Duccio Demetrio è stato professore di Filosofia dell’Educazione e di Teorie e pratiche della narrazione presso l’Università degli studi di Milano Bicocca. Si è occupato di pedagogia e di educazione degli adulti, rivestendo ruoli accademici. Ha sviluppato ricerche sulla dimensione esistenziale dell’adulto in un’ottica filosofica e sulla funzione pedagogica dei metodi narrativi, dedicandosi in particolare al metodo autobiografico.
Nel 1988 ha fondato, insieme a Saverio Tutino, scrittore e giornalista, la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari di cui è direttore scientifico e docente.
La scrittura15, da un punto di vista storico, acquisisce una dimensione personale ed intima quando smette di essere compito dello scrivano e comincia ad assumere un posto nella dimensione privata, sia per dissertare sui propri principi, sia per esplorare i propri sentimenti rispetto ai grandi temi esistenziali dell’uomo: la morte, il senso della vita, la malinconia, l’amore. In ogni caso la scrittura sembra raccogliere da sempre le sofferenze e i turbamenti che caratterizzano i momenti apicali della vita (Demetrio, 2008).
La spinta di Demetrio ad approfondire la funzione della scrittura, in particolare la scrittura di sé, sembra connessa con l’effetto che questa potenzialmente produce:
“l’emergere del soggetto dalla schiavitù del gruppo, della comunità coatta, della tribù”
15 Parlando di scrittura, ci sembra utile ricordare che, da un punto di vista filogenetico ed ontogenetico, l’acquisizione del linguaggio scritto non sembra essere fondata su una predisposizione genetica;
l’invenzione della scrittura risale a circa seimila anni fa, quindi un tempo breve per l’evoluzione naturale ed inoltre per la maggior parte delle popolazioni umane l’alfabetizzazione è avvenuta in forma estesa solo nel corso degli ultimi due secoli. Il linguaggio scritto, contrariamente a quello orale, non è acquisito in modo passivo e automatico, bensì richiede volontà ed impegno; richiede processi cognitivi complessi che implicano il coinvolgimento dei diversi buffer di memoria e la successiva programmazione motoria che ci consente di tracciare il segno sulla carta o digitare sulla tastiera (Làdavas, 2012). La complessità di questo strumento della comunicazione umana lo rende diverso dagli altri canali perché richiede tempi più lunghi e quindi ci spinge a fare un’elaborazione più approfondita di quanto vogliamo comunicare.
(Demetrio, 2008, p. 85). Gli affida quindi una funzione di supporto nel processo di conoscenza di sé e di individuazione in se stesso.
L’ideazione del metodo autobiografico nel pensiero di Demetrio è strettamente connessa con l’attenzione verso il bisogno di crescita e trasformazione dell’adulto.
Anche la fase centrale della vita è caratterizzata da blocchi evolutivi che possono produrre una stagnazione oppure, se affrontati adeguatamente, generatività16. È nella fase del blocco e del disorientamento che nasce nell’individuo quello che l’autore chiama “pensiero autobiografico”. Si tratta di un bisogno di raccontarsi, di pensare a se stessi in termini storiografici, andando a recuperare ricordi e momenti della vita passata e cercando un collegamento con il presente.
Il pensiero autobiografico è una sorta di stato mentale che sopraggiunge in determinati momenti dell’esistenza, in corrispondenza del passaggio da una fase all’altra della vita:
l’uscita dei propri figli dalla casa familiare o il pensionamento, oppure in caso di traumi, come una separazione, una malattia, un lutto.
L’autore sostiene che la scrittura di sé può rappresentare un “medicamento” per il dolore perché la scelta delle parole e delle immagini utilizzate per rappresentarlo portano a dargli una forma che può avere funzione di contenimento. Il linguaggio ha una funzione di radicamento. “Siamo soprattutto linguaggio e la nostra normalità mentale poggia proprio sul riuscire a mettere insieme, con una certa coerenza, le parti dei nostri discorsi” (Demetrio, 1996, p. 115).
Di solito nei momenti di crisi emerge anche il bisogno di fare bilanci rispetto a quello che si è fatto nella vita e rispetto a quello che si è diventati, senza tralasciare quello che si può ancora fare ed essere. Il lavoro autobiografico, in questa dimensione introspettiva e di crisi, può essere funzionale perché risponde al bisogno di consapevolezza e conoscenza di sé.
16 L’età adulta diviene oggetto d’interesse di ricerca in ambito psicosociale con la teoria dello sviluppo psicosociale di E.H. Erikson che definisce la crescita dell’individuo in senso “epigenetico”; cioè la persona cambia a contatto con il suo ambiente e si trasforma in risposta agli stimoli ambientali. In particolare rispetto alla fase dell’età adulta Erikson parla di generatività e stagnazione; un continuum all’interno del quale l’individuo esprime creatività e produttività oppure stasi, blocco evolutivo che lo porta ad un comportamento autoreferente (Erikson, 1951).
Questo processo avviene di solito quando la persona ha raggiunto una certa maturità, perché “il significato della propria vita incomincia a trasparire quando il disegno ha ormai assunto una conformazione” (Demetrio, 1996, p.22).
L’autobiografia, in quanto lenitiva rispetto al malessere esistenziale, può essere curativa, anche se l’obiettivo non è quello di “guarire”.
Demetrio sostiene che la scrittura non possiede poteri tali da risolvere i problemi di fragilità e crisi esistenziale dovuta a motivi di ordine intrapsichico. Piuttosto, la facoltà curativa dell’autobiografia sta nella capacità di stimolare la responsabilità di “prendersi in carico”, narrandosi. Ripercorrere eventi, periodi, relazioni e sentimenti, avvalendosi della memoria, attiva la cosiddetta “intelligenza retrospettiva”, una peculiare funzione della memoria che consente di collegare eventi e sentimenti, dando senso alle proprie scelte.
In quest’ottica, l’autobiografia diviene un viaggio formativo utile alla costruzione del senso di quello che siamo. Ripercorrendo la propria storia, il narratore può ricontattare bisogni, aspettative, motivazioni, desideri, cioè le tante parti che hanno dato vita a scelte diverse persino in conflitto o che esprimono rimpianti o rimorsi.
È come se la frammentarietà della memoria nella narrazione si ricomponesse per creare una “sintassi interiore” che fino a quel momento non vedevamo. (Demetrio, 1996)
Nella proposta di Demetrio, specifica per la formazione agli adulti, l’aspetto clinico sta nel fornire strumenti e conoscenza a chi affronta un disagio e quindi, in quest’ottica, coincide con l’aspetto pedagogico.
L’assunto di base è che l’etimologia della parola klinè, letto, può rimandare a un’idea di sosta, di sospensione dell’azione, nell’attesa di riprendere il cammino. L’autore la intende quindi come una possibilità di trasformazione.
Le situazioni di fragilità dell’esistenza, come invecchiamento, separazioni, lutto, perdita, sono quelle in cui la risposta clinica deve andare verso una dimensione educativa e conoscitiva e non verso una dimensione di guarigione. È orientata al “saper vivere con pienezza” quei momenti delicati che un tempo potevano essere affrontati anche grazie alla rete sociale, molto più stretta e presente di quanto non lo sia oggi.
Quindi, si tratta di una dimensione “evolutiva più che adattiva” (Demetrio, 2008).
L’azione positiva del processo autobiografico si concretizza con l’emergere di un io prevalente che Demetrio definisce “l’io tessitore”, cioè un carattere dominante che è poi quello che riesce a mediare tra le diverse istanze psichiche e che ha la capacità di stabilire nessi, concordanze, coincidenze e che quindi ci aiuta a rintracciare il senso.
“Fare autobiografia è infatti darsi pace, pur affrontando l’inquietudine e il dolore del ricordo” (Demetrio, 1996, p.27).
È un po' come se l’autore volesse sottolineare che l’autonarrazione è strumento dell’Io in senso psicoanalitico. Tra le tre istanze psichiche della mente indicate da Freud, l’Io è quella che rappresenta il rapporto dell’individuo con il resto del mondo e attraverso le difese controlla e modula le spinte pulsionali dell’Es e del Super-Io. Nella narrazione, l’Io diviene una guida che viaggia attraverso la propria storia e può osservare eventi, esperienze in cui altre istanze possono aver influito (Mitchell & Black, 1995).
Tuttavia le dimensioni trattate vengono attraversate solo in termini autobiografici e non psicologici cioè non si lavora al fine di individuare ciò che può essere stato rimosso, non si esplorano proiezioni e difese dell’io.
L’autoascolto e l’osservazione di sé potenziano la consapevolezza dell’io senza coinvolgere altre dimensioni inconsce che non possono essere prese in considerazione in un percorso che non è terapeutico. “La clinica non terapeutica […] è uno spazio potenziale di interrogazione filosofica […]. Si tratta di una cura rivolta a se stessi […], è riflessiva rispetto alla propria esistenza biografica e speculativa rispetto alle domande di senso più generali” (Demetrio, 2008, p. 327).
Il processo autobiografico consiste in tre momenti diversi: quello della retrospezione che guarda al passato, quello della interpretazione di ciò che è stato a fronte di ciò che si è oggi ed il momento creativo in cui la scrittura può dare spazio all’inventiva aggiungendo storie di fantasia alla realtà dei fatti narrati.
Le storie di fantasia possono riguardare i diversi io che emergono dalla narrazione ed hanno lo scopo di consentire alla persona di rintracciare forme e modi potenziali di esistere, di contattare le proprie risorse e realizzare che la vita può ancora offrire delle opportunità (Demetrio, 1996).
È possibile intravedere anche una funzione di potenziamento/empowerment: prendere contatto con le proprie possibilità rende liberi di progettare ancora.
A nostro avviso, il metodo autobiografico, in quanto intervento psicopedagogico rivolto al superamento della “crisi” ed all’acquisizione di consapevolezza, è legato allo sviluppo della resilienza.
Questo concetto, che nasce dalle scienze fisiche ed indica la capacità dei materiali di assorbire energia cinetica senza riportare danni, viene utilizzato in ambito psicologico per indicare la capacità dell’individuo di resistere agli eventi traumatici senza esserne travolti. Si discute molto su quanto la resilienza sia un fattore innato o appreso e quali siano le condizioni predisponenti ad un atteggiamento resiliente. La ricerca ha stabilito che alcuni fattori, come uno “stile di attaccamento sicuro”17, favoriscono un atteggiamento resiliente nei confronti degli eventi traumatici; al tempo stesso alcune forme espressive e la valorizzazione del contesto sociale agevolano in chiunque lo sviluppo di resilienza.
Proprio la narrazione di sé sembra avere una funzione importante in questo senso:
l’opportunità di incontrare i “fantasmi” più e più volte nel racconto delle proprie storie da la possibilità di depotenziarli attraverso la descrizione e rende più aperta la persona agli aspetti positivi che possono essere rintracciati in ogni situazione di vita.
L’utilizzo delle parole aiuta a simbolizzare e a dare contenimento all’esperienza traumatica lasciando spazio al resto; la dimensione sociale fornisce il supporto, l’ancoraggio per tollerare il dolore e proiettarsi nel futuro (Vaccarelli, 2016).
I presupposti teorici e metodologici che abbiamo descritto prendono forma nei corsi di scrittura autobiografica che vengono erogati presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari che è ormai da tempo il luogo italiano dell’Autobiografia per eccellenza, dove le persone arrivano con il bisogno di “raccontarsi” e dove possono apprendere questo metodo come strumento per raccogliere successivamente le storie altrui o per realizzare corsi e percorsi divenendo loro stessi formatori specializzati in questo metodo.
Ogni “autobiografo” in formazione viene accompagnato a ricomporre la propria storia di vita in forma di romanzo, attraverso gli stimoli ricevuti durante i laboratori, il lavoro diaristico e con la narrazione per episodi. Lo scopo è quello di dare un profilo umano e morale di sé. Gli obiettivi didattici sono: sviluppare la capacità di ritrovare e trattare letterariamente le proprie memorie, anche le più penose; incrementare la disponibilità
17 Per un approfondimento sulla teoria dell’Attaccamento di J. Bowlby: Holmes, 1993.
ad esporsi; acquisire la capacità di riorganizzare la memoria di se; rendersi consapevoli circa l’importanza dello sviluppo di sé oltre l’autobiografia.
Gli allievi devono aderire ad alcune regole che rappresentano le precondizioni per poter seguire il percorso: la regola del silenzio, necessario per far riaffiorare i ricordi individuali e a scriverne come se si fosse in solitudine, pur stando fianco a fianco con altre persone nella stessa aula; la regola della concentrazione introspettiva, nel senso che la dinamica del gruppo rispetto ai temi emersi non sarà oggetto di discussione o confronto; la regola della scrittura protratta, cioè la consegna rispetto alle attività narrative va oltre le giornate di corso e si estende a tutto il periodo di frequenza del corso stesso, durante il quale le persone si impegnano a produrre materiale diaristico ed autobiografico. Altra regola importante è la massima discrezionalità e libertà rispetto alla condivisione in gruppo del proprio prodotto biografico.
Il percorso procede per fasi: si passa dalla narrazione per momenti, episodi, emozioni, ai momenti apicali della vita che vengono narrati secondo le dimensioni del tempo, della consapevolezza e della disponibilità a scrivere della propria storia in carattere poetico (Demetrio, 2008).
Il luogo della formazione autobiografica è quindi uno spazio protetto dedicato alla scrittura individuale e moderatamente condivisa, in cui le persone devono essere accolte e stimolate a fare esperienza di vissuti emotivi che non trovino spazio altrove.
Il gruppo è una dimensione fondamentale in questo percorso perché consente di uscire dal rischio dell’egocentrismo che lo scrivere di sé potrebbe comportare. I partecipanti scrivono l’uno vicino all’altro ma senza obbligo di condivisione, viene sollecitato soprattutto l’ascolto. Il gruppo è inoltre una dimensione fondamentale perché stimola il confronto e contiene anche se, in questo contesto, proprio per l’accezione pedagogica e non terapeutica, non si utilizza mai la dimensione della “dinamica” di gruppo. Ciò che viene proposto è di imparare a convivere in gruppo, in una tolleranza e in un ascolto reciproco, dove il baricentro è sempre il lavoro individuale.
Anche se il gruppo non è un elemento centrale di questo tipo di percorso possiamo senz’altro sostenere che alcuni dei fattori terapeutici del gruppo siano presenti. Ad esempio, la “speranza” che si sviluppa nei contesti in cui gli individui hanno l’opportunità di confrontarsi con altri e di apprendere dagli altri gli esiti del percorso. Ed anche l’”universalità”: ascoltando le storie ed i vissuti degli altri, le persone spesso scoprono che le loro difficoltà non sono uniche; aumenta in tal modo il loro sentirsi in
contatto col mondo e parlano di queste esperienze come “il benvenuto nella specie umana” (Yalom, 1974, p. 27).
Come sostiene Demetrio, anche se non scriviamo per gli altri e anche se lo facciamo in solitaria, la voglia di scrivere per raccontare nasce dal bisogno di uscire dalla solitudine, dal proprio mondo interno. Inoltre, scrivere è un gesto culturale al quale siamo stati educati in circostanze relazionali: “[…] nasce e vuol tornare alla dimensione sociale.
Fugge dalla condivisione ma poi ne ha bisogno” (Demetrio 2008, p.37).