3. Ulteriori osservazioni
3.2 Narrazione e Gestalt
La narrazione in sé è definibile come un processo in quanto, per arrivare a narrare un’esperienza, si attraversano diverse fasi: recupero mnestico dell’evento; costruzione della trama attraverso la sequenzialità degli eventi; definizione dei rapporti di base fra l’agente, l’oggetto ed il luogo dell’azione; individuazione delle relazioni semantiche di base fra tutti gli elementi del racconto; creazione dell’ipotesi di significato dell’evento stesso, ed infine eventuale condivisione con un “narratario”.
Intendiamo quindi dire che la narrazione è un’esperienza e al tempo stesso sosteniamo che l’atto del narrare sia una fase specifica della più ampia esperienza del “vivere”. Nel momento in cui viene raccontato qualcosa di vissuto, in modo spontaneo, la mente è al lavoro per attribuire un significato a quanto narrato; così facendo si acquisisce quel significato e lo si assegna a quell’esperienza che risulterà, attraverso tale processo, simbolizzata e quindi integrabile nel più ampio mondo dei nostri significati personali.
Quanto descritto sopra è riconducibile all’idea di “Gestalt”, parola tedesca che può essere tradotta con il termine “forma”. Il concetto di Gestalt e le successive teorie della Psicologia della Gestalt, sono centrate sui processi percettivi e più in generale sull’esperienza umana. In particolare, il nostro interesse per questi costrutti, in questo elaborato, è legato alla centralità che assume in queste teorie “l’attribuzione di significato”. Riteniamo quindi che a partire da questo concetto si possano accostare i principi della narrazione fin qui descritti con l’approccio terapeutico della Gestalt proposta da Friedrich Salomon Perls. Iniziamo con l’individuare le basi filosofiche di questo modello.
Le radici delle trasformazioni che portarono alle teorie della Psicologia della Gestalt possono essere rintracciate nel dibattito che si sviluppò nell’ambito della filosofia della scienza dei primi anni del ‘900. In concreto sfociò in una sfida verso l’approccio scientista nei confronti della mente da parte dei filosofi. I teorici della Gestalt accolsero questa sfida intellettuale e pur riconoscendo la peculiarità della loro posizione, intermedia tra filosofia e scienze naturali, non abbandonarono l’obiettivo di creare una scienza naturale della mente (Ash, 1998).
Le successive elaborazioni di questo pensiero condussero gli psicologi della Gestalt alla definizione delle leggi percettive della Gestalt, che possono essere definite come modelli di descrizione dell’interazione fra le parti. Il principio di base è che la Gestalt è una qualità dell’esperienza. Tale qualità comunica un senso di unità. Il senso di unità è dato dal fatto che ciò che viene percepito è la struttura organizzata dei rapporti di interazione tra le diverse parti che compongono l’esperienza. Questi concetti, successivamente tradotti nelle cosiddette “leggi percettive” della Gestalt hanno cambiato radicalmente il modo di pensare alla realtà e di intervenire su essa. (Ash, 1998).
Gli psicologi della Gestalt avevano acquisito le idee di Henry Bergson e William James che sostenevano, seppur con delle differenze, che “l’esperienza considerata come una successione di stati separati, simili a oggetti, costituisce rispetto alla coscienza vissuta un’astrazione paragonabile a quella del tempo misurato dalle lancette d’un orologio […]
la coscienza vissuta, al contrario, è un continuo spazio-temporale” (Ash, p. 107).
Bergson sosteneva una distinzione tra scienza naturale e metafisica, alla quale assegnava il compito di definizione e comprensione della mente e dei suoi processi. Era
convinto che lo studio dell’esperienza umana dovesse essere affrontato in modo olistico e non in modo “punto a punto”. Per esempio, parlò dell’intuizione come di “èlan vital”, principio vitale, che ha la sua base nell’esperienza diretta.
Anche James nel suo studio “Principi di Psicologia” si contrappose all’idea di coscienza intesa come un aggregato o un succedersi di idee e propose di vedere la coscienza come un “flusso continuo del corso mentale” (Ash, 1998, p. 108). Contestò per esempio l’idea di percezione della forma visiva come fusione delle immagini retiniche provenienti dai due occhi formulata da Helmoltz. James intendeva la coscienza come una dimensione dinamica.
Sia Bergson che James erano concordi sul fatto che si riesca a cogliere, in un dato momento, solo una parte del flusso e che gli interessi d’ordine pratico portano a selezionare una caratteristica o l’altra.
Per James, percezione e pensiero sono processi integrati e gli studi sulla perdita delle funzioni dei pazienti cerebrolesi dimostrano che il cervello deve essere attivo nel suo complesso per dar vita a certi pensieri o atti e la coscienza non può essere considerata un oggetto costituito da più parti (Ash, 1998).
Fu Wilhelm Dilthey ad utilizzare inizialmente la parola Gestalt per indicare il concetto di individuo in senso di “intero psicofisico” formato altresì da aspetti culturali e sociali.
Edmund Husserl invece pose l’accento sul fatto che l’oggetto, per come ci appare, è diverso dall’insieme delle sensazioni che ci procura e quindi lo si deve accettare per come appare nell’intuizione piuttosto che ritenere che si tratti in realtà di qualcos’altro.
Anzi, l’oggetto può mostrare vari aspetti di sé in funzione degli interessi dell’osservatore e arrivò, più tardi, a sostenere che le singole sensazioni che vengono stimolate da un oggetto assumono alla nostra coscienza una forma unica, cioè una forma dell’esperienza, una Gestalt.
Altro fondamento è dato dal concetto di “qualità Gestalt” di Christian von Ehrenfels che intuì che una data forma può essere vista come simile ad altre anche se non ha nulla in comune con la prima: esempio utile è quello della comparazione tra due melodie che ci possono sembrare uguali pur non avendo neanche una nota in comune. Ehrenfels comprese che l’ideazione aggiunge qualcosa alla sensazione e che determina la qualità Gestalt; estensione di questa idea è l’intuizione circa la forza della fantasia sulla percezione e sulla coscienza.
Dal punto di vista filosofico quanto riportato circa il pensiero di Husserl si inserisce nel più ampio panorama del pensiero fenomenologico esistenziale19, anzi per usare le parole di Ginger “la fenomenologia è fondamentalmente un metodo di pensiero, mentre l’esistenzialismo è una filosofia” (Ginger, 1987, p. 38).
La costituzione della psicologia della Gestalt o teoria della Gestalt è legata a Max Wertheimer, Kurt Koffka e Wolfgang Koehler.
Wertheimer introdusse le basi teoriche e le collegò alla ricerca sperimentale, partendo dagli esperimenti sulla percezione del movimento. In seguito Koehler e Koffka svilupparono le teorie di Wertheimer e le applicarono alla percezione e al comportamento umano. Le loro ricerche si sono soffermate anche sui temi della memoria, dell’intelligenza e della personalità.
Alcuni principi di base sono: l’impossibilità di scindere tra mente e corpo e tra l’oggetto e le sue caratteristiche intrinseche; l’importanza della forma “Gestalt” come qualità fondante l’esperienza percettiva; l’alternanza figura-sfondo nell’esperienza percettiva;
la necessità di “chiusura”; l’impossibilità di separare la figura dallo sfondo;
l’importanza della relazione fra le parti per determinare le caratteristiche del tutto;
l’importanza delle forme pregnanti, o buone forme, nella regolazione del rapporto fra organismo e ambiente.
Le leggi della percezione hanno fortemente incrinato la fiducia nell’oggettività scientifica e così facendo hanno cambiato completamente il modo di intendere il rapporto fra l’individuo e l’ambiente e di conseguenza hanno stimolato profondi cambiamenti nei modelli applicativi della psicologia (Ginger, 1987).
Potremmo quindi ritenere che si tratti di un nuovo “paradigma di conoscenza”.
La Gestalt Therapy trae ispirazione dal pensiero gestaltico e trova il suo contesto elettivo di applicazione nei setting di gruppo, si inserisce nel panorama della Psicologia Umanistica, detta anche “terza forza” in quanto si contrapponeva alla Psicoanalisi e alla Psicologia Cognitivo Comportamentale.
Friedrich Salomon Perls utilizzò molti dei principi enunciati dalla Psicologia della Gestalt con la volontà di creare un modello d’intervento che valorizzasse la specificità
19 Altri importanti autori concorrono a fondare le basi culturali del pensiero gestaltico: K. Jaspers, M.
Heidegger, J.P. Sartre.
dell’individuo nel suo qui e ora; l’obiettivo era quello di fornire ai suoi pazienti strumenti che consentissero di rapportarsi con l’ambiente in modo costruttivo. “Il grosso della pratica gestaltica derivata dalla Teoria della Gestalt si basa sull’esplorazione del modo in cui i bisogni umani mergono, vengono frustrati e vengono soddisfatti”
(Clarkson, 1989, p. 20).
Una teoria che ha influenzato in modo significativo l’approccio di Perls è la teoria del Campo di Kurt Lewin. Lewin sostiene che non si può osservare una persona al di fuori del suo ambiente, detto “campo”; l’interrelazione della persona con il suo ambiente è uno degli principi dell’approccio gestaltico, così come l’idea che il comportamento sia determinato dal presente psicologico, il qui e ora della persona. L’inconscio è ciò che non è in figura al momento. L’individuo può essere compreso solo all’interno del sistema di cui costituisce una parte significativa. Questo significa anche che l’operatore fa parte di questo campo di interazione e che la neutralità o la cosi detta oggettività non sono possibili.
Petruska Clarkson paragona l’approccio della Gestalt ad un albero: “le radici sono nella psicoanalisi e nell’analisi del carattere, il suo tronco è nella fenomenologia e l’esistenzialismo ed i suoi rami si allargano verso la filosofia orientale e verso la conoscenza transpersonale. L’albero è situato nel paesaggio dell’olismo e della teoria del campo, ai quali è inestricabilmente unito.” (Clarkson, 1989, p. 32).
Dalla grande capacità di integrazione di Perls è nato uno strumento di lettura/interpretazione dell’esperienza, uno schema ideale che individua le diverse fasi e le diverse funzioni dell’organismo, in senso olistico, che entrano in relazione con l’ambiente. Si tratta del ciclo di formazione e distruzione della Gestalt che viene chiamato anche ciclo della consapevolezza, ciclo del contatto-ritiro e viene utilizzato dai terapeuti ad orientamento gestaltico per comprendere come dovrebbe svilupparsi un comportamento sano. Il ciclo della Gestalt rappresenta il cosi detto “flusso organismico” che nella vita psicologica della persona consiste nell’emergere del bisogno e nella sua distruzione dopo la soddisfazione (Clarkson, 1989).
Pensando all’atto del narrare come ad un’esperienza che coinvolge l’individuo attivamente ci si rende conto del fatto che anche questo processo consiste in diverse fasi che si susseguono l’una dopo l’altra chiamando in causa funzioni diverse del Sé.
Nella descrizione che segue proponiamo il ciclo dell’esperienza in sette stadi formulato dalla Clarkson. Il modello utilizzato dall’autrice “[…] è una derivazione basata su un’integrazione dello schema di Zinker e di quello originale di Goodman” (Clarkson, 1989, p. 49)20. Per completezza, indichiamo tra parentesi anche le funzioni del Sé così come descritte nel modello della Gestalt Therapy21:
- sensazione (precontatto, funzione Es): percezione corporea di una sensazione emergente. È la fase in cui l’organismo inizia a prendere in considerazione un’informazione grezza, di tipo propriocettivo, prima che tale informazione prenda una sua forma definita, distinta, significativa. È sentire che c’è “qualcosa”;
- consapevolezza (precontatto, funzione Es): definizione del bisogno collegato alla sensazione. È il momento di costruzione-di-significato che crea forme nuove (Gestalten), nuove intuizioni. È comprendere il significato di quel “qualcosa”;
- mobilizzazione (avvio di contatto, funzione Io): verifica delle risorse disponibili. È la fase di risveglio emozionale e/o fisiologico, quando l’organismo si attiva con energia e
20 L’autrice fa riferimento a: F. Perls, R.F. Hefferline, P. Goodman, Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana (1951).
21Nell’ottica gestaltista il Sé non è un'entità fissa né un'istanza psichica bensì un processo specifico: non è l'essere, ma l'essere al mondo. Il luogo in cui questo processo si manifesta è il confine del contatto, cioè il confine tra l'individuo e il mondo. Per confine non si intende “separazione tra”, ma luogo in cui avviene l'esperienza. È in questo punto che l'organismo e l'ambiente si incontrano, si separano, si riuniscono, è qui che avviene il processo di scambio, ed è attraverso il confine che l'organismo può stabilire un particolare tipo di rapporto con l'ambiente che è prima di tutto un rapporto di crescita.
Il Sé si esprime attraverso tre funzioni fondamentali. Esse posseggono la finalità di identificare se stessi e sono intese come capacità della persona di relazionarsi con il mondo, al fine di poter arrivare ad un adattamento creativo e soddisfacente con esso. Di seguito, le descriviamo brevemente:
- la funzione Es è la percezione sensoriale e corporea delle stimolazioni interne ed esterne. Informa il sé di ciò di cui l'organismo ha più immediatamente bisogno (“Che cosa sento ora?”), riguarda lo sfondo da cui l'esigenza emerge, in essa rientrano perciò i vissuti corporei, l'ambiente percepito ancora indistintamente, le situazioni passate irrisolte, i sentimenti ancora vaghi, tutto quello che consente all'organismo di dirigere il contatto prossimo verso l'ambiente;
- la funzione Io è costituita dalla definizione dei bisogni e dalla propria identificazione con essi. Riguarda quindi i processi di identificazione e alienazione (“Cosa voglio e cosa non voglio?”), ed è da intendersi come un potere decisionale e volontario, un agire attivamente ed intenzionalmente affinché in un momento specifico l'organismo possa scegliere nel contatto con l'ambiente ciò che è buono e “nutriente”
(“Come posso arrivare a ciò che voglio, attraverso quali mezzi, ecc.”), oppure rifiutare ciò che è indesiderato, spiacevole o “tossico”. È questa funzione che identifica l'azione e dà alla persona il senso di essere attiva e di realizzare una compiutezza intenzionale;
- la funzione Personalità è costituita dalla definizione della propria storia in divenire. Informa il sé su chi é, su cosa è diventato e contemporaneamente su cosa non è (“Chi sono io?”; “Cosa sono diventato?”), concerne le esperienze dell'identità personale, quelle appena vissute e quelle passate, la storia assimilata, i ruoli, la percezione di sé come personalità complessa e articolata. La funzione io collega la funzione Es con la funzione Personalità: il risultato sarà un comportamento autoregolativo soddisfacente per l'organismo. In caso contrario, si parlerà di resistenze come interruzioni del contatto.
inizia a generare un immaginario riguardo al quel “qualcosa” che è possibile iniziare a definire come un bisogno. È sentire l’energia-per andare-verso;
- azione (avvio di contatto, funzione Io): scelta e organizzazione dell’azione. È la fase in cui si intraprende un’azione appropriata in direzione della soddisfazione del bisogno. È quindi necessario organizzare l’attività, scegliendo le risorse opportune e considerando anche le difficoltà. È iniziare l’azione, organizzarla, renderla attuabile;
- contatto finale (contatto pieno, funzione Io): azione per la soddisfazione del bisogno. È la qualità piena e vibrante dell’esperienza, un contatto emozionale e fisiologico profondo che coinvolge e nel quale ci si può piacevolmente abbandonare. “Avviene al confine tra il sé e l’ambiente, ed è il nostro rapporto più profondo con il nostro mondo”, (Clarkson, 1989, p. 55). È l’esperienza nuova, il sentirsi “interi”. Il contatto è la fonte delle nostre gioie più vivide e dei momenti più intensamente dolorosi. E paradossalmente apre le porte al cambiamento, facilita la ripresa verso nuove esperienze;
- soddisfazione (postcontatto, funzione Personalità): gratificazione e integrazione dei vissuti. È la fase in cui l’organismo sperimenta il piacevole, pieno compimento di quel
“qualcosa” iniziale e in cui prevale la sensazione che non ci sia bisogno d’altro.
- ritiro (postcontatto, funzione Personalità): disponibilità per altre esperienze. È la fase del riposo, in cui si sperimenta una posizione di equilibrio e allo stesso tempo è piena di potenziali sviluppi. Non c’è “troppo” e non c’è “poco”, l’organismo è quieto e disponibile a ciò che avverrà.
Riteniamo che questo processo organismico sia riconducibile anche all’esperienza del narrare, perché coinvolge l’individuo nella propria dimensione corporea, emotiva, cognitiva e partecipa al più ampio processo di sviluppo/cambiamento della persona.
Andrea Smorti ha condotto una ricerca che dimostra che la narrazione autobiografica modifica il ricordo. Quando un avvenimento complesso viene organizzato in formato di storia, man mano che la storia viene raccontata gli eventi vengono revisionati in modo coerente integrando pensieri e stati d’animo; la storia acquisisce un significato più definito e le dimensioni emotive diventano più gestibili dalla persona.
Nella ricerca condotta da Smorti e collaboratori con pazienti psichiatrici a cui veniva richiesto di raccontare la propria storia di vita, le narrazioni successive alla prima, mettevano in evidenza un altro punto di vista, maggiore consapevolezza ed una maggiore definizione delle caratteristiche del protagonista (Smorti, 2018).
La narrazione quindi contribuisce fortemente al processo di elaborazione dell’esperienza che si evidenzia nelle fasi di contatto finale e di soddisfazione descritte da Clarkson. È ciò che in termini operativi i gestaltisti chiamano “chiusura della Gestalt”. L’esperienza è stata masticata, digerita e può entrare a far parte del bagaglio personale che è parte del Sé della persona. “Il post contatto è una fase di assimilazione che favorisce la crescita. In essa io digerisco la mia esperienza. Il Sé funziona secondo la modalità personalità, integrando l’esperienza nel bagaglio della persona, ricollocando il qui e ora nella dimensione storica propria a ciascuno. Perde poco a poco la sua acutezza; la coscienza diminuisce progressivamente e il soggetto si ritrova disponibile per un’altra azione; la Gestalt è chiusa, un ciclo è compiuto. Si è tornati al momento cerniera dello stato zero, al “vuoto fertile dell’indifferenza creativa” da cui potrà emergere una nuova esperienza” (Ginger, 1987, p. 141).
Anche il processo figura sfondo è rintracciabile nel processo narrativo. Smorti sostiene che quando ci accingiamo a raccontare non sappiamo mai esattamente cosa stiamo per dire; quello che accade è che il racconto prende forma mentre avviene. Naturalmente sarà necessario fare continui salti dalla memoria alla narrazione e non ci basterà la memoria episodica o quella semantica, perché i ricordi non si danno in una forma linguistica pronta per essere usata, ma saranno in forma di immagini sfumate, sensazioni magari fastidiose, schemi di azioni eseguite ecc.
Per spiegare come la forma di quello che intendiamo dire emerge dallo sfondo del pensiero, Smorti si riferisce a Lev Semënovič Vygotskij:
“Il pensiero rappresenta sempre un tutto assai più grande in estensione e volume della parola narrata. Un oratore spesso sviluppa un solo pensiero per parecchi minuti. Questo pensiero è come un tutto nella sua mente e non compare affatto progressivamente in unità separate come si sviluppa nel linguaggio. Ciò che nel pensiero esiste simultaneamente, nel linguaggio si sviluppa successivamente. Il pensiero potrebbe essere paragonato a una nuvola incombente che rovescia una pioggia di parole. Perciò il processo di passaggio dal pensiero al linguaggio è un processo estremamente complesso di decomposizione del pensiero e della sua ricostituzione in parole. Proprio perché il pensiero non coincide solo con le parole ma anche
con i significati delle parole in cui esso si esprime, la via del pensiero alla parola passa attraverso il significato.” (Smorti, 2018, p. 73).
L’aspetto per noi interessante è che il pensiero, attraverso la condivisione, viene elaborato, assume una forma attraverso la trasformazione simbolica prodotta dal linguaggio. È un po' come dire che dallo sfondo emerge una figura, una forma maggiormente definita grazie anche alla presenza dell’altro che ascolta.
L’approccio della Gestalt ci indica che nel processo del qui e ora della narrazione l’individuo mette a fuoco il proprio bisogno emergente soprattutto se c’è spazio per quella parte dell’esperienza connessa con la dimensione percettiva ed emotiva che in questo approccio è fortemente valorizzata.
Possiamo sostenere che il processo narrativo, letto in termini di “esperienza unitaria” è così centrale nell’esperienza della persona da costituirne proprio una rappresentazione del Sé, come infatti viene descritta nell’approccio della Gestalt.