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La funzione clinica dell autonarrazione Modelli a confronto

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Academic year: 2022

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La funzione clinica dell’autonarrazione Modelli a confronto

Facoltà di Medicina e Psicologia

Dipartimento di scienze cliniche applicate e biotecnologiche

Corso di laurea magistrale in psicologia applicata, clinica e della salute

Candidata: Francesca Pronti matricola n. 229506

Relatore: Prof. Enrico Perilli

a.a. 2019/2020

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"Se la prossima generazione deve affrontare il futuro con gusto e fiducia in se stessa, dobbiamo educarla ad essere originale oltre che competente”

Mihály Csíkszentmihályi

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Indice

Premessa

pag. 4

Introduzione

pag. 5

1. Alcune definizioni

pag. 7

2. Modelli a confronto

2.1 Il pensiero narrativo di J. Bruner

pag. 10

2.2 Il metodo narrativo di M. White

pag. 16

2.3 L’autobiografia di D. Demetrio

pag. 22

3. Ulteriori osservazioni

3.1 Narrazione e mentalizzazione

pag. 29

3.2 Narrazione e Gestalt pag. 33

3.3 Narrazione e immaginario

pag. 41

4. Il resoconto clinico come processo narrativo

4.1Le funzioni del resoconto

pag. 49

4.2Il racconto di un’esperienza pag. 55

Note conclusive

pag. 64

Riferimenti bibliografici

pag. 67

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Premessa

L’idea di questo elaborato nasce dall’incontro tra l’esperienza professionale e gli stimoli ricevuti durante il corso di laurea. Da quindici anni mi occupo di formazione degli adulti all’interno di un’agenzia formativa1: sono responsabile dei processi di analisi del fabbisogno formativo, di erogazione, di coordinamento, svolgo docenze in aula ed inoltre attività di orientamento e supporto per i partecipanti. L’oggetto dei corsi erogati è costituito dalle competenze psico-sociali, dette anche soft skills: comunicazione efficace, assertività, mediazione e gestione del conflitto, leadership, ed inoltre, competenze di coordinamento di risorse umane. Alcuni discenti sono lavoratori di medie e grandi organizzazioni ma soprattutto sono operatori di cooperative sociali che offrono servizi alla persona, i cosiddetti professional helper 2, cioè coloro che svolgono attività sia nei contesti in cui l’aiuto è interpretato come supporto nel disagio, sia dove l’aiuto è visto come sostegno allo sviluppo. Persone quindi che non hanno una specifica formazione psicologica e che operano in ambito sociale (assistenti sociali, operatori di comunità, assistenti domiciliari, etc.) a contatto con le “culture a rischio”; in ambito educativo (insegnanti, insegnanti di sostegno, educatori, formatori, etc.) a contatto con le comunità di apprendimento3 per l’età evolutiva e degli adulti; in ambito sanitario (medici di medicina generale, dirigenti medici ospedalieri, operatori sanitari, infermieri, ausiliari, fisioterapisti, logopedisti, psicomotricisti, etc.) a contatto con il dolore, la malattia e la sofferenza così come vengono rappresentati nella nostra cultura4.

Le storie delle persone incontrate durante l’esperienza di questi anni mi hanno spinto ad approfondire in termini teorici e metodologici i modelli narrativi: mi propongo quindi di individuare alcuni elementi comuni a vari modi di intendere la narrazione.

1 Associazione COME, agenzia accreditata presso la Regione Umbria per l’erogazione della formazione professionale per le macrotipologie superiore e continua.

2 La dicitura anglosassone helper in luogo di “operatore della relazione d’aiuto” è, a nostro avviso, più rappresentativa della grande varietà dei profili e delle diverse formazioni degli stakeholder afferenti al comparto dell’aiuto professionale.

3 La comunità di apprendimento può essere intesa come la dimensione educativa all’interno del più ampio concetto di comunità di pratica (Zucchermaglio, 2008).

4 Il riferimento è ad una cultura permeata da paradigmi di tipo biomedico nella quale la “salute” viene considerata come alternativa alla “malattia” e non come un processo dinamico di acquisizione di competenze attraverso il quale costruire un equilibrato rapporto tra “benessere” e “malessere” (Bertini, 2012).

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Introduzione

Nel tempo, ho maturato la convinzione che il primo impegno in un’aula di formazione, sia quello di valorizzare l’esperienza pregressa di ogni persona ed ho osservato quanto la narrazione delle storie, professionali e non, costituisca l’elemento alla base del processo di apprendimento delle competenze e di trasformazione. Spesso al termine dei corsi i discenti esprimono un vissuto di cambiamento e in questi casi, seppure appena abbozzato, è facile osservare un processo di rinnovamento, particolarmente importante per l’adulto che si trova in fasi di transizioni di vita. Personalmente, ritengo l’avvio di tale processo come uno dei principali obiettivi della formazione.

Secondo D. Demetrio, la formazione è legata al concetto di conoscenza e competenza da veicolare prevalentemente attraverso stimoli cognitivi, mentre l’educazione è legata al processo di apprendimento che ha a che vedere con l’esperienza, quindi con il concetto di cambiamento (Demetrio, 1997). L’educazione, in quest’ottica, ha un ruolo privilegiato nei processi formativi degli adulti. L’educazione in età adulta ha a che fare con la rielaborazione delle esperienze di vita (Demetrio, 1997).

L’educazione efficace è quella in grado di generare “l’apprendimento significativo basato sull’esperienza e capace di destare gli interessi vitali del soggetto che apprende”.

(Rogers, 1969, p.8). Per poter integrare le nuove informazioni l’adulto ha bisogno di farne esperienza nel qui ed ora e di contestualizzarle rispetto al proprio mondo; ha bisogno cioè di ricostruire la propria storia confrontandosi con l’altro.

Nel comunicare, si attinge alla propria esperienza per comprendere quella dell’altro e attraverso l’associazione metaforica viene dato spazio ad altre possibili interpretazioni.

Attraverso la comunicazione gli schemi di significato inziale cambiamo e si creano nuovi schemi che ci predispongono a comportamenti alternativi. Si tratta quindi di strutturare un processo educativo più che formativo, dove la relazione fra i discenti e con il formatore sia il contenitore del cambiamento (Mezirow, 1991).

Nel contesto formativo dove opero, ogni persona viene invitata a parlare di sé, a raccontare la propria esperienza e in alcuni casi addirittura invitata in modo esplicito a

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ricostruire e narrare la propria storia di vita o professionale, come ad esempio nel modello di Bilancio delle Competenze5. L’intervento formativo basato su questi presupposti si può definire quindi un intervento “clinico” se pensiamo alla psicologia applicata come “scienza che consente di intervenire nella relazione tra individuo e contesto” (Carli & Paniccia, 2003) cioè un intervento che consenta alla persona di creare relazioni tra le varie dimensioni della propria esperienza per renderla pensabile in modo da trasformarle in opportunità di scelta.

Gli scopi del presente elaborato sono principalmente due.

Primo, individuare gli elementi fondamentali che rendono il processo narrativo un

“processo di cura” in senso di cambiamento e sviluppo per la persona.

Secondo, valorizzare la componente formativa della narrazione, di auto-osservazione, utile anche per il clinico stesso, attraverso una disamina dello strumento del resoconto.

Per questi scopi, verranno esaminati il pensiero e le proposte operative di alcuni autori, noti in letteratura per gli studi specifici sulle funzioni della narrazione e verranno presi in considerazione alcuni modelli teorici e di intervento che ne consentono una maggiore e più fruibile comprensione.

5 IL BDC è un metodo di career counseling che nasce in Canada e si sviluppa intorno alla metà degli anni

’80 come strumento finalizzato allo sviluppo della professionalità nell’ambito della formazione continua e delle azioni di politica attiva del lavoro. L’obiettivo è quello di agevolare la persona nella costruzione o revisione del proprio percorso di carriera con una doppia valenza: il sostegno e la realizzazione di un progetto professionale realistico (Ruffini & Sarchielli, 2001).

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1. Alcune definizioni

Riteniamo possa essere utile, per una maggiore chiarezza espositiva, definire alcuni termini che ritroveremo in maniera ricorrente nel corso l’elaborato. In particolare ci riferiamo alla definizione di “modello” in ambito psicologico.

Con la dicitura “modelli teorici” intendiamo riferirci alle teorie che, a partire dalla ricerca, tentano di dare conto del funzionamento psicologico della persona. Con la dicitura “modelli applicativi” intendiamo riferirci agli approcci operativi che propongono strumenti e strategie nella prospettiva di migliorare la condizione della persona.

Tali modelli nascono, si sviluppano e spesso si integrano all’interno di teorie “generali”

che possiamo definire come “paradigmi di conoscenza” cioè sistemi coerenti di idee che hanno sviluppato determinate ipotesi in grado di fornire una conoscenza completa.

Possiamo considerare come principali paradigmi psicologici i sistemi di teorie psicoanalitico-psicodinamiche, cognitivo-comportamentali, umanistico-esistenziali (nella cui dicitura comprendiamo le teorie di matrice fenomenologica, sistemica- relazionale, psico-corporea, espressiva) 6.

Le teorie generali tentano di rispondere ad alcune domande indicando in tal modo gli elementi costitutivi, cioè i presupposti ontologici sui quali si fondano poi i modelli d’intervento. Ad esempio: qual’é la natura, l’essenza della persona e la struttura di funzionamento? Come si formano le caratteristiche psicologiche della persona? Che cosa viene definito benessere e come raggiungerlo? Che cosa viene definito malessere?

Quali sono gli strumenti per promuovere il cambiamento/benessere? Quali sono i limiti del modello?

Un modo intuitivo per illustrare il rapporto che esiste tra modelli teorici e modelli applicativi è utilizzare una metafora che spiega l’analogia tra mappa-territorio-strumenti

6 Tale semplificazione assume in questa sede un valore esclusivamente esplicativo e non esaustivo e non rende conto della grande articolazione e della complessità nello sviluppo storico, per la quale rimandiamo alla letteratura specializzata.

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e teoria-esperienza-metodologia. Un modello teorico è in grado di spiegare fenomeni ampi, ad esempio come si sviluppa la personalità dell’individuo, e può essere assimilato ad una mappa cartografica che utilizza scale molto grandi (ad esempio le carte stradali regionali con scala 1:250.000) per esplorare il cui territorio è necessario un mezzo di trasporto Un modello applicativo invece aiuta a comprendere eventi specifici, cioè i dettagli di come funzionano le persone in determinate circostanze e può essere assimilata ad una mappa cartografica che utilizza scale più ridotte (ad esempio le carte escursionistiche con scala 1: 25.000) per esplorare il cui territorio sarà invece necessario un buon allenamento a camminare e delle scarpe comode.

L’utilizzo congiunto di entrambe le fonti di informazioni consente di conoscere il territorio con maggior senso di controllo, consentendo di poter scegliere se attraversarlo in fretta per andare altrove o soffermarsi e curiosare in giro. Avere sempre presenti i riferimenti ad una teoria ci aiuta ad utilizzare meglio le metodologie pratiche che da essa derivano e che ci orientano verso una comprensione più delineata degli eventi.

Anche se rappresentano solo un aspetto della realtà, in quanto corrispondono al punto di vista di un osservatore che lavora in un ambito specifico, i paradigmi, in quanto sistemi coerenti di idee, assolvono alla funzione di solido punto di riferimento rassicurante. È per questo motivo che tendono a sopravvivere a lungo, anche quando non sono più esaustivi rispetto ai fenomeni che si propongono di spiegare. Quando la scienza comincia a produrre più visioni interpretative per lo stesso fenomeno, si crea una situazione di crisi che segna il passaggio da un paradigma ad un altro.

Al momento attuale sembra che la scienza dell’intervento psicologico si trovi in uno stadio di passaggio. Negli ultimi decenni si è verificato uno sviluppo enorme di modelli teorici e applicativi rendendo arduo a chi si avvicina alla psicologia una comprensione organica. I tentativi riguardano lo studio di modelli alternativi, la rimodulazione di quelli esistenti o la creazione di meta-modelli. Questi movimenti sembrano rappresentare le risposte al bisogno dei professionisti di sviluppare nuove forme d’intervento basate su una cornice teorica flessibile e interdisciplinare. “Quello che ormai può essere definito come il movimento per l’integrazione delle psicoterapie nasce dall’insoddisfazione degli psicoterapeuti per i singoli approcci e dal conseguente desiderio di superare i limiti di una scuola” (Giusti, Montanari & Montanarella, 1997, p.18). D’altronde le ricerche che negli ultimi anni si sono occupate dell’efficacia nella

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psicoterapia, parlano di “paradosso dell’equivalenza”, cioè del fatto che pratiche e/o tecniche differenti posso arrivare ad una stessa efficacia e testimoniano che nessun approccio può essere considerato l’unico e il più adatto per trattare un certo tipo di problema, di paziente, di situazione (Giusti et al., 1997). “Nessuna teoria ha il monopolio della verità o utilità, l’approccio ai problemi clinici richiede una prospettiva pluralista ed integrata” (Giusti et al., 1997, p. 19).

La ricerca sull’efficacia nelle psicoterapie, al termine degli anni ’90, ha individuato quattro tipologie differenti di approcci indicati come: “eclettismo tecnico”, che consiste nella selezione di procedure e metodi diversi derivati da altrettanti modelli terapeutici, che sono più efficaci per il trattamento di certe tipologie di disagio; ”integrazione teorica”, cioè l’integrazione tra diversi sistemi teorici di psicoterapia; “fattori comuni”

cioè l’approccio basato sulla convinzione che i costrutti teorici e i metodi clinici siano in realtà molto simili e che esistano un certo numero di elementi condivisi tra i diversi modelli terapeutici; “integrazione tra teoria e ricerca” è il modello che fa derivare le tecniche terapeutiche dalle evidenze scientifiche, e il cui obiettivo è quello di migliorare la conoscenza dei processi di cambiamento a partire dalle ricerche sul comportamento, sugli affetti e sul substrato biologico (Giusti et al., 1997, p. 20-22).

Per facilitare lo scambio e la condivisione della conoscenza sia nella ricerca che nell’ambito dell’intervento, è auspicabile lo sviluppo di un linguaggio comune. Un punto di partenza per tale obiettivo è costituito dall’impegno nel definire costrutti e pensieri in modo co-costruito e condiviso.

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2. Modelli a confronto

Jerome Bruner è considerato un riferimento noto in letteratura in quanto, con gli studi nell’area della psicologia sociale e dell’educazione, ha dimostrato che il “pensiero narrativo” costituisce una funzione della mente.

Sul versante della psicoterapia ci sembra interessante citare un autore poco conosciuto, Michael White. A partire dall’approccio Sistemico, l’autore propone un metodo d’intervento per le famiglie attraverso la narrazione che la famiglia fa di se stessa, per trasformare la trama dal suo interno, al fine di produrre cambiamenti funzionali al sistema.

Quando parliamo di narrazione di sé è facile pensare all’autobiografia, sia come forma letteraria, ma anche come strumento psicoeducativo. In effetti, nell’ultimo decennio viene utilizzato soprattutto nella formazione agli adulti. Il maggiore centro di studi sull’autobiografia in Italia si trova ad Anghiari (AR): si tratta della Libera Università dell’Autobiografia, creata e diretta da Duccio Demetrio, pedagogista e filosofo.

2.1 Il pensiero narrativo di Jerome Bruner

Le teorie di Bruner si sviluppano nel contesto della Psicologia Cognitiva e al tempo stesso se ne distanziano perché come lui stesso scrive “la rivoluzione cognitiva” ha abbandonato la “costruzione del significato […] optando invece per l’elaborazione dell’informazione e per la computazione” (Bruner, 1990, p. 130). L’autore si concentra sul concetto di “cultura” e dimostra che questa dimensione della vita umana, al pari dei fattori biologici determina la persona ed il modo in cui questa interagisce con l’ambiente. Il pensiero narrativo è in quest’ottica produttore e prodotto al tempo stesso della cultura nella quale siamo immersi.

Alla base del suo pensiero c’è il concetto di “biologia del significato” (Bruner, 1990, p.75). L’essere umano sarebbe caratterizzato da una attitudine prelinguistica al significato; l’autore individua delle classi di significato specifiche verso le quali saremmo in grado di sintonizzarci in modo innato e che motiverebbero la nostra ricerca attiva verso l’ambiente sociale. Queste classi di significato sarebbero delle

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“rappresentazioni protolinguistiche la cui piena realizzazione dipende dallo strumento culturale del linguaggio” (Bruner, 1990, p.77-78). Si tratta in pratica di rappresentazioni mentali del contesto in cui il bambino vive: le azioni e le espressioni delle persone che circondano il bambino formano una sorta di catalogo, delle forme malleabili verso cui il bambino è naturalmente attratto e sulla base delle quali struttura la propria identità.

La dissertazione circa il fenomeno “protolinguistico” viene ad ancorarsi a due costrutti che sono stati fondamentali nella storia della psicologia per comprendere lo sviluppo ontogenetico: il LAD di Noam Chomsky7 e la Teoria della Mente, TOM8.

Il concetto di Language Acquisition Device appartiene secondo Bruner ad una visione meccanicistica dello sviluppo umano; nelle sue teorie sul linguaggio Noam Chomsky è centrato sullo sviluppo delle capacità cognitive individuali, sostiene per esempio, che per come è strutturato, il linguaggio umano, è potenzialmente infinito perché si basa sulla regola della “ricorsività”, il limite sta nella memoria a breve termine fonologica (Làvadas, 2012). Bruner propone un’altra forza, questa volta emotiva e relazionale, è convinto infatti che il padroneggiamento inziale del linguaggio può derivare solo dal fatto che serve alla comunicazione, in particolare l’obiettivo ultimo di ogni individuo sarebbe quello di costruire significato, “significato narrativo” (Bruner, 1990, p.92).

Altro punto di riferimento dell’esplorazione di Bruner è la teoria della Mente, così come proposta nella sua definizione iniziale da Premack e Woodruff: un fenomeno in cui “gli stati mentali che un individuo attribuisce a se stesso e agli altri e ciò presuppone un sistema d’inferenza che può essere visto come una teoria, poiché questi stati non sono direttamente osservabili e il sistema può essere usato per fare predizioni sul comportamento altrui” (Albanese & Molina, 2008, p.36). Nei bambini con sviluppo tipico, dall’età di tre anni fino ai cinque circa, si assiste ad un processo di acquisizione

7 Chomsky ha coniato il termine sistema per l’acquisizione del linguaggio, (LAD - language acquisition device) per indicare i meccanismi innati che guidano i bambini nell’apprendimento delle regole della lingua parlata nella loro cultura di appartenenza. Il LAD comprenderebbe anche i fondamenti innati della grammatica universale che indica i principi-guida che stanno alla base della struttura delle diverse lingue e che corrispondono alle proprietà innate della mente umana e che consentono l’apprendimento del linguaggio (Grey, 1991).

8 Per “Teoria della Mente” si intendono specifici meccanismi atti a comprendere gli stati mentali dell’altro. (Vicari & Caselli, 2017, p.114).

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dell’idea della mente umana caratterizzata da desideri, emozioni, credenze che influiscono sulla intenzionalità del comportamento.

Come sempre, la discussione maggiore tra i ricercatori rispetto a questo costrutto è se sia una funzione innata e quindi determinata biologicamente, oppure frutto dell’interazione con l’ambiente. Le ricerche sviluppate nei primi anni duemila hanno messo a confronto lo sviluppo delle competenze emotive con quello della TOM ed è stata ipotizzata a una relazione fra queste due dimensioni, così come tali competenze sono anche connesse con lo sviluppo del linguaggio e della memoria. Oggi siamo convinti che le emozioni siano inscindibili dalla relazione, così come siamo convinti che la comunicazione sia orientata a definire e specificare l’esperienza emotiva.

Come sostengono Premack e Woodruff, lo sviluppo di capacità semantiche, sintattiche e di pragmatica sono legate alla capacità di comprensione degli stati mentali (Albanese &

Molina, 2008) e Bruner ha sostenuto l’idea che ancor prima di sviluppare una teoria della mente, l’essere umano disponga di un bagaglio di predisposizioni atte a costruire il mondo sociale e ad agire sulle costruzioni sociali; cioè l’essere umano viene al mondo già in possesso di una forma primitiva di quella che l’autore definisce “psicologia popolare” (Bruner, 1990). Si tratta di una sorta di “senso comune” cioè un insieme di descrizioni più o meno interconnesse tra di loro, di come le cose dovrebbero essere, riguardo al “funzionamento” degli esseri umani, quindi su come la nostra e l’altrui mente funziona. La psicologia popolare riguarda anche le aspettative che ci facciamo sugli altri e sui loro comportamenti (Bruner, 1990).

In quest’ottica, i commutatori deittici9 sono la dimostrazione che il bambino di età inferiore a un anno è già in grado di assumere la prospettiva dell’altro; quello che gli manca, secondo Bruner, è un repertorio di situazioni che gli facciano comprendere il contesto, semplicemente gli manca l’esperienza. La narrazione è una funzione della mente che àncora l’individuo alla sua dimensione sociale, nel senso che attraverso il racconto la persona assegna significato agli eventi, in particolare quelli che divergono

9 “La prima forma di comunicazione intenzionale, che compare intorno ai 9-13 mesi, è costituita da un sistema di gesti, vocalizzazioni e parole. In particolare sono state descritte quattro azioni/gesti e precisamente: richiesta ritualizzata, dare, mostrare, indicare. Questi gesti, che sono stati definiti anche performativi e deittici, esprimono esclusivamente l’intenzione comunicativa di richiedere o attirare l’attenzione su un oggetto o evento che possono essere recuperati dall’interlocutore solo dalla situazione contestuale” (D’Amico & Devescovi, 2013, p. 62).

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dal consueto andamento delle cose umane. Nei casi in cui le cose “sono come dovrebbero essere”, le narrazioni della psicologia popolare diventano superflue (Bruner, 1990, p. 51). “Il metodo che consiste nel proporre e riproporre una negoziazione sui significati con la mediazione dell’interpretazione narrativa costituisce a mio avviso uno dei grandi risultati dello sviluppo umano in senso ontogenetico, culturale e filogenetico”

(Bruner, 1990, p. 73).

La dimostrazione fenomenologica della funzione esplicativa della narrazione è data dalle ricerche condotte con i bambini. Nello studio di Joan Lucariello citato da Bruner, l’osservazione del comportamento dei bambini di 3 e 4 anni di fronte alla richiesta della ricercatrice di dare un senso alla felicità di una bambina in occasione della sua festa di compleanno, sviluppa ipotesi contenute quali: “è felice perché è il suo compleanno”, mentre alla richiesta di spiegare l’infelicità della bambina durante la sua festa di compleanno, gli stessi bambini propongono ipotesi articolate come: “è triste perché ha dimenticato che è il suo compleanno e non ha il vestito adatto da indossare” (Bruner, 1990, p. 85). È evidente che a 4 anni non si conosce ancora la cultura alla quale si appartiene ma è evidente che i bambini sanno riconoscere molto presto ciò che può essere considerato “canonico” e cosa non lo è. Il tentativo, o meglio il bisogno di ognuno piccolo o adulto, è quello di dare un senso a ciò che in prima battuta sembra non averlo; le ipotesi che continuamente vengono prodotte durante le proprie esperienze, anche le più semplici, hanno una struttura narrativa.

La prima caratteristica formale della narrazione è la sequenzialità: l’ordine degli eventi è il principio che ci guida nella costruzione delle storie, la trama scaturisce dalla sequenzialità. Altra caratteristica è se la storia è reale o immaginaria. Infine, il rapporto fra l’agente, cioè colui che agisce, l’oggetto ed il luogo dell’azione, costituiscono le relazioni semantiche di base che appaiono sin dalle prime fasi dell’apprendimento del linguaggio (Bruner, 1990).

A partire dai primi semplici racconti che hanno l’obiettivo di dare ordine agli aventi quotidiani, il bambino si esercita nel creare ipotesi, fino ad arrivare a vedere gli avvenimenti in termini di “storie psicologiche”.

“La mente umana sembra naturalmente portata a cercare delle spiegazioni per quanto accade, dato che i vari episodi delle nostre

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molteplici esperienze vissute sono solo vagamente connessi tra loro e i legami che vi attribuiamo sono spesso semplicemente circostanziali o accidentali. La nostra mente ha bisogno di compiere una selezione di dettagli più significativi tra tutto il materiale magmatico a disposizione, così da raccoglierlo nell’organizzazione più coerente, onnicomprensiva, razionale, semplice e sensata possibile” (Stern, 1990, p. 147-148).

Narrare vuol dire riflettere su quanto abbiamo vissuto; è un processo metacognitivo in cui la mente riflette su se stessa e, nel collegare il presente al passato e viceversa, la mente narra e definisce il Sé.

Questo processo in particolare prende forma quando il narratore racconta ad un

“narratario” (Smorti, 2018). Nella storia della psicoanalisi moderna, il concetto di narrazione ha assunto un ruolo determinante; Roy Schafer negli anni ottanta ha presentato i concetti psicoanalitici tradizionali non come principi scientifici ma come racconti interpretativi. Schafer sostiene che la mente è generata e organizzata dalle narrazioni ed il sogno rappresenta una possibilità di individuare nuove forme di esperienza in cui lui stesso, a partire dal sogno, agisce nella sua realtà. Non esiste una sola interpretazione corretta del sogno ma tante quante il sognatore ne può trovare (Mitchell & Black, 1995).

Secondo Bruner, la concettualizzazione della narrazione non può che partire dal padre della psicoanalisi, anche se il grande Titano della psicologia, come egli definisce Sigmund Freud, non ha dato sufficiente attenzione al potere generativo del linguaggio né alla sua funzione di interprete della storia della cultura umana (Bruner, 1986).

Possiamo dire invece che “ispirandosi all’archeologia ha concepito la psicoanalisi come un metodo che permette di raccogliere, scendendo strato per strato dentro la profondità dell’inconscio, pezzi di memorie da riconnettere dentro un quadro unitario, una sorta di romanzo sulla vita del paziente” (Smorti, 2018, p. 21).

Narrare la propria storia diviene quindi fonte di guarigione e la psicologia applicata sviluppa, a partire da Freud, la teoria e la tecnica del colloquio clinico. La narrazione è dunque strumento e mezzo attraverso il quale la psicologia clinica applica i tanti modelli e le molteplici tecniche d’intervento.

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Nella prima delle “Cinque conferenze sulla psicoanalisi”, tenute per il ventesimo anniversario della fondazione della Clark University di Worcester nel Massachusetts, durante il settembre del 1909, Freud viene invitato a presentare il suo nuovo metodo d’indagine e di cura, La psicoanalisi, e lo fa parlando di alcuni casi clinici trattati.

Freud non si attribuisce il merito di aver dato vita alla Psicoanalisi, lo attribuisce invece al dottor Josef Breuer che applicò per la prima volta questo procedimento per curare una giovane donna malata d’isteria. Si tratta del caso di Anna O. che all’epoca delle conferenze era già stato trattato diffusamente negli “Studi sull’isteria” pubblicati da Breuer e dallo stesso Freud. Durante la conferenza Freud descrive i sintomi fisici della donna, una ragazza di ventuno anni, ed i “suoi stati di assenza, di alterazione confusionale della psiche” durante i quali mormorava alcune parole. Freud spiega che Breuer, durante i suoi interventi di ipnosi, utilizzava le stesse parole da lei pronunciate per indurla a parlare di più, ad ampliare quelle frasi fino a farle raccontare quelle che Freud definisce “fantasie ad occhi aperti. “Dopo aver raccontato un buon numero di tali fantasie, ella era come liberata e riportata alla vita psichica normale…La paziente stessa, che stranamente, in quel periodo della sua malattia parlava e capiva soltanto l’inglese, diede a questo nuovo trattamento il nome di Talking cure (cura parlata, ndt), definendolo anche in modo scherzoso, chimney-sweeping (spazzare il camino, ndt)”

(Freud, 1909).

Ricordare e descrivere episodi di vita significativi, raccontare e riordinare la propria storia assume con Freud una valenza nel processo di cura della malattia psichica. La narrazione libera la paziente dai sintomi e da la possibilità di elaborare quelle esperienze che Freud chiama “traumi psichici”. Freud ci introduce nel metodo della “Talking cure”

che diventa a partire da lui il contenitore del trattamento psicoterapeutico.

Anche se per Freud “Il linguaggio è il terreno sul quale gli impulsi in conflitto combattono per far valere le proprie pretese”, forse non ne sfrutta tutto il potenziale trasformativo (Bruner, 1986, p. 175). Il padre della Psicoanalisi prende le distanze dalla medicina classica del suo tempo e formula una teoria che all’epoca dava un fondamento nuovo all’antica idea di “curare mediante il linguaggio” (Bruner ,1986, p. 175).

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2.2. L’approccio narrativo di M. White

Michael White è stato uno psicologo e psicoterapeuta familiare australiano, ha diretto il Family Therapist Dulwich Centre di Adelaide e, nel 2008 poco prima della sua morte, ha fondato l’Adelaide Narrative Therapy Centre dove ha sviluppato un modello di intervento terapeutico rivolto in particolare alle famiglie con persone con gravi problemi psichiatrici.

Il suo lavoro è conosciuto in Italia grazie al testo curato da Umberta Telfener che ha raccolto molti dei suoi articoli clinici pubblicati dal Dulwich Centre Newsletter e sulle riviste internazionali.

I presupposti teorici di White sono l’approccio sistemico di Bateson10 e la visione strutturalista di Foucault11. La singolarità del suo lavoro sta nel considerare il sintomo come uno dei modi in cui il Sé ha costruito i suoi rapporti con il mondo e con gli altri e nella possibilità di cambiamento per l’individuo e per la sua famiglia attraverso le narrazioni alternative che la persona può fare di Sé con gli altri. Inoltre White si contrappone ad una visione psichiatrica dell’intervento psicologico ed utilizza le riflessioni di Foucault sulla oggettivazione per sottintendere che la diagnosi psichiatrica reifica e irrigidisce la persona rendendo difficile la “guarigione” dal sintomo.

“Secondo Foucault, nella storia recente, la società occidentale si è fondata sempre più sulle pratiche di oggettivazione delle persone e del corpo per migliorare ed estendere il controllo sociale” (White, 1992, p.60). Obiettivo di White nella pratica clinica è quello di creare un contesto protetto all’interno del quale la famiglia ed il terapeuta possano

10 “L’approccio sistemico si è sviluppato negli anni Cinquanta a Palo Alto in California a partire dalla teoria dei tipi logici di B. Russell, dalla teoria dei sistemi del biologo austriaco Von Bertalanffy e dalla teoria del doppio legame di Bateson.” (Galimberti, 1992). In particolare Bateson introduce il concetto di

“doppio legame” per indicare una forma di comunicazione presente nelle famiglie con pazienti schizofrenici. Questo tipo di comunicazione è caratterizzata da una sequenza di messaggi verbali e non verbali che agiscono a diversi livelli, verbale e non verbale, e che sono in contraddizione l’uno con l’altro, creando una modalità comunicativa paradossale e incongruente. (Giusti, Montanari & Montanarella, 1997).

11 Secondo l’ipotesi strutturalista è possibile trattare il mondo umano alla stessa stregua di come le scienze naturali trattano i loro campi, purchè si scoprano quelle relazioni sistemiche o strutture che intercorrono tra i fenomeni socioculturali (Galimberti, 1992).

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sviluppare una narrazione alternativa e sconfiggere il sintomo che li tiene bloccati in un’immagine rigida di non efficacia. Come scrive la Telfener nell’introduzione al testo

“potremmo dire che White cura le storie, non le persone” (White, 1992).

Nel lavoro con le famiglie White sviluppa una sorta di protocollo che prevede diverse fasi: esteriorizzazione, definizione del problema, determinazione della relativa influenza, individuazione delle situazioni uniche, avvio del cambiamento.

La distinzione in fasi è utile per distinguere le diverse azioni terapeutiche che il modello prevede ma leggendo la narrazione dei casi proposti da White è evidente che ogni fase è integrata nell’altra e che il processo terapeutico proposto non è rigido ma adattato alla situazione della famiglia in modo fluido. In questo processo White si propone alle persone, che non definisce mai pazienti, come il “tecnico” che può aiutare ad uscire dal problema, e chiede loro di separare se stesse e le loro relazioni dal problema. Così facendo gli conferisce la responsabilità di agire e diventare consapevoli di come la dinamica della famiglia mantiene tutti bloccati in quella narrazione di loro stessi.

Nella prima fase, della “esteriorizzazione”, si tratta di incoraggiare le persone a parlare del problema e a renderlo oggettivo. Il processo di esteriorizzazione “attenua la conflittualità […], scalza il senso di fallimento […], prepara il terreno per la collaborazione tra persone […], apre nuove possibilità di agire per liberare la loro vita e le loro relazioni dal problema e dalla sua influenza […], mette le persone in grado di assumere un atteggiamento più leggero, più efficace e meno ansioso verso problemi mortalmente seri e presenta possibilità di scelta di dialogo invece che di monologo sul problema” (White, 1992 p. 34). Ogni membro della famiglia viene invitato a vedere il problema come un’entità separata, esterna alla persona portatrice del problema stesso.

Esempio di questo approccio è il caso di una famiglia in cui il bambino di sei anni, Nick, aveva una lunga storia di encopresi12 resistente a diversi tentativi di risoluzione anche da parte di altri psicoterapeuti. Durante la fase di “esteriorizzazione” White cerca di esplorare il vissuto di ognuno, non solo quello del portatore del sintomo e lavora per far emergere le situazioni in cui la vita della famiglia è condizionata dal problema e per comprendere in quale misura lo sia. Queste narrazioni gli consentono di delineare le

12 “Defecazione involontaria e incontrollata che, nei bambini che hanno superato i due o tre anni, se non ha una causa organica come la debolezza del muscolo sfinterico, è di natura psicogena dovuta a carenze affettive o a rapporti inadeguati con le figure parentali” (Galimberti, 1992)

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caratteristiche del problema stesso fino a renderlo un “personaggio” che è entrato a disturbare i personaggi principali della storia, la famiglia appunto. Nel caso di Nick, descritto nel testo, il problema di encopresi diviene la “Subdola Pupù” (White, 1992, p.

41). In questo modo l’autore propone di mettere una distanza fra le persone ed il problema per agevolare la “disidentificazione” dal problema stesso. Parla del disagio in termini di “descrizione saturata dal problema” (White, 1992), come se il problema fosse la “storia dominante della vita familiare” cioè l’unica storia in cui la famiglia si riconosce, come se non ci fosse null’altro che il problema.

L’idea dei significati saturi, o meglio di “matrice satura” è presente anche nel linguaggio psicoanalitico, che definisce patologica la famiglia che non lascia spazio alla creazione di significati nuovi del gruppo famiglia e della mente infantile. Per individuarsi, il bambino, ha bisogno di effettuare un processo di trasformazione al confine fra cultura familiare e mondo interno (Menarini & Neroni, 2002). É quindi necessario che si mantenga aperta la possibilità di creare significati nuovi, frutto dei cambiamenti che la famiglia è chiamata ad affrontare continuamente.

Nella fase di “definizione del problema” è importante agevolare le persone a dare una chiara definizione di quello che li affligge, anche se la prima definizione può essere considerata provvisoria perché durante l’esteriorizzazione potrebbe assumere connotazioni diverse e sfumature nuove. White sostiene che spesso le persone danno definizioni generiche dei loro problemi, come “abbiamo un problema di comunicazione” oppure “mio figlio ha crisi nervose”.

Per l’autore è importante non generalizzare perché nella specificità di ogni circostanza risiedono le peculiarità del modo di affrontare le difficoltà e implicitamente le possibili soluzioni.

La esteriorizzazione, che potremmo definire anche condivisione, e la definizione del problema, preparano la fase della “determinazione della relativa influenza”, in cui il terapeuta ha l’obiettivo di mettere in evidenza quanto potere ha il sintomo sulla vita della famiglia. I disturbi dei casi trattati da White sono: encopresi, anoressia mentale, violenza domestica, schizofrenia. Nei racconti delle famiglie l’autore cerca di cogliere quali siano i “rapporti di potere” fra i sintomi e le persone, per comprendere quanto ognuno sente di poter vincere sul problema stesso.

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Altro obiettivo di questa fase è definire chi, oltre al portatore del problema, ha maggiore energia da spendere e chi invece ha esaurito la propria riserva; questo è importante al fine di progettare le azioni che verranno messe in campo contro il sintomo. Nella fase di determinazione della relativa influenza, vengono osservati quali aspetti del problema sono selezionati durante il racconto, perché è evidente che gli aspetti del problema che vengono condivisi sono quelli attraverso i quali le persone attribuiscono il significato all’esperienza stessa. L’ascolto attento consente di far emergere descrizioni particolari all’interno delle quali cogliere nuovi spunti di lettura del contesto ed evidenziare così possibilità di cambiamento. “[…] l’esperienza di vita è più ricca del discorso.

Le strutture narrative organizzano e danno significato all’esperienza, ma ci sono sempre sentimenti ed esperienze vissute che non sono espressi pienamente nella storia principale” (Bruner, 1986, in White 1992, p.35)13.

La tecnica clinica di White è sostenuta anche dalla teoria di Bruner, nella parte che individua nei sentimenti ed esperienze non pienamente espressi quelle che White chiama “situazioni uniche” cioè quelle situazioni in cui la famiglia ha avuto la meglio sul problema (White, 1992).

L’individuazione delle “situazioni uniche” sembra essere la chiave di volta del metodo di White e rappresenta sicuramente la fase centrale di questa esperienza terapeutica.

Dalle situazioni uniche, l’autore prende spunto per dimostrare alla famiglia che hanno delle risorse per sconfiggere il problema e procede con la proposta di un programma per controllare il problema e contenerlo. Le domande sono lo strumento principale per evidenziare le “situazioni uniche”. Alcuni esempi: domande dirette: “Ricordi un’occasione nella quale potevi arrenderti e non l’hai fatto? “Ricordate un’occasione nella quale Nick stava per essere sopraffatto dal problema e invece è riuscito a intervenire?” Domande indirette: “Cosa ne pensi degli eventi che hai riferito e che mi dicono che hai ancora una certa influenza sulla vita del problema?”. Domande dirette sulla situazione unica: “Che cos’altro hai notato che potrebbe dirti qualcosa di più su questa nuova direzione?”. Domande sulla ridescrizione: “che cosa ti dice questo su te

13 I concetti espressi da Bruner si ritrovano nelle parole di Gene Gendlin, la cui filosofia si inserisce nel filone del pensiero funzionalista e pragmatista: “L'esperienza è una miriade di ricchezza. Pensiamo più di quanto possiamo dire. Ci sentiamo più di quanto possiamo pensare. Viviamo più di quanto possiamo sentire. E c'è ancora molto di più.” (Gendlin, 1978).

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stesso che è importante che tu conosca?”; “Che cosa significa sentire che hai autorità su te stesso?

Quando qualcuno dei membri della famiglia entra in contatto con una situazione unica che diviene stimolo per progettare “situazioni nuove” in cui fare esperienza di nuovi modi per fronteggiare il problema, si entra nella fase di “avvio del cambiamento”.

Anche il terapeuta entra attivamente nella nuova storia, con un ruolo che potremmo definire di “coach”: fa domande, coglie spunti, da indicazioni, spiegazioni e anticipazioni rispetto a quello che potrà succedere momento per momento durante il

“programma” e inventa storie egli stesso come quando parla del club della “Subdola Pupù” in cui si può entrare a far parte all’età di sedici anni e dove tutti i membri si divertono a farla insieme.

White mette al centro del processo terapeutico la persona con le sue risorse valorizzando la narrazione che le stesse persone fanno di se stesse e fornendogli gli strumenti per la creazione di una nuova storia.

L’atteggiamento clinico di White sembra essere orientato fuori dalle diagnosi in senso classico, che egli interpreta come inquadramenti rigidi e limitanti al punto da non essere a suo avviso efficaci. Tornando all’esempio dell’encopresi, parla di come, sia l’approccio comportamentista sia quello psicodinamico, siano solo parzialmente efficaci.

Il metodo comportamentista spiega l’encopresi come il risultato di un errato apprendimento e viene trattato con le tecniche del condizionamento operante; ciò implica un rinforzo immediato da parte dei genitori verso il bambino e spesso si incontrano atteggiamenti di scarsa collaborazione da parte di tutti con inevitabile insuccesso.

L’approccio psicodinamico tende invece ad attribuire il problema all’inadeguatezza della madre o di entrambe i genitori (White, 1992). In effetti, nelle teorie psicoanalitiche postclassiche, le teorie delle relazioni oggettuali, la psicologia dell’Io e la psicologia del Sé, sembra che il trauma, che è causa del disturbo, sia prodotto dalle difficoltà e dai disagi psicologici dei genitori. Invece di seguire il suo vero Sé il bambino è costretto ad adattarsi al mondo esterno per sopravvivere e così facendo fallirebbe il compito di una buona definizione di Sé come persona (Mitchell & Black, 1995). Donald Winnicott si è occupato molto delle prime interazioni fra madre e bambino dando una grande

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responsabilità alla responsività della madre verso il figlio, “che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me ciò che il lattante vede è se stesso. In altre parole la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge” […]. Molti lattanti, tuttavia devono avere una lunga esperienza di non vedersi restituito ciò che essi danno. Guardano e non si vedono. Ne derivano conseguenze. Prima di tutto la loro capacità creativa comincia ad atrofizzarsi, ed in un modo o nell’altro si guardano intorno cercando di riavere qualcosa di sé dall’ambiente.”

(Winnicott, 1971, p.177). Questa dinamica è il presupposto per lo sviluppo della patologia o quantomeno produce nel bambino un vissuto di precarietà che lo porta in una minaccia di caos e nell’evitamento (1971, 2006).

Da un punto di vista psicodinamico White è sicuramente più vicino ad autori come Daniel Stern che ”[…] descrivono lo sviluppo precoce non tanto in termini di un bambino che viene facilitato o che subisce le carenze dei genitori, quanto piuttosto in termini di interazioni complesse attraverso le quali il bambino e gli adulti che se ne prendono cura si adattano reciprocamente oppure no. Si ritiene che gli individui abbiano sensibilità e ritmi diversi. Un genitore il cui stile di accudimento può essere molto efficace con un bambino, può incontrare difficoltà enormi con un altro. La genitorialità, in questa prospettiva, si crea nel contesto degli aspetti temperamentali impliciti sia nel genitore che nel bambino. In questo modo la natura fa parte della cultura fin dall’inizio”

(Mitchell & Black, 1995 p.239).

White utilizza la prospettiva della “Seconda Cibernetica”14 e cita M. Maruyama per spiegare che “all’interno di un sistema gli elementi si influenzano a vicenda sia simultaneamente sia alternativamente” (White, 1992, p.166). Basta che nel sistema si realizzi una piccola deviazione dai normali percorsi per creare una amplificazione ed una circolarità tali che diventi impossibile rintracciare direttamente le cause del problema stesso.

La diagnosi può divenire schiacciante e limitare la possibilità di cambiamento e pur non dichiarandolo esplicitamente l’autore preferisce parlare della sua esperienza sostenendo

14 “Dall’avvento della cibernetica e della ‘scoperta’ della retroazione ci si è resi conto che una correlazione circolare e assai complessa è un fenomeno notevolmente diverso ma non meno scientifico delle nozioni causali più semplici e più ortodosse. Retroazione e circolarità […] sono il modello causale appropriato per la teoria dei sistemi interattivi. La natura specifica di un processo di retroazione è molto più interessante della sua origine e -spesso- dei suoi risultati (Watzlawick, Beavin & Jackson, 1967).

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di non aver mai incontrato un caso in cui tale problema fosse direttamente imputabile a comportamenti disfunzionali dei genitori. Piuttosto ha riscontrato nelle famiglie un senso di impotenza e disperazione. Nel suo approccio l’obiettivo è quello di interrompere il ciclo vizioso dando vita ad una narrazione nuova.

2.3. L’autobiografia di Duccio Demetrio

Duccio Demetrio è stato professore di Filosofia dell’Educazione e di Teorie e pratiche della narrazione presso l’Università degli studi di Milano Bicocca. Si è occupato di pedagogia e di educazione degli adulti, rivestendo ruoli accademici. Ha sviluppato ricerche sulla dimensione esistenziale dell’adulto in un’ottica filosofica e sulla funzione pedagogica dei metodi narrativi, dedicandosi in particolare al metodo autobiografico.

Nel 1988 ha fondato, insieme a Saverio Tutino, scrittore e giornalista, la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari di cui è direttore scientifico e docente.

La scrittura15, da un punto di vista storico, acquisisce una dimensione personale ed intima quando smette di essere compito dello scrivano e comincia ad assumere un posto nella dimensione privata, sia per dissertare sui propri principi, sia per esplorare i propri sentimenti rispetto ai grandi temi esistenziali dell’uomo: la morte, il senso della vita, la malinconia, l’amore. In ogni caso la scrittura sembra raccogliere da sempre le sofferenze e i turbamenti che caratterizzano i momenti apicali della vita (Demetrio, 2008).

La spinta di Demetrio ad approfondire la funzione della scrittura, in particolare la scrittura di sé, sembra connessa con l’effetto che questa potenzialmente produce:

“l’emergere del soggetto dalla schiavitù del gruppo, della comunità coatta, della tribù”

15 Parlando di scrittura, ci sembra utile ricordare che, da un punto di vista filogenetico ed ontogenetico, l’acquisizione del linguaggio scritto non sembra essere fondata su una predisposizione genetica;

l’invenzione della scrittura risale a circa seimila anni fa, quindi un tempo breve per l’evoluzione naturale ed inoltre per la maggior parte delle popolazioni umane l’alfabetizzazione è avvenuta in forma estesa solo nel corso degli ultimi due secoli. Il linguaggio scritto, contrariamente a quello orale, non è acquisito in modo passivo e automatico, bensì richiede volontà ed impegno; richiede processi cognitivi complessi che implicano il coinvolgimento dei diversi buffer di memoria e la successiva programmazione motoria che ci consente di tracciare il segno sulla carta o digitare sulla tastiera (Làdavas, 2012). La complessità di questo strumento della comunicazione umana lo rende diverso dagli altri canali perché richiede tempi più lunghi e quindi ci spinge a fare un’elaborazione più approfondita di quanto vogliamo comunicare.

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(Demetrio, 2008, p. 85). Gli affida quindi una funzione di supporto nel processo di conoscenza di sé e di individuazione in se stesso.

L’ideazione del metodo autobiografico nel pensiero di Demetrio è strettamente connessa con l’attenzione verso il bisogno di crescita e trasformazione dell’adulto.

Anche la fase centrale della vita è caratterizzata da blocchi evolutivi che possono produrre una stagnazione oppure, se affrontati adeguatamente, generatività16. È nella fase del blocco e del disorientamento che nasce nell’individuo quello che l’autore chiama “pensiero autobiografico”. Si tratta di un bisogno di raccontarsi, di pensare a se stessi in termini storiografici, andando a recuperare ricordi e momenti della vita passata e cercando un collegamento con il presente.

Il pensiero autobiografico è una sorta di stato mentale che sopraggiunge in determinati momenti dell’esistenza, in corrispondenza del passaggio da una fase all’altra della vita:

l’uscita dei propri figli dalla casa familiare o il pensionamento, oppure in caso di traumi, come una separazione, una malattia, un lutto.

L’autore sostiene che la scrittura di sé può rappresentare un “medicamento” per il dolore perché la scelta delle parole e delle immagini utilizzate per rappresentarlo portano a dargli una forma che può avere funzione di contenimento. Il linguaggio ha una funzione di radicamento. “Siamo soprattutto linguaggio e la nostra normalità mentale poggia proprio sul riuscire a mettere insieme, con una certa coerenza, le parti dei nostri discorsi” (Demetrio, 1996, p. 115).

Di solito nei momenti di crisi emerge anche il bisogno di fare bilanci rispetto a quello che si è fatto nella vita e rispetto a quello che si è diventati, senza tralasciare quello che si può ancora fare ed essere. Il lavoro autobiografico, in questa dimensione introspettiva e di crisi, può essere funzionale perché risponde al bisogno di consapevolezza e conoscenza di sé.

16 L’età adulta diviene oggetto d’interesse di ricerca in ambito psicosociale con la teoria dello sviluppo psicosociale di E.H. Erikson che definisce la crescita dell’individuo in senso “epigenetico”; cioè la persona cambia a contatto con il suo ambiente e si trasforma in risposta agli stimoli ambientali. In particolare rispetto alla fase dell’età adulta Erikson parla di generatività e stagnazione; un continuum all’interno del quale l’individuo esprime creatività e produttività oppure stasi, blocco evolutivo che lo porta ad un comportamento autoreferente (Erikson, 1951).

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Questo processo avviene di solito quando la persona ha raggiunto una certa maturità, perché “il significato della propria vita incomincia a trasparire quando il disegno ha ormai assunto una conformazione” (Demetrio, 1996, p.22).

L’autobiografia, in quanto lenitiva rispetto al malessere esistenziale, può essere curativa, anche se l’obiettivo non è quello di “guarire”.

Demetrio sostiene che la scrittura non possiede poteri tali da risolvere i problemi di fragilità e crisi esistenziale dovuta a motivi di ordine intrapsichico. Piuttosto, la facoltà curativa dell’autobiografia sta nella capacità di stimolare la responsabilità di “prendersi in carico”, narrandosi. Ripercorrere eventi, periodi, relazioni e sentimenti, avvalendosi della memoria, attiva la cosiddetta “intelligenza retrospettiva”, una peculiare funzione della memoria che consente di collegare eventi e sentimenti, dando senso alle proprie scelte.

In quest’ottica, l’autobiografia diviene un viaggio formativo utile alla costruzione del senso di quello che siamo. Ripercorrendo la propria storia, il narratore può ricontattare bisogni, aspettative, motivazioni, desideri, cioè le tante parti che hanno dato vita a scelte diverse persino in conflitto o che esprimono rimpianti o rimorsi.

È come se la frammentarietà della memoria nella narrazione si ricomponesse per creare una “sintassi interiore” che fino a quel momento non vedevamo. (Demetrio, 1996)

Nella proposta di Demetrio, specifica per la formazione agli adulti, l’aspetto clinico sta nel fornire strumenti e conoscenza a chi affronta un disagio e quindi, in quest’ottica, coincide con l’aspetto pedagogico.

L’assunto di base è che l’etimologia della parola klinè, letto, può rimandare a un’idea di sosta, di sospensione dell’azione, nell’attesa di riprendere il cammino. L’autore la intende quindi come una possibilità di trasformazione.

Le situazioni di fragilità dell’esistenza, come invecchiamento, separazioni, lutto, perdita, sono quelle in cui la risposta clinica deve andare verso una dimensione educativa e conoscitiva e non verso una dimensione di guarigione. È orientata al “saper vivere con pienezza” quei momenti delicati che un tempo potevano essere affrontati anche grazie alla rete sociale, molto più stretta e presente di quanto non lo sia oggi.

Quindi, si tratta di una dimensione “evolutiva più che adattiva” (Demetrio, 2008).

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L’azione positiva del processo autobiografico si concretizza con l’emergere di un io prevalente che Demetrio definisce “l’io tessitore”, cioè un carattere dominante che è poi quello che riesce a mediare tra le diverse istanze psichiche e che ha la capacità di stabilire nessi, concordanze, coincidenze e che quindi ci aiuta a rintracciare il senso.

“Fare autobiografia è infatti darsi pace, pur affrontando l’inquietudine e il dolore del ricordo” (Demetrio, 1996, p.27).

È un po' come se l’autore volesse sottolineare che l’autonarrazione è strumento dell’Io in senso psicoanalitico. Tra le tre istanze psichiche della mente indicate da Freud, l’Io è quella che rappresenta il rapporto dell’individuo con il resto del mondo e attraverso le difese controlla e modula le spinte pulsionali dell’Es e del Super-Io. Nella narrazione, l’Io diviene una guida che viaggia attraverso la propria storia e può osservare eventi, esperienze in cui altre istanze possono aver influito (Mitchell & Black, 1995).

Tuttavia le dimensioni trattate vengono attraversate solo in termini autobiografici e non psicologici cioè non si lavora al fine di individuare ciò che può essere stato rimosso, non si esplorano proiezioni e difese dell’io.

L’autoascolto e l’osservazione di sé potenziano la consapevolezza dell’io senza coinvolgere altre dimensioni inconsce che non possono essere prese in considerazione in un percorso che non è terapeutico. “La clinica non terapeutica […] è uno spazio potenziale di interrogazione filosofica […]. Si tratta di una cura rivolta a se stessi […], è riflessiva rispetto alla propria esistenza biografica e speculativa rispetto alle domande di senso più generali” (Demetrio, 2008, p. 327).

Il processo autobiografico consiste in tre momenti diversi: quello della retrospezione che guarda al passato, quello della interpretazione di ciò che è stato a fronte di ciò che si è oggi ed il momento creativo in cui la scrittura può dare spazio all’inventiva aggiungendo storie di fantasia alla realtà dei fatti narrati.

Le storie di fantasia possono riguardare i diversi io che emergono dalla narrazione ed hanno lo scopo di consentire alla persona di rintracciare forme e modi potenziali di esistere, di contattare le proprie risorse e realizzare che la vita può ancora offrire delle opportunità (Demetrio, 1996).

È possibile intravedere anche una funzione di potenziamento/empowerment: prendere contatto con le proprie possibilità rende liberi di progettare ancora.

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A nostro avviso, il metodo autobiografico, in quanto intervento psicopedagogico rivolto al superamento della “crisi” ed all’acquisizione di consapevolezza, è legato allo sviluppo della resilienza.

Questo concetto, che nasce dalle scienze fisiche ed indica la capacità dei materiali di assorbire energia cinetica senza riportare danni, viene utilizzato in ambito psicologico per indicare la capacità dell’individuo di resistere agli eventi traumatici senza esserne travolti. Si discute molto su quanto la resilienza sia un fattore innato o appreso e quali siano le condizioni predisponenti ad un atteggiamento resiliente. La ricerca ha stabilito che alcuni fattori, come uno “stile di attaccamento sicuro”17, favoriscono un atteggiamento resiliente nei confronti degli eventi traumatici; al tempo stesso alcune forme espressive e la valorizzazione del contesto sociale agevolano in chiunque lo sviluppo di resilienza.

Proprio la narrazione di sé sembra avere una funzione importante in questo senso:

l’opportunità di incontrare i “fantasmi” più e più volte nel racconto delle proprie storie da la possibilità di depotenziarli attraverso la descrizione e rende più aperta la persona agli aspetti positivi che possono essere rintracciati in ogni situazione di vita.

L’utilizzo delle parole aiuta a simbolizzare e a dare contenimento all’esperienza traumatica lasciando spazio al resto; la dimensione sociale fornisce il supporto, l’ancoraggio per tollerare il dolore e proiettarsi nel futuro (Vaccarelli, 2016).

I presupposti teorici e metodologici che abbiamo descritto prendono forma nei corsi di scrittura autobiografica che vengono erogati presso la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari che è ormai da tempo il luogo italiano dell’Autobiografia per eccellenza, dove le persone arrivano con il bisogno di “raccontarsi” e dove possono apprendere questo metodo come strumento per raccogliere successivamente le storie altrui o per realizzare corsi e percorsi divenendo loro stessi formatori specializzati in questo metodo.

Ogni “autobiografo” in formazione viene accompagnato a ricomporre la propria storia di vita in forma di romanzo, attraverso gli stimoli ricevuti durante i laboratori, il lavoro diaristico e con la narrazione per episodi. Lo scopo è quello di dare un profilo umano e morale di sé. Gli obiettivi didattici sono: sviluppare la capacità di ritrovare e trattare letterariamente le proprie memorie, anche le più penose; incrementare la disponibilità

17 Per un approfondimento sulla teoria dell’Attaccamento di J. Bowlby: Holmes, 1993.

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ad esporsi; acquisire la capacità di riorganizzare la memoria di se; rendersi consapevoli circa l’importanza dello sviluppo di sé oltre l’autobiografia.

Gli allievi devono aderire ad alcune regole che rappresentano le precondizioni per poter seguire il percorso: la regola del silenzio, necessario per far riaffiorare i ricordi individuali e a scriverne come se si fosse in solitudine, pur stando fianco a fianco con altre persone nella stessa aula; la regola della concentrazione introspettiva, nel senso che la dinamica del gruppo rispetto ai temi emersi non sarà oggetto di discussione o confronto; la regola della scrittura protratta, cioè la consegna rispetto alle attività narrative va oltre le giornate di corso e si estende a tutto il periodo di frequenza del corso stesso, durante il quale le persone si impegnano a produrre materiale diaristico ed autobiografico. Altra regola importante è la massima discrezionalità e libertà rispetto alla condivisione in gruppo del proprio prodotto biografico.

Il percorso procede per fasi: si passa dalla narrazione per momenti, episodi, emozioni, ai momenti apicali della vita che vengono narrati secondo le dimensioni del tempo, della consapevolezza e della disponibilità a scrivere della propria storia in carattere poetico (Demetrio, 2008).

Il luogo della formazione autobiografica è quindi uno spazio protetto dedicato alla scrittura individuale e moderatamente condivisa, in cui le persone devono essere accolte e stimolate a fare esperienza di vissuti emotivi che non trovino spazio altrove.

Il gruppo è una dimensione fondamentale in questo percorso perché consente di uscire dal rischio dell’egocentrismo che lo scrivere di sé potrebbe comportare. I partecipanti scrivono l’uno vicino all’altro ma senza obbligo di condivisione, viene sollecitato soprattutto l’ascolto. Il gruppo è inoltre una dimensione fondamentale perché stimola il confronto e contiene anche se, in questo contesto, proprio per l’accezione pedagogica e non terapeutica, non si utilizza mai la dimensione della “dinamica” di gruppo. Ciò che viene proposto è di imparare a convivere in gruppo, in una tolleranza e in un ascolto reciproco, dove il baricentro è sempre il lavoro individuale.

Anche se il gruppo non è un elemento centrale di questo tipo di percorso possiamo senz’altro sostenere che alcuni dei fattori terapeutici del gruppo siano presenti. Ad esempio, la “speranza” che si sviluppa nei contesti in cui gli individui hanno l’opportunità di confrontarsi con altri e di apprendere dagli altri gli esiti del percorso. Ed anche l’”universalità”: ascoltando le storie ed i vissuti degli altri, le persone spesso scoprono che le loro difficoltà non sono uniche; aumenta in tal modo il loro sentirsi in

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contatto col mondo e parlano di queste esperienze come “il benvenuto nella specie umana” (Yalom, 1974, p. 27).

Come sostiene Demetrio, anche se non scriviamo per gli altri e anche se lo facciamo in solitaria, la voglia di scrivere per raccontare nasce dal bisogno di uscire dalla solitudine, dal proprio mondo interno. Inoltre, scrivere è un gesto culturale al quale siamo stati educati in circostanze relazionali: “[…] nasce e vuol tornare alla dimensione sociale.

Fugge dalla condivisione ma poi ne ha bisogno” (Demetrio 2008, p.37).

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3. Ulteriori osservazioni

Dopo aver preso in considerazione diversi modelli teorici e metodologici relativi alla narrazione, intendiamo, in questo capitolo, riflettere ulteriormente sulla funzione della narrazione utilizzando il costrutto della Mentalizzazione, in quanto capacità/funzione della mente, recuperando il pensiero della Gestalt come modello di lettura dei processi di sviluppo e trasformazione dell’esperienza umana; inoltre ci soffermeremo sull’Immaginario come elemento che struttura il racconto.

3.1 Narrazione e mentalizzazione

Narrazione e mentalizzazione sono parti/fasi del più ampio processo di rappresentazione della realtà che l’essere umano sviluppa attraverso il linguaggio.

Per mentalizzazione si intende un processo emotivo prevalentemente inconscio, rapido e intuitivo, che interviene in ogni situazione sociale in cui siamo coinvolti. È una sorta di procedura che ci consente di ottenere informazioni rispetto agli atteggiamenti e ai comportamenti propri e altrui, sia attraverso le emozioni che proviamo in relazione agli altri, sia attraverso le impressioni che riceviamo dalle espressioni emotive degli altri.

“In sintesi la qualità dell’esperienza emotiva in una determinata circostanza ci porta a costruire le nostre convinzioni e ad agire coerentemente con queste” (Bateman, Fonagy

& Allen, 2009, p.851).

Questa funzione viene associata all’attivazione delle aree prefrontali mediali del cervello, forse l’area paracingolata, ma si ipotizza che interessi diversi sistemi corticali.

Il concetto di mentalizzazione è molto vicino all’idea, già espressa da Bruner, secondo cui l’essere umano attribuisce il significato emotivo alle cose della vita attraverso il linguaggio che è quindi strumento di simbolizzazione. Bateman e Fonagy ne parlano in termini di capacità di giocare con la realtà e di rapportarsi ad essa come ad una rappresentazione: le ipotesi di significato nascono all’interno della costruzione narrativa (Bateman & Fonagy, 2006). La mentalizzazione è un costrutto sociale che si collega al concetto di Teoria della Mente, in quanto frutto della relazione. La capacità di comprendere il comportamento degli altri considerando i loro pensieri e sentimenti

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viene considerata una conquista evolutiva di tipo biologico; Bateman, Fonagy, e Allen, lo hanno descritto come il “miglior concetto teorico per descrivere il processo mentale che ci rende umani” (Bateman, Fonagy & Allen, 2009, p. 856).

I bambini riescono a comprendere gli stati emotivi prima ancora di acquisire il linguaggio e le conoscenze rispetto al mondo in cui vivono. Come sosteneva Bruner, i bambini sono dotati di rappresentazioni protolinguistiche ma l’atteggiamento mentalizzante, cioè concepire se stessi e gli altri come aventi una mente, richiede un vero e proprio sistema rappresentazionale per gli stati mentali che si sviluppa all’interno di una relazione d’intimità con la figura di accudimento. La capacità di mentalizzare, infatti, è stata messa in relazione alla qualità dell’attaccamento tra il bambino ed il suo caregiver. Bateman e Fonagy spiegano che la comprensione degli altri dipende dal fatto che gli stati mentali siano stati adeguatamente compresi da figure adulte amorevoli, accudenti e in grado di rispecchiare il proprio vissuto.

Altro aspetto che concorre all’acquisizione della capacità di mentalizzare è l’utilizzo, da parte del caregiver, di un linguaggio che specifica gli stati mentali durante gli scambi conversazionali con il bambino. Essersi sentito oggetto della mentalizzazione di qualcuno aiuta ad apprendere implicitamente a mentalizzare (Bateman & Fonagy, 2006).

Bateman e Fonagy con il loro gruppo di studio hanno approfondito il costrutto della mentalizzazione in relazione al trattamento del disturbo di personalità borderline (di seguito DBP) ed hanno proposto un protocollo specifico.

Dalle loro osservazioni emerge che le persone con una diagnosi di DBP traggono giovamento da un intervento focalizzato sulla mentalizzazione. Sembra che queste persone siano in genere capaci di una mentalizzazione normale, tranne che nel contesto delle relazioni d’attaccamento. Se si trovano in un particolare stato di attivazione emozionale, all’interno di una relazione significativa, l’intensità degli scambi può produrre un repentino decadimento della loro capacità di pensare gli stati mentali dell’altro. Questo fa emergere delle modalità prementali di organizzazione dell’esperienza soggettiva e la persona perde la coesione dell’esperienza di sé che normalmente viene generata dalla trama narrativa di una normale mentalizzazione. È noto infatti che la qualità dell’attaccamento viene compromessa nelle persone con DBP.

Gli autori sostengono che quando le relazioni di attaccamento sono state traumatizzanti

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