3. Ulteriori osservazioni
3.3 Narrazione e immaginario
Intendiamo ora affrontare il tema dell’immaginario e delle immagini che costituiscono la materia prima dalla quale la narrazione prende forma. Ciò che il linguaggio esprime attraverso un complesso processo di simbolizzazione, esiste nella mente in forma di immagini: nell’atto del narrare la memoria recupera per lo più immagini e il linguaggio ne simbolizza il contenuto rendendolo comunicabile.
James Hillman spiega molto bene il rapporto tra memoria, immagini e storia narrata e sostiene che la scoperta di Freud, e cioè che le storie che gli venivano narrate erano accadimenti psicologici sotto forma di storia e non fatti realmente accaduti, ha dato il via alla possibilità di considerare la realtà psichica come autonoma da altre dimensioni della realtà. Inoltre Freud avrebbe messo in evidenza che memoria e storia non sono esattamente sovrapponibili, perché esiste “una storia che non è ricordata” e “una memoria che non è storica” (Hillman, 1983 p. 52). Le dimenticanze, le distorsioni, le negazioni, le rimozioni, le confabulazioni, sono tutti fenomeni della mente che
cambiano la “realtà” dei fatti realmente accaduti creando immagini ed episodi che sono immaginati più che avvenuti realmente.
Memoria, Mnemosine in greco, è una divinità mitologica che ha il potere di ricordare e di nominare le cose in modo che gli umani possano parlare fra loro e, al tempo stesso, nel mondo classico, rappresentava il luogo dell’immaginazione, lo spazio dell’inconscio. Memoria veniva rappresentata, scrive Hillman, come una grande sala, una sorta di magazzino delle immagini create e ricordate; l’unica differenza tra ricordare e immaginare era data dal senso del tempo che veniva aggiunto alle immagini della memoria, o meglio un senso del passato come se quelle cose fossero realmente accadute. Dall’immagine ricordata, ma non accaduta, al mito il passo è breve perché non essendo trascorsi realmente, i fatti dei ricordi, possono esserci per sempre e diventare delle immagini “pre-storiche” cioè “archetipiche” (Hillman, 1983 p. 52).
La psicologia archetipica è sicuramente l’approccio che più di ogni altro da spazio alle immagini della mente “rendendo giustizia alla molteplicità delle coscienze multiple che circondano l’io” (Perilli & Perilli, 2003, p. 24). L’utilizzo dei sogni e l’immaginazione attiva, metodo proposto da Gustav Jung, consentono alle immagini di acquisire un loro spazio ed una loro coscienza indipendente dall’Io, come una dimensione altra rispetto a quella controllata dall’io della veglia e della consapevolezza.
Queste immagini hanno già coscienza in sé proprio nel mito. Spesso, nei sogni, le immagini si ripresentano più e più volte, ed è nella loro caratteristica di costanza che possiamo rintracciare una forma di “coscienza”. Quello che dovremmo fare è dare più spazio ad esse per poter accedere alla loro significatività e dare possibilità alla psiche di esprimersi pienamente (Perilli & Perilli, 2003, p. 24).
Gustav Jung è stato il primo psicologo a valorizzare la dimensione immaginativa ed ha definito il suo metodo clinico immaginazione attiva. Attraverso la narrazione Jung da spazio ad ogni immagine presente in un sogno o in una fantasia, come se si trattasse di veri e propri personaggi. L’obiettivo è quello di dare concretezza alla fantasia così che l’io diventi un personaggio fra i tanti e non l’attore principale o unico (Perilli & Perilli, 2003, p. 58). Il presupposto alla base di questo metodo è la convinzione che “curare”
vuol dire prima di tutto conoscere i vari personaggi che animano la psiche, i dèmoni che abitano dentro di noi. Il famoso monito “conosci te stesso” del tempio di Apollo a Delfi
viene inteso da Jung come esortazione a scoprire e a conoscere i nostri dèmoni interni al fine di attivare un autentico processo di cura (Perilli &Perilli, 2003).
Hillman ribadisce che “le figure che Jung incontrò per prime e che lo convinsero della realtà della loro essenza psichica, estendendo a lui relazioni personali con i poteri della psiche, queste figure derivano dal mondo ellenistico e dalla sua fede nei dèmoni.
(Daimon è l’espressione greca originaria per queste figure, che in seguito divennero demòni, a causa della visione cristiana, e dèmoni in contraddizione positiva con tale visione.)” (Hillman, 1983, p. 69).
Hillman ci fa riflettere sul coraggio necessario per fare spazio ai nostri dèmoni ed ascoltarli, perché si tratta di altre persone che vivono in una regione intermedia della realtà psichica dove la realtà dei fatti e la finzione si confondono.
Per la Chiesa i dèmoni fanno parte del mondo di satana e della tentazione, ma se guardiamo al mondo classico e al rinascimento queste figure emergono come appartenenti ad un mondo intermedio, né dei trascendenti, né esseri umani. Ce ne sono di diversi tipi, benèfici, terrificanti, voci guida, mediatori, messaggeri. La cultura religiosa in senso cristiano e cattolico ha bandito queste figure perché appartenenti al paganesimo e la scienza clinica di pari passo, ha assegnato queste dimensioni alla malattia psichiatrica.
In questo senso Jung ha preso posizione contro queste ortodossìe e ha ridato spazio a queste figure immaginarie. La natura di questa dimensione ha a che fare con la poesia, il teatro, la letteratura. Ciò che impariamo da Jung, sostiene Hillman, è che questa immaginazione si svolge al centro di noi stessi e che la nostra vita nell’anima è una vita nell’immaginazione. Per avere un contatto con queste figure Jung usa il “come se” nel senso di realtà metaforica da esplorare e conoscere.
Questa dimensione del mito può essere vissuta in forma narrativa ed in questo senso assume grande importanza la narrazione. E’ proprio Hillman che teorizza il collegamento fra la dimensione immaginativa della psiche e l’arte, in particolare l’arte del racconto.
È interessante la riflessione che Hillman fa rispetto a Freud: “Perché Freud si impelagò in questo groviglio medico e letterario, quando stava cercando di scrivere resoconti di casi patologici? Non stava forse scontrandosi con una forma letteraria di cui mancavano modelli preesistenti? La sua mente oscillava tra le due grandi tradizioni, quella scientifica e quella umanistica. […] La sua psicoanalisi non avrebbe potuto fare altri
passi avanti nel mondo della medicina se non avesse trovato una forma adeguata di
“raccontare”, una forma che avesse, se non la sostanza, almeno la persuasività dell’empirismo medico. Freud mescolò le due cose perché era impegnato contemporaneamente in entrambe, la narrativa e il “caso clinico” che sono rimasti inseparabili, d’allora in poi, nella storia della nostra materia; le nostre storie cliniche sono un modo di fare narrativa.” (Hillman, 1983, p. 4).
Freud esprime la sua genialità anche perché crea un genere letterario nuovo, il genere dei casi clinici o come diciamo oggi della resocontazione del caso; lo fa con l’obiettivo di mantenere la scientificità della sua narrazione e contemporaneamente destare l’interesse del lettore: ”il materiale manifesto era medico, ma l’intenzione latente, che esigeva la repressione trasfigurativa della metodologia medica ed empirica, era quella dell’arte poetica” (Hillman, 1983, p. 7). Durante la lettura dei casi di Freud ci identifichiamo con i protagonisti ma non con le loro soggettività e disordini. Freud ci parla del materiale psichico dei suoi pazienti facendo emergere le dimensioni psicodinamiche, spostando l’attenzione del lettore verso l’analisi del personaggio.
L’obiettivo di Freud sembra essere quello di far emergere la trama in quanto possibile espressione della coerenza interna del racconto e quindi forma attraverso la quale comprendere il perché dell’accaduto. “Dirci il perché è lo scopo principale che Freud si prefigge nei suoi casi clinici; tutta la sua abilità narrativa si concentra in funzione della trama. E infatti Freud ideò una trama adatta a tutte le sue storie; una trama abbastanza semplice in sé, ma che richiede complicazione, fantasia e, in particolare, mistificazione”
(Hillman, 1983, p.10).
Freud sosteneva che era inutile redigere verbali circostanziati di una storia clinica e sottolineava invece la necessità di elaborare e spiegare il materiale clinico. Il suo metodo si distingue da quello psichiatrico, che classifica senza spiegare, proprio perché grazie alla relazione analitica la storia incompleta e disordinata si trasforma in un racconto con una sua struttura interna. (Perilli & Perilli, 2003, p. 56).
Hillman imputa a Freud che la sua trama non soddisfa e critica il grande maestro non perché le sue teorie non sono verificabili, quanto perché la sua trama non regge poeticamente, cioè non gli sembra abbastanza profonda. L’unica trama che regge poeticamente, secondo Hillman è quella che fa riferimento al mito, come nel caso di Edipo. Hillman sostiene che sia Freud che Jung comprendendo le storie dell’uomo in forma di miti “si volsero dalla natura umana alla natura delle forze religiose” (Hillman,
1983, p. 13). Ma se Freud si preoccupava di rendere il suo metodo scientifico e verificabile, Jung era in una posizione completamente diversa, tanto da sostenere che
“La psicologia deve abolirsi come scienza, e proprio abolendosi raggiunge il suo scopo scientifico. Ogni altra scienza ha un ‘al di fuori’ di sé stessa; ma non la psicologia, il cui oggetto è il soggetto” (Perilli & Perilli, 2003, p. 57). Infatti Jung accusa Freud di usare un metodo troppo semplicistico nello sviluppo della trama che risulta così sovrapposto allo sviluppo della storia. Per Jung è molto più importante la singolarità del personaggio e il suo processo di individuazione (Hillman, 1983).
Per Jung la psiche è costituita fondamentalmente da immagini e descrivere i processi psichici significa narrare immagini. “Sia mediante l’espressione scritta, sia con matite e pennelli, sia con la creta da modellare” si può dare forma alle immagini (Perilli &
Perilli, 2003, p. 57).
La narrazione nell’approccio di Jung è in funzione della drammatizzazione del mondo psichico; lo scopo della psicologia consiste, dal suo punto di vista, proprio nella drammatizzazione delle immagini attraverso la narrazione.
La vera rivoluzione di Jung consiste proprio nel porre l’autonomia dell’immaginazione come fondamento per una autonomia della psicologia dalle altre discipline, specialmente nei riguardi della scienza (Perilli & Perilli, 2003, p. 9).
Nella visione della psicologia di Jung l’energia psichica tramite la fantasia, da forma alle immagini che quindi sono la dimensione privilegiata per esplorare il mondo psichico: "La psiche crea giorno per giorno la realtà. A questa attività non so dare altro nome che quello di fantasia. La fantasia è a un tempo sentimento e pensiero, è intuizione e sensazione. …Essa è anzitutto l'attività creatrice dalla quale sgorgano le risposte alle domande per le quali esiste una risposta: essa è la madre di tutte le possibilità; in essa il mondo interiore e il mondo esteriore vivono congiunti al pari di tutte le antitesi psichiche. È sempre stata la fantasia ed è sempre la fantasia a gettare un ponte fra le inconciliabili esigenze dell'oggetto e del soggetto, fra estroversione e introversione. Solo nella fantasia i due meccanismi sono collegati" (Perilli & Perilli, 2003, p. 10).
É importante sottolineare che Jung non intende le immagini quali rappresentazioni del mondo esterno, ma una forma del linguaggio poetico di cui è fatta la psiche. Si rifà ai concetti darwiniani di selezione della specie per sostenere che se l’inconscio sopravvive quale contenitore di ciò che la coscienza ha selezionato, allora vuol dire che le immagini
servono per mantenere un equilibrio per la vita psichica ed un eventuale conflitto tra conscio ed inconscio serve ad equilibrare il peso delle differenti forze psichiche.
Oggi Hillman è sicuramente lo psicologo che ha saputo interpretare al meglio la visione psicologica di Jung e “ha fatto della psicologia un inno all’arte tramite le storie che curano attraverso le immagini del sogno e del racconto, oltre che della danza e della pittura” (Perilli & Perilli, 2003, p. 52). Raccontare le proprie storie, come si fa in psicoterapia ha una funzione catartica. Anche per Hillman la mente si fonda sul fare fantasia che si esprime in forma narrativa; fare narrazione vuol dire fare spazio alla dimensione poetica della mente e in questo modo si può dare attenzione sia alla dimensione terapeutica che a quella estetica (Hillman, 1983).
A partire dalla teoria e dal metodo di Jung, Hillman propone un modello terapeutico in cui paziente e terapeuta parlano con le immagini psichiche del paziente, chiedendo ad esse quale sia la loro richiesta, cioè “che cosa vogliono?”.
L’intento non è quello di interpretare ma quello di dare spazio e voce alle rappresentazioni interne. La terapia cura con le parole, ed è in questo senso che le storie curano.
Altro aspetto significativo nella visione di Hillman è quello relativo alla veridicità delle storie. Il racconto analitico non deve essere necessariamente vero, perché il suo obiettivo non è quello di verificare se le cose narrate siano avvenute realmente. Non sono gli eventi avvenuti che interessano il terapeuta, bensì le immagini sugli eventi.
Terapeuta e paziente contribuiscono a realizzare una narrazione che rispetti l’organizzazione interna delle immagini prodotte dalla fantasia del paziente (Perilli &
Perilli, 2003, p. 56).
Hillman mette l’accento sul fatto che la coppia terapeuta-paziente revisionano, attraverso la terapia, la vecchia storia del paziente e ipotizza che le difficoltà chiamate resistenze non siano altro che la rappresentazione del tentativo del paziente di mantenere la vecchia versione della storia. In quest’ottica il controtransfert altro non è se non l’indulgenza che il terapeuta assume verso di sé. “Una terapia riuscita è quindi una collaborazione fra narrazioni, una revisione della storia in una trama più intelligente, più immaginativa, che implichi altresì il senso del mythos in ogni parte della storia. Sfortunatamente – dice Hillman - noi terapeuti siamo troppo poco
consapevoli di essere dei cantori, e trascuriamo molto di quanto potremmo fare”
(Hillman, 1983, p. 21).
Nella visione della psicologia archetipica la malattia non è altro che malattia dell’immaginazione, “l’anima per sua natura patologizza, nel senso che appartiene all’autonoma capacità della psiche creare malattia, stati morbosi, disordine, anormalità e sofferenza” (Perilli & Perilli, 2003, p. 18). La terapia in quest’ottica è ridare vita all’immaginazione e riattivare il processo riflessivo attraverso il sogno, l’immagine, le metafore, insomma dando spazio alla fantasia (Perilli & Perilli, 2003).