessaria all’asservimento. Ridurre in schiavitù i membri di un’altra etnia africana non era dunque più difficile per gli abitanti dell’A- frica di quanto non fosse per i greci asservire dei non greci.
Schiavi africani, in effetti, erano già presenti in numerose società eu- ropee quando gli europei raggiunsero le coste africane. Nelle grandi cit- tà mercantili, in particolare del Mediterraneo, troviamo durante l’epoca medievale numerosi uomini e donne africane. A Lisbona, ad esempio, nel xv secolo risiedeva un’importante popolazione di colore che ammontava a varie migliaia di individui in una città di meno di centomila abitanti. Numerosi schiavi africani erano presenti anche nelle città spagnole come Siviglia, e l’invio di cinquanta schiavi per lavorare nelle miniere d’oro di Hispaniola nel 1510 non fu altro, per Ferdinando, che un’estensione logica della pratica iberica corrente. Nel 1518 il suo successore Carlo, non ancora eletto imperatore, concesse a uno dei membri del suo entourage fiammin-
go, Laurent de Gorrevod, una licenza di otto anni per l’importazione di schiavi neri nelle Indie. Sino ad allora gli schiavi inviati nel Nuovo Mondo provenivano in gran parte dalla penisola iberica e parlavano spagnolo, così come gli schiavi o i servi che, arrivati con i conquistatori, dettero un pre- zioso contributo alle spedizioni di scoperta e di conquista. Dopo la con- cessione a Gorrevod, il traffico di schiavi verso le Indie acquisì una nuova dimensione: con l’assegnazione dei primi asientos o contratti, rilasciati in
un regime di monopolio del commercio atlan ti co degli schiavi, si aprì la strada del trasporto diretto dall’Africa alle Indie.
Dal 1595 al 1640 il monopolio del commercio atlan ti co degli schiavi passò in mano portoghese, in virtù anche della posizione di forza del Por- togallo sulle coste dell’Africa occidentale: durante questi anni i mercan- ti lusitani trasportarono nell’America spagnola tra i 250.000 e i 300.000 africani. Una volta giunti nel continente, attraverso i porti di Buenos Ai- res, Saint-Domingue, L’Avana, Veracruz e Cartagena, un numero consi- stente raggiungeva le capitali dei due vicereami, Città del Messico e Lima. Molti africani furono impiegati come domestici, altri divennero artigiani specializzati. Furono utilizzati anche come manodopera nelle miniere di Zacatecas e di Potosí, insieme agli indigeni, oltre che nelle piantagioni delle isole caraibiche, nelle regioni costiere della Nuova Spagna, del Perù, della Nuova Granada e del Venezuela. Anche se i numeri degli schiavi im- portati nei territori ispano-americani aumentarono nel corso del Seicento, questi non raggiunsero mai i livelli di altre aree americane.
Fu il Brasile, infatti, a offrire il primo e più spettacolare esempio dell’e- norme ricchezza che si poteva produrre grazie alle grandi piantagioni la- vorate dagli schiavi africani. Dagli anni sessanta del Cinquecento, furono importati in Brasile sempre più schiavi africani per integrare o sostituire la forza lavoro indigena, insoddisfacente e in diminuzione. Verso la fine del secolo il Brasile era diventato il primo fornitore mondiale di zucchero21.
Le tecniche di produzione alla base del successo spettacolare del Brasile nel coltivare ed esportare lo zucchero furono copiate dagli olandesi, grazie all’occupazione di Pernambuco (1630-54). Quando i portoghesi riconqui- starono il territorio, gli olandesi e numerosi ebrei sefarditi che si erano stabiliti nella regione si rifugiarono nelle Antille, dove introdussero le tec- niche di produzione e lavorazione brasiliane22.
La trasformazione che la coltivazione dello zucchero determinò nelle Indie occidentali fu davvero impressionante. Dal 1645 in avanti si comin- ciarono a importare quantità sempre più grandi di schiavi africani, prima a Barbados, poi nella Martinica e Guadalupa e infine, nel Settecento, nella Giamaica e a Saint-Domingue. Nel corso del xviii secolo, in seguito alla diminuzione degli arrivi dei servi a contratto, gli schiavi africani comincia- rono a essere importati in quantità sempre più significative anche nell’A- merica del Nord. Nelle colonie inglesi, la schiavitù coinvolse in modo massiccio il Sud: la Virginia, il Maryland e la Carolina del Nord, dove si svilupparono piantagioni di tabacco, la Georgia e la Carolina del Sud, in cui prevalse la coltivazione del riso. Ma gli schiavi furono importanti anche nelle regioni settentrionali – nel Massachusetts, nel Connecticut e soprattutto a New York – dove svolgevano attività nel servizio domestico e nell’artigianato.
La tratta raggiunse il suo apice nella seconda metà del Settecento e nei primi trent’anni dell’Ottocento, quando si arrivarono a importare dagli ottanta ai novantamila schiavi all’anno. In effetti, nonostante la lunga du- rata del fenomeno, non possiamo dimenticare che la sua fase di intensità massimale si concentrò su un periodo relativamente breve: più del 90% del totale degli schiavi è stato importato in America in poco più di sessanta anni (all’incirca tra il 1760 e il 1820). Il 60% della tratta atlantica ha avuto luogo nel xviii secolo; il 33% nel xix secolo; solo il 7% tra il xvi e il xvii secolo. A questo commercio parteciparono tutte le potenze marittime eu- ropee e anche alcuni commercianti appartenenti ad altri spazi geografi- ci, come ad esempio i mercanti genovesi che gestirono l’introduzione di schiavi nelle colonie spagnole tra Cinque e Seicento. Mentre in un primo
periodo gli attori principali di questo commercio furono le compagnie commerciali, operanti in regime di monopolio sotto il controllo dello sta- to, a partire dall’inizio del Settecento subentrò l’iniziativa privata. Diversa fu la modalità con cui la tratta venne gestita dalla Spagna che, in quanto priva di basi commerciali in Africa, non praticò mai direttamente il com- mercio negriero, ricorrendo al rifornimento da altri stati. Caratterizzata all’inizio da un sistema di licenze concesse dal sovrano a privati mediante appalto, la tratta si svolse in seguito attraverso l’istituzionalizzazione del cosiddetto asiento de negros. In base a questo contratto di diritto pubblico,
lo stato, in cambio del pagamento di un canone, concedeva a privati (sin- goli individui o compagnie di commercio) la licenza della tratta, che, dal 1595 sino al 1789, fu concessa in regime di monopolio.
Anche gli africani parteciparono attivamente alla tratta, dato che questa era controllata dai signori locali. Gli europei non possedeva- no i mezzi né economici, né militari per costringere i leader africani a vendere schiavi. Gli schiavi, come abbiamo visto, erano presenti in gran numero nelle società africane e quelli esportati erano scelti spesso tra coloro che erano stati catturati da poco tempo e che non avevano trovato un’occupazione nelle società dei loro padroni. Questo aspetto mostra chiaramente il ruolo fondamentale degli africani nel decidere se, quando e quali schiavi dovevano essere venduti agli europei. Que- ste decisioni erano a loro volta il prodotto delle specifiche situazioni di ciascun paese, tra cui il prezzo e la disponibilità degli schiavi. Sette regioni dell’Africa occidentale (il Senegambia, la Sierra Leone, la Costa Sopravvento, la Costa d’Oro, la baia del Benin, la baia del Biafra e l’A- frica centro-occidentale) parteciparono, sia pure con modalità diverse, alla tratta atlantica, alcune (come il Benin) uscendo anche per alcuni periodi dal commercio degli schiavi con gli europei.
L’età e il sesso degli schiavi variavano a seconda delle regioni. C’era una grande differenza tra il Senegambia, che offriva un numero abbastanza basso di bambini (all’incirca il 6%) e l’Africa centro-occidentale, dove i bambini costituivano circa un quinto degli schiavi. Allo stesso modo, le donne eguagliavano in numero i maschi nelle imbarcazioni che partivano dalla baia del Biafra, mentre erano poco numerose in quelle che salpavano dall’Alta Guinea. Le differenze nell’età e nel sesso degli schiavi dipende- vano da vari fattori: il coinvolgimento di alcune regioni nella tratta tran- sahariana, che assorbiva molte donne, determinava una maggiore disponi- bilità di uomini per la tratta atlantica; la provenienza degli schiavi da aree
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interne, lontane dalla costa, che implicava costi di trasporto più alti, non prevedeva in genere molti bambini; il grado di dipendenza di un’econo- mia regionale dal lavoro delle donne. Comunque sia, l’età e il sesso degli schiavi erano determinati principalmente dai bisogni e gli interessi degli africani più che dalla domanda degli europei. Sebbene il tasso di morta- lità degli africani durante il middle passage sia sceso nel tempo, anche in
questo caso le differenze tra le regioni giocavano un ruolo importante nel- la determinazione dell’indice di mortalità. Questa era ad esempio molto più alta nelle navi che partivano dalla baia del Biafra rispetto a quelle che partivano dall’Africa centro-occidentale. Evidentemente la prima era una zona a più alto rischio di epidemie rispetto alla seconda; oppure gli schiavi che partivano dalla baia del Biafra provenivano da regioni lontane e prima di raggiungere i porti della costa viaggiavano in zone altamente infettive.
La regione meno integrata all’economia atlantica fu decisamente l’Alta Guinea. Nonostante fosse la regione più vicina all’Europa e all’America, con la più lunga tradizione di contatti euro-africani e con la presenza di una classe mercantile ben strutturata e articolata, fu quella che inviò il più basso numero di schiavi nelle Americhe. I motivi di questa scarsa integra- zione sono molteplici e vanno dall’alta frammentazione politica all’ele- vata domanda di schiavi nell’economia regionale, alla forte incidenza di forme abusive di cattura degli schiavi e alla conseguente forte resistenza degli africani (le navi che partivano da questa zona avevano la più alta in- cidenza di rivolte rispetto alle altre aree), sino all’inefficacia del sistema di consegna e agli elevati prezzi degli schiavi. L’Africa centro-occidenta- le, invece, era l’opposto dell’Alta Guinea. Questa regione esportò il più alto numero di schiavi nel continente americano, circa la metà del totale; questi arrivarono in quasi tutte le regioni del Nuovo Mondo, anche se la grande maggioranza finì in Brasile. L’alto grado di integrazione di questa regione al mondo atlan ti co può essere spiegato dalla presenza portoghese, in quanto fu l’unica colonia europea in Africa durante l’epoca moderna. Inoltre, il tragitto dall’Angola al Brasile sud-orientale e a Bahia era il più rapido rispetto a ogni altra rotta dall’Africa all’America. Il sofisticato si- stema di consegna che gli africani costruirono fu un altro degli elementi che spiega l’importanza di questa regione nell’Atlan ti co determinata dal suo carattere politico e culturale essenzialmente unitario. Anche se c’e- rano culture regionali diverse – kongo, mbundu e ovimbundu – e lingue distinte, i frequenti contatti tra questi gruppi li collegavano e univano in una più ampia cultura bantu23.
L’impatto della tratta sulle società africane fu profondo, ma i suoi ef- fetti non furono solo negativi. La tratta atlantica provocò senz’altro in- genti spostamenti di popolazioni e un incremento della violenza associa- to probabilmente a una maggiore instabilità politica, ma il volume della tratta, anche se in crescita, non riuscì a trasformare radicalmente l’econo- mia africana. In altre parole, la tratta non è la causa del sottosviluppo del continente africano, come è stato a lungo affermato. Una delle principali conseguenze dell’integrazione atlantica fu infatti il riorientamento delle reti commerciali e la stimolazione dell’economia. Per quanto riguarda il primo aspetto, nuovi gruppi commerciali emersero grazie alla tratta, in particolare sulle zone costiere. In alcuni casi, si trattava di discendenti di matrimoni misti tra europei e africani; in altri, come nel caso della co- munità aro della baia del Biafra, di mercanti specializzati nel trasporto di schiavi dalle regioni interne alla costa. La tratta atlantica determinò inoltre un più ampio accesso alla moneta e questo incrementava a sua volta le transazioni commerciali con gli europei o tra africani. Le impor- tazioni dall’Europa non soffocarono le produzioni manifatturiere locali, in quanto si trattava di beni che si aggiungevano a produzioni locali per diversificare l’offerta più che sostituirla. Le importazioni di ferro contri- buirono anzi a sviluppare un’industria manifatturiera locale – gli africa- ni impararono a lavorare e costruire oggetti in metallo – e ad aumentare, grazie ai nuovi strumenti, la produzione agricola. Alcune importazioni, come quella del tabacco americano, favorirono infine lo sviluppo di colti- vazioni locali dei prodotti.
L’aumento delle importazioni di armi in molte regioni dell’Africa ha