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La rivoluzione americana

Fino a non molto tempo fa la rivoluzione americana era considerata, da un punto di vista “nazionale”, come l’evento che aveva dato vita agli Stati Uniti d’America. Tutti gli eventi che vanno dalla fine della guerra dei Sette Anni al 1787 erano quindi considerati come rilevanti solo ed esclusiva- mente per la storia della nazione americana. Questa storiografia patriotti- ca aveva mitizzato i leader della rivoluzione definendoli Founding Fathers

e ridotto la storia della colonizzazione inglese in Nord America al lungo preludio dell’indipendenza della nazione.

Questa prospettiva trascurava molte delle caratteristiche della rivolu- zione americana. In primo luogo, enfatizzando lo sviluppo di un’identità americana durante il periodo coloniale, aveva ignorato le strette relazioni tra britannici e americani prima del 1776, e soprattutto il fatto che la maggio- ranza dei coloni si sentivano britannici a tutti gli effetti. In secondo luogo, concentrandosi esclusivamente sulle tredici colonie, ha separato la storia di queste ultime da quella delle altre regioni del Canada e dei Caraibi, che non si ribellarono. Infine, decantando l’eroismo e il sacrificio degli eroi dell’indi- pendenza, ha nascosto lo spettro della violenza rivoluzionaria – si è parlato a

questo proposito di “rivoluzione pacifica” – e le tendenze anti-libertarie della rivoluzione, soprattutto per ciò che concerne gli schiavi. Più in generale, possiamo affermare che l’approccio “nazionale” non è riuscito a spiegare quelle cause, dinamiche e conseguenze della rivoluzione che andarono oltre quelli che poi furono i confini nazionali degli Stati Uniti23.

Una lettura della rivoluzione nel quadro di un contesto atlan ti co per- mette, invece, di considerare le sue cause, dinamiche e conseguenze in un ambito geografico e cronologico più ampio. Questa prospettiva, in realtà, non è del tutto nuova. Già a partire dalla fine del Settecento, infatti, molti osservatori avevano visto in questo evento un nuovo tipo di rivoluzione, secessionista nella forma e anti-imperiale nello scopo: era la prima volta (dopo la rivolta anti-spagnola delle Province Unite) che dei coloni aveva- no tagliato i legami politici con la metropoli per autogovernarsi. Per i ri- voluzionari transatlantici di quest’epoca, la rivoluzione segnava l’inizio di una serie di trasformazioni politiche e sociali tra America ed Europa, che includeva le rivoluzioni americana e francese, la rivoluzione haitiana e le indipendenze ibero-americane. Dopo la Seconda guerra mondiale, alcuni storici l’hanno invece considerata come il primo atto delle “rivoluzioni democratiche”, delineando una “civilizzazione atlantica” che includeva il Nord America e gran parte dell’Europa occidentale e centrale ma non l’A- merica latina e i Caraibi24. Nonostante le differenze e le diverse prospettive

ideologiche, queste interpretazioni della rivoluzione americana condivi- devano due ipotesi: che il mondo atlan ti co avesse determinato la rivolu- zione e che questa avesse dato forma al mondo atlan ti co.

Negli anni settanta del Settecento, gli ideologi della rivoluzione, come Thomas Jefferson e Thomas Paine, avevano descritto la crisi che scosse l’im- pero britannico come un processo di disintegrazione. Thomas Jefferson af- fermava che gli abitanti delle colonie britanniche avevano stabilito «nuove società, le cui leggi e regolamenti erano più adatti a promuovere la felicità pubblica»25. I coloni avevano quindi formato comunità creole distinte ma

moralmente superiori rispetto al Vecchio Mondo corrotto. Le imposizioni fiscali successive alla guerra dei Sette Anni, affermava Thomas Paine, avevano approfondito il senso della distanza fisica e morale dei coloni con la madre- patria, che stava negando loro le libertà fondamentali. Questa narrazione lineare della libertà, forgiata durante l’epoca prerivoluzionaria, è ancor oggi il tradizionale racconto dell’origine della nazione americana.

Più recentemente, la rivoluzione è stata descritta dagli storici come una crisi di “integrazione” piuttosto che di “disgregazione” all’interno del

mondo atlan ti co. Per oltre un secolo, infatti, i coloni imposero nei terri- tori americani – comprese le isole caraibiche – leggi, istituzioni, culti e costumi importati dalla Gran Bretagna, che erano radicalmente distinti da quelle delle popolazioni native. All’inizio del xviii secolo, il commercio, le migrazioni e la velocità delle comunicazioni aveva unito le colonie ame- ricane, la Gran Bretagna e l’Irlanda in un’unica comunità imperiale che fu ideologicamente definita da entrambe le parti come protestante, commer- ciale, marittima e libera. Le guerre e la rivalità con le altre potenze europee e la rivoluzione dei consumi – che rese simili le maniere sociali – raffor- zarono questo senso di unità. Durante i due decenni che precedettero la rivoluzione, le varie comunità britanniche intorno all’Atlan ti co erano di fatto più vicine in termini di pratiche culturali, integrazione economica e ideologia politica di quanto non lo fossero mai state prima. Quando i co- loni cominciarono a protestare contro le nuove misure fiscali, lo fecero nel rispetto dei fondamentali diritti inglesi e della costituzione britannica26.

La diversità istituzionale dei vari possedimenti britannici in America smentisce tuttavia questa unità. Alla vigilia della rivoluzione, gli interes- si britannici nell’emisfero occidentale andavano dalla baia di Hudson a nord, alla Costa dei Mosquitos a sud. Vi erano inoltre colonie di vecchia data, come la Virginia e le Bermuda, e territori da poco acquisiti come il Québec, la Florida e le isole di Dominica, Saint Vincent, Grenada e Toba- go, passati dalla Francia alla Gran Bretagna in seguito alla guerra dei Sette Anni. Gli interessi britannici includevano anche i territori controllati dalla Compagnia della baia di Hudson, le isole Bahamas, scarsamente popolate, aree di disboscamento nel golfo di Honduras e un protettorato sugli indi- geni miskitos nell’attuale Nicaragua. Queste differenze possono spiegare perché alcuni coloni britannici aderirono e appoggiarono la rivoluzione e altri no. In effetti, nemmeno la metà dei territori dell’Atlan ti co britannico si separarono dall’impero nel 1776: a parte le tredici colonie sulla costa orientale del continente, dal New Hampshire alla Georgia, nessuna isola si unì ai ribelli, né lo fecero la Nuova Scozia, il Québec, Terranova e la Florida. Inoltre, la maggior parte dei nativi americani si alleò con la Gran Bretagna o rimase neutrale durante il conflitto27.

Occorre poi considerare che l’epoca rivoluzionaria coincise con impor- tanti flussi migratori. Negli anni successivi al 1760 circa 250.000 migranti raggiunsero il Nord America britannico dalla Gran Bretagna, dall’Irlanda, da altri stati dell’Europa e dell’Africa. Nel 1775, circa 2.600.000 persone sui 3.000.000 circa dell’impero britannico in America vivevano nel territorio

che poi diventò gli Stati Uniti; un quinto di questi, all’incirca 500.000 in- dividui, erano schiavi e la maggior parte risiedeva nelle colonie del sud. I ritmi dei flussi migratori ebbero conseguenze importanti per la rivoluzione: quei territori che ricevettero alte percentuali di migranti dopo la guerra dei Sette Anni, come la Nuova Scozia, la Florida e le Indie occidentali, furono anche quelle che rimasero leali alla Gran Bretagna28. Infine, anche se la guerra

arrestò gli scambi con le colonie continentali, il commercio con i Caraibi britannici aumentò nelle quattro decadi successive al 1770.

In seguito alle varie misure prese dal Parlamento inglese nel 1764 – tra cui lo Stamp Act –, che prevedevano in sintesi un maggior controllo cen-

trale sui meccanismi economici, commerciali e politico-amministrativi delle colonie, ci fu nei territori americani una vivacissima protesta che si manifestò in un profluvio di opuscoli e in un improvviso ampliamento della partecipazione politica. La veemenza e la determinazione dell’oppo- sizione americana finirono con l’indurre il governo inglese a fare marcia indietro e ad abrogare almeno lo Stamp Act. Tuttavia, la revoca della tassa

da bollo, nel 1766, fu accompagnata da una legge, il Declaratory Act, che

conteneva la testuale affermazione del legittimo potere del Parlamento di legiferare per le colonie “in qualsiasi caso”. Questa dichiarazione anticipò, nel 1767, nuove misure fiscali che avevano l’intenzione dichiarata di pro- curare le risorse finanziarie con cui pagare i funzionari governativi in Ame- rica, sganciando così la loro autorità dagli stanziamenti con cui le assem- blee li avevano tenuti in scacco. Le nuove risorse dovevano risultare dalle tasse sulle importazioni, che includevano prodotti come la carta, il vetro, il piombo e il tè. Agli occhi del nuovo ministro Pitt queste misure erano necessarie per riaffermare il diritto del Parlamento di tassare le colonie. Le proteste non si fecero attendere e i coloni cominciarono a boicottare le merci inglesi. Le tensioni raggiunsero l’apice con il massacro di Boston nella primavera del 1770, quando alcuni soldati britannici, sparando sul- la folla inferocita, uccisero cinque americani. Allo stesso tempo, dall’altra parte dell’oceano, il Parlamento stava discutendo il ritiro di alcune misure fiscali volute qualche anno prima dal ministro Townshend: tutte le tasse furono abrogate, eccetto quelle sulle importazioni di tè.

Nel 1773, una legge concesse alla East India Company il monopolio del commercio del tè in America. Fu proprio questo l’elemento scatenan- te della crisi iniziata con il famoso Tea Party di Boston nel dicembre del

1773, quando, in attesa del primo carico di tè della East India Company, i manifestanti, alcuni mascherati da indiani mohawk, gettarono circa 40

tonnellate di tè nelle acque del porto. Questa azione fu un affronto che le autorità inglesi non potevano ignorare e quindi reagirono emanando una serie di leggi, i cosiddetti Coercitive o Intolerable Acts, contro la città e

l’assemblea di Boston: il porto di Boston fu chiuso sino a quando la East India Company non fosse stata rimborsata per le sue perdite; furono attri- buiti poteri più grandi al governatore a discapito dell’assemblea, ad esem- pio nella nomina dei giudici; fu previsto che i processi si tenessero fuori dalla colonia; si prescrisse infine l’accantonamento di truppe britanniche nella città. Le reazioni a queste misure avrebbero portato di lì a tre anni alla Dichiarazione di indipendenza.

Tuttavia, il cammino che avrebbe portato dai fatti del 1773 alla dichiara- zione del 1776 non era affatto predeterminato. Come per i territori ibero- americani dell’inizio del xix secolo, a essere in gioco non era la separazio- ne dall’impero, ma il modo in cui riformarlo e ricostituirlo su nuove basi, anche attribuendogli un nuovo centro o più centri. In un’età di rivoluzio- ni, fu la sovranità a essere contesa all’interno degli imperi atlantici29. Nel

caso delle colonie britanniche, gli anni successivi al 1774 costituirono un momento cruciale per l’elaborazione di nuove concezioni della sovranità, sia all’interno che all’esterno dell’impero. Nel 1774, comunque, uno dei principali obiettivi del Congresso continentale, riunitosi a Philadelphia, era ancora la ridistribuzione dell’autorità all’interno dell’impero e non la creazione di un’autorità esterna a questo. Jefferson e Wilson, ad esempio, avevano entrambi immaginato la ricostituzione dell’impero sulla base di una completa autonomia legislativa delle colonie e della madrepatria, cui si accompagnasse una funzione di raccordo e di garanzia dell’unità imperia- le da parte della corona secondo un modello destinato a conoscere fortuna con il Commonwealth. Le Indie occidentali e il Québec non inviarono i loro rappresentanti al Congresso, anche se furono presentate loro richieste in questo senso. Lo status degli abitanti di quest’ultima provincia divenne persino un’altra questione controversa tra Parlamento e coloni. Il Quebec Act aveva infatti concesso agli ex sudditi francesi di continuare a praticare

la religione cattolica a dispetto dell’opinione dei protestanti. L’istituzione poi, nella stessa provincia, di un governo direttamente dipendente dalla corona e l’inclusione entro i suoi confini di territori che andavano sino al fiume Ohio, che venivano così sottratti agli appetiti degli speculatori americani, furono considerate un’ulteriore prova dello scivolamento della madrepatria verso metodi di governo arbitrari.

co del governo inglese, il Congresso continentale propose di enumerare i diritti coloniali, specificando così gli atti del Parlamento che si oppone- vano a questi diritti e concependo misure contro la legislazione coerci- tiva. Per esercitare una pressione sull’economia dell’impero, adottarono ancora una volta il blocco delle importazioni ma in modo più strutturato rispetto ai tentativi precedenti, in quanto, contrariamente al passato, esso era accompagnato da un piano di produzione domestica sostitutiva delle importazioni. L’Associazione continentale, firmata dai rappresentanti di dodici colonie, proibiva l’importazione o il consumo di beni britannici o irlandesi e l’esportazione di prodotti americani verso la Gran Breta- gna, l’Irlanda e i Caraibi inglesi. Essa specificava anche che le colonie non avrebbero importato tè indiano, melassa, sciroppo, zucchero non raffina- to, caffè o peperoncino dalle piantagioni britanniche, né vini da Madeira o dalle altre isole atlantiche; esse avrebbero sospeso anche il commercio degli schiavi. Questo elenco, benché li rinnegasse, mostrava che le colonie avevano legami commerciali con ogni parte dell’impero formale o infor- male britannico (con i Caraibi, le isole atlantiche, l’Africa, ma anche con la Cina e il Bengala). L’Associazione condusse quindi un attacco globa- le alle fondamenta commerciali dell’impero, che ebbe conseguenze sulla circolazione economica nell’Atlan ti co britannico. L’Irlanda divenne, ad esempio, la maggiore fonte di rifornimenti per le Indie occidentali inglesi. I proprietari di piantagioni di queste ultime cominciarono a temere che la mancanza di rifornimenti, e quindi possibili carestie, avrebbero potuto fomentare rivolte di schiavi; il che li allontanò ancora di più dai ribelli, spingendoli verso la lealtà alla madrepatria. Gli effetti del boicottaggio si fecero infine sentire in tutte le colonie continentali: non solo furono cre- ati comitati locali di polizia per controllare cosa realmente si consumava, ma la produzione e il consumo domestico si associarono progressivamente alla virtù e a un sentimento morale di distanza sempre più ampia dalla Gran Bretagna e dai Caraibi30.

Anche se pochi coloni avrebbero prefigurato l’indipendenza nel 1774, il boicottaggio contribuì a renderla un’opzione più concreta nel lungo periodo. Nonostante due episodi di incidenti tra le truppe inglesi e le milizie coloniali durante il 1775 (a Lexington e Concord, in Massachu- setts), i rappresentanti del secondo Congresso continentale, che si riunì a Philadelphia nel 1775, continuavano ad affermare che non avevano inten- zione di uscire dall’impero. Tuttavia, nella prima dichiarazione adottata dal Congresso, giustificavano l’uso delle armi per autodifesa: la protesta

si era così trasformata in guerra civile. Nei mesi successivi, infatti, il sovra- no Giorgio iii dichiarò formalmente che le colonie continentali si erano ribellate alla Gran Bretagna e che quindi non erano più sotto la sua prote- zione. Con questo proclama, quella che era stata sino ad allora una rivolta anti-fiscale divenne una guerra americana, anche se non ancora una rivolu- zione: il termine apparirà per la prima volta nel 1779 quando il Congresso continentale pubblicò le Observations on the American Revolution31.

Per vincere la guerra, le due parti dovettero cercare sostegno sia inter- no che esterno. Sul piano interno, la Gran Bretagna non poteva contare sull’appoggio dell’opinione pubblica, pronta a utilizzare gli argomenti della guerra americana per favorire i propri reclami a livello locale o nazio- nale. Su quello esterno, la Gran Bretagna restò politicamente isolata sino alla decisiva sconfitta a Yorktown nel 1781. Per ciò che concerne invece la mobilitazione di risorse umane, il suo esercito fu di fatto un esercito atlan- ti co in quanto riuniva soldati della casa di Hannover, soldati dell’Assia, scozzesi, cattolici irlandesi, coloni del Québec, nativi americani e schia- vi africani. Il fare appello a varie popolazioni dell’impero affinché parte- cipassero come ausiliari dell’esercito fu il preludio di quello che sarebbe diventato l’impero britannico dopo l’indipendenza americana, nel quale ci fu un più ampio riconoscimento della diversità tra le varie parti ma a scapito di una forte gerarchia e autorità32. La Gran Bretagna poté contare

anche su un ampio numero di lealisti all’interno delle colonie, tra i qua- li i coloni britannici, i nativi (come i cherokee e i mohawk) e all’incirca 20.000 schiavi che si arruolarono nell’esercito britannico in cambio della libertà. Le stime indicano che circa il 20% della popolazione delle tredi- ci colonie, ossia 500.000 persone circa, era ancora fedele alla corona alla fine della guerra: 60.000 di questi, a cui vanno aggiunti 15.000 schiavi, lasciarono gli Stati Uniti come parte di una diaspora globale che raggiun- se il Canada, la Florida, le Bahamas, la Sierra Leone, l’India e l’Australia. Nelle aree in cui le minoranze lealiste furono più forti – Carolina del Sud, Georgia e New York – la guerra americana fu percepita come una serie di guerre civili locali33.

Tali divisioni divennero tuttavia più gravi dopo che il Congresso con- tinentale dichiarò l’indipendenza nel 1776. La Dichiarazione di indipen- denza annunciava al mondo che le precedenti colonie erano ormai Free and Independent States. Il suo obiettivo era trasformare la guerra civile all’in-

terno dell’impero britannico in una guerra tra stati sovrani e costruire la prima repubblica moderna del mondo atlan ti co. Il documento informava

anche le “potenze della terra” – ossia le grandi diplomazie europee – che gli Stati Uniti erano aperti ad accordi commerciali ed economici e disponibili a fare delle alleanze34. Fu grazie alla Dichiarazione che i francesi conclusero

con gli americani, nel 1778, un trattato di alleanza e di commercio, al quale fece seguito la dichiarazione di guerra della Francia alla Gran Bretagna. Anche la Spagna dichiarò guerra alla Gran Bretagna nel 1779, trasforman- do così la guerra coloniale in un conflitto internazionale. La credibilità degli insorti fu accresciuta anche dalla vittoria di Saratoga del 1777, dopo che nei primi due anni degli scontri furono i britannici ad aver avuto la meglio. In seguito all’accordo con la Francia, i rifornimenti continui di uomini e materiali, l’appoggio della flotta e il contributo di ufficiali come il marchese di La Fayette e il conte di Rochambeau contribuirono ad alterare definitivamente gli schieramenti e a condurre i franco-americani verso la vittoria finale a Yorktown, nel 1781. Questo fu l’episodio che aprì la strada ai negoziati di pace, stipulati a Parigi nel 1783. Il trattato riconobbe l’in- dipendenza degli Stati Uniti da parte della Gran Bretagna, che cedette al nuovo stato i Grandi Laghi, la Florida e la valle del Mississippi.

Il passaggio da guerra civile a rivoluzione fu fondamentale per il mondo atlan ti co in quanto trasformò questo spazio in un’arena che poteva ospita- re in primo luogo gli stati indipendenti, poi il repubblicanesimo (nel senso di governi non monarchici) e infine la creazione di unioni federali. In que- sto, la Dichiarazione di indipendenza ha giocato un ruolo fondamentale. Anche se la maggior parte degli storici e degli analisti politici si è sempre soffermata sul secondo paragrafo della Dichiarazione, dove si elencano i diritti naturali dell’uomo, ossia “le verità di per sé stesse evidenti”, quello che è veramente importante per la prospettiva atlantica della rivoluzione è il terzo paragrafo in cui si dichiara l’indipendenza degli stati e perciò la loro trasformazione in soggetti sovrani dal punto di vista internazionale. La Dichiarazione non crea quindi la nazione, ma piuttosto la statualità; ed è esattamente questa la vera essenza della rivoluzione americana: aver creato uno stato (o degli stati)35. Anche se la rivoluzione è stata tradizio-

nalmente considerata come il risultato di una nazione che finalmente re- alizzava sé stessa, senza l’indipendenza e la statualità la narrazione della nazione non avrebbe mai avuto luogo. Se consideriamo la rivoluzione da una prospettiva atlantica, non possiamo infatti definirla “nazionale”: gli autori della Dichiarazione parlavano ancora del loro “fratello britannico” quando proclamarono che non erano più compagni subordinati. Fu la ri- voluzione a produrre gli americani, non il contrario. Anzi, occorrerà aspet-

tare la seconda guerra civile, la guerra di Secessione (1861-65), per assistere finalmente alla nascita di una nazione americana.

Anche se, sotto molti aspetti, l’indipendenza, la formazione di un go- verno federale e repubblicano, la costruzione di un nuovo ordine sociale,