3. Ulteriori osservazioni
3.1 Narrazione e mentalizzazione
Narrazione e mentalizzazione sono parti/fasi del più ampio processo di rappresentazione della realtà che l’essere umano sviluppa attraverso il linguaggio.
Per mentalizzazione si intende un processo emotivo prevalentemente inconscio, rapido e intuitivo, che interviene in ogni situazione sociale in cui siamo coinvolti. È una sorta di procedura che ci consente di ottenere informazioni rispetto agli atteggiamenti e ai comportamenti propri e altrui, sia attraverso le emozioni che proviamo in relazione agli altri, sia attraverso le impressioni che riceviamo dalle espressioni emotive degli altri.
“In sintesi la qualità dell’esperienza emotiva in una determinata circostanza ci porta a costruire le nostre convinzioni e ad agire coerentemente con queste” (Bateman, Fonagy
& Allen, 2009, p.851).
Questa funzione viene associata all’attivazione delle aree prefrontali mediali del cervello, forse l’area paracingolata, ma si ipotizza che interessi diversi sistemi corticali.
Il concetto di mentalizzazione è molto vicino all’idea, già espressa da Bruner, secondo cui l’essere umano attribuisce il significato emotivo alle cose della vita attraverso il linguaggio che è quindi strumento di simbolizzazione. Bateman e Fonagy ne parlano in termini di capacità di giocare con la realtà e di rapportarsi ad essa come ad una rappresentazione: le ipotesi di significato nascono all’interno della costruzione narrativa (Bateman & Fonagy, 2006). La mentalizzazione è un costrutto sociale che si collega al concetto di Teoria della Mente, in quanto frutto della relazione. La capacità di comprendere il comportamento degli altri considerando i loro pensieri e sentimenti
viene considerata una conquista evolutiva di tipo biologico; Bateman, Fonagy, e Allen, lo hanno descritto come il “miglior concetto teorico per descrivere il processo mentale che ci rende umani” (Bateman, Fonagy & Allen, 2009, p. 856).
I bambini riescono a comprendere gli stati emotivi prima ancora di acquisire il linguaggio e le conoscenze rispetto al mondo in cui vivono. Come sosteneva Bruner, i bambini sono dotati di rappresentazioni protolinguistiche ma l’atteggiamento mentalizzante, cioè concepire se stessi e gli altri come aventi una mente, richiede un vero e proprio sistema rappresentazionale per gli stati mentali che si sviluppa all’interno di una relazione d’intimità con la figura di accudimento. La capacità di mentalizzare, infatti, è stata messa in relazione alla qualità dell’attaccamento tra il bambino ed il suo caregiver. Bateman e Fonagy spiegano che la comprensione degli altri dipende dal fatto che gli stati mentali siano stati adeguatamente compresi da figure adulte amorevoli, accudenti e in grado di rispecchiare il proprio vissuto.
Altro aspetto che concorre all’acquisizione della capacità di mentalizzare è l’utilizzo, da parte del caregiver, di un linguaggio che specifica gli stati mentali durante gli scambi conversazionali con il bambino. Essersi sentito oggetto della mentalizzazione di qualcuno aiuta ad apprendere implicitamente a mentalizzare (Bateman & Fonagy, 2006).
Bateman e Fonagy con il loro gruppo di studio hanno approfondito il costrutto della mentalizzazione in relazione al trattamento del disturbo di personalità borderline (di seguito DBP) ed hanno proposto un protocollo specifico.
Dalle loro osservazioni emerge che le persone con una diagnosi di DBP traggono giovamento da un intervento focalizzato sulla mentalizzazione. Sembra che queste persone siano in genere capaci di una mentalizzazione normale, tranne che nel contesto delle relazioni d’attaccamento. Se si trovano in un particolare stato di attivazione emozionale, all’interno di una relazione significativa, l’intensità degli scambi può produrre un repentino decadimento della loro capacità di pensare gli stati mentali dell’altro. Questo fa emergere delle modalità prementali di organizzazione dell’esperienza soggettiva e la persona perde la coesione dell’esperienza di sé che normalmente viene generata dalla trama narrativa di una normale mentalizzazione. È noto infatti che la qualità dell’attaccamento viene compromessa nelle persone con DBP.
Gli autori sostengono che quando le relazioni di attaccamento sono state traumatizzanti
la capacità di mentalizzare cede il passo all’equivalenza psichica, il cosiddetto pensiero concreto, e la persona non pensa più in termini di “come se”, ma tutto diviene “come vero” (Bateman & Fonagy, 2006).
Un rispecchiamento incongruo nelle prime fasi di vita, costringe il bambino a internalizzare rappresentazioni dello stato dei genitori, invece che una versione fruibile della propria esperienza soggettiva e si ipotizza che questo generi un’esperienza aliena all’interno del Sé.
Gli autori ipotizzano che un parziale fallimento di questo processo avvenga in ogni relazione bambino-caregiver e che sia proprio la capacità di mentalizzare a favorire successivamente una narrazione coerente che agevola l’integrazione di queste parti.
“Smussiamo le discontinuità costruendo una narrazione intenzionale (immaginando di aver sempre voluto fare una certa cosa perché l’avevamo sentita/pensata/desiderata, etc.)” (Bateman & Fonagy, 2006, p. 18).
Da questa ipotesi teorica sembra dunque che la narrazione di sé emerga dalla funzione di mentalizzazione e che questo processo sia fondamentale per ottenere una percezione coerente del proprio Sé18.
La mentalizzazione ha anche funzione di regolatore delle nostre emozioni consentendoci di contestualizzarle: “[…] per esempio, la gratificazione di un particolare desiderio porterà a una certa risposta emotiva che, attraverso la narrazione prodotta
18 Il riferimento è alla psicologia del Sé. A partire dallo studio dei pazienti con disturbo di personalità narcisistica Kohut abbandonò l’approccio classico della psicoanalisi e propose un orientamento che chiamò psicologica del Sé. Si contrappose alla teoria freudiana della “relazione inversa tra amore per il Sé e amore per gli altri” (Mitchell & Black, 1995, p.182) e si focalizzò sull’idea che i sentimenti positivi verso se stessi contribuiscano a rendere più vive anche le relazioni. Definì il suo approccio “immersione empatica o introspezione vicariante” che consisteva nel calarsi dei panni dei suoi pazienti e di capire la loro esperienza dal loro punto di vista. A partire dai principi della psicologia dell’Io Kohut mise l’accento sui problemi del primo sviluppo anziché sulle questioni conflittuali e comprese che i problemi erano connessi con la considerazione di sé, con il sentimento di sé, e quindi con l’organizzazione del Sé.
Riteneva che un Sé solido ed elastico si costituisca attraverso un processo che definì “interiorizzazione transumante”. Le immagini grandiose di Sé e delle sue figure di riferimento, tipiche delle prime fasi dello sviluppo, si ridimensionano attraverso il confronto con la realtà che produce frustrazioni ottimali se avvengono in un ambiente di sostegno. A partire da questa base sicura il bambino tollera la frustrazione e la delusione e riesce ad interiorizzare aspetti funzionali dell’oggetto-Sé.
dalla mentalizzazione, si assocerà alla credenza o al desiderio originale, formando una metarappresentazione. Solo allora, all’esperienza emotiva verranno accordati un significato e un contesto.
I problemi nascono quando la mentalizzazione fallisce e le emozioni non possono essere comprese, apparendo come imprevedibili e decontestualizzate. In queste circostanze, si è presi dall’angoscia e non si sa spiegare perché ci si senta tanto sopraffatti dalle emozioni.” (Bateman, Fonagy & Allen, 2009, p. 839).
Bateman e Fonagy proprongono un intervento terapeutico centrato sul processo relazionale. L’obiettivo è quello di consentire al paziente di prendere in considerazione punti di vista alternativi e per ottenere questo il terapeuta propone di dare un senso ai loro scambi comunicativi.
Un modo per farlo è agevolare l’interpretazione del transfert; per esempio l’esperienza del terapeuta come persecutorio o esigente è solo una delle tante percezioni possibili.
Un altro modo è quello di rivelare al paziente, con attenzione, ciò che il terapeuta prova, in modo da fargli comprendere l’effetto che egli può produrre negli altri.
Questo processo rappresenta il primo passo nella mentalizzazione del controtransfert, nella quale il terapeuta accetta la propria esperienza interiore come personale e non cerca sin dall’inizio di interpretare il controtransfert come rappresentazione dell’esperienza interna del paziente.
È importante sottolineare che lo stesso sforzo immaginativo va fatto, in alcuni casi, anche per quanto riguarda se stessi e le proprie esperienze, specialmente in relazione ad eventi emotivamente significativi e a comportamenti derivati da spinte inconsce.
L’umorismo e la giocosità sono d’aiuto in questo senso, naturalmente solo nella misura in cui consentano di allontanarsi dalla realtà materiale quel tanto che basta per riuscire a manipolarla ma non tanto da perdere la corrispondenza tra mondo reale e rappresentazione mentale (Bateman & Fonagy, 2006).
L’intervento proposto dagli autori è quindi volto ad orientare il paziente su un’altra mente, quella del terapeuta e di assisterlo nel compito di confrontare la percezione di se stesso con quella che gli viene restituita dagli altri.
La struttura del nostro pensiero è di tipo narrativo e nel disagio psicologico il pensiero perde la sua caratteristica di specificazione emotiva diventando denso, ripetitivo, bloccato.
In pratica Batemam e Fonagy vedono nella maggior parte dei disturbi mentali una difficoltà della mente nel processo di comprendere se stessa: si tratterebbe quasi sempre di un deficit di mentalizzazione. Lavorare con le persone valorizzando il processo narrativo vuol dire quindi creare un contesto relazionale che dia l’opportunità di recuperare la dimensione riflessiva e ipotetica, mentalizzante appunto.
In relazione a quanto presentato nel precedente capitolo sui modelli narrativi, possiamo sostenere che ripercorrere gli eventi della vita utilizzando fantasia e creatività al fine di individuare nuovi livelli di significato esistenziale, come propone Demetrio con l’autobiografia, e individuare le rappresentazioni alternative di se stessi in funzione dei propri disagi psicologici, come proposto da White, sembrano proprio modalità di fronteggiamento mentalizzanti, nel senso e nelle modalità descritte da Bateman e Fonagy.