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Autobiografia e questioni teoriche

Nel documento Patografie: voci, corpi, trame (pagine 37-42)

2. Presupposti di una narrativa testimoniale

2.2. Autobiografia e questioni teoriche

Poiché i debiti con l’autobiografia restano necessariamente tanti, non ci si può esimere dal continuare a costeggiare il solco teorico già tracciato nel considerare il racconto totalizzante di una vita. Un riferimento imprescindibile è rappresentato dal modello proposto da Philippe Lejeune, a cui si devono presupposti proficuamente applicabili anche alle narrazioni della malattia. In rapporto al nostro specifico oggetto di studio, gli assunti da cui prendere le mosse e che caratterizzano l’approccio adottato sono pertanto così riassumibili:

- la patografia viene indagata in quanto testo letterario, fenomeno del linguaggio e

modalità di lettura;

- oltre agli elementi formali che la caratterizzano, a definirla è uno specifico patto

narrativo;

- l’autore reale, in carne e ossa, rientra tra gli elementi di analisi, perché referente

dell’io enunciatore a cui rimanda il nome proprio sulla copertina, firma che ha un ruolo essenziale nella determinazione del patto.

Accanto a queste linee guida, che individuano l’esistenza di un peculiare patto autobiografico associabile alla patografia, vanno tenute in considerazione le questioni su cui la teoria dell’autobiografia ha ripetutamente riflettuto e che, in estrema sintesi, corrispondono alle seguenti:

- il rapporto con la biografia e con il romanzo;

- la distinzione tra realtà e finzione, verità e menzogna; - l’ordine del racconto;

- la relazione del narratore con il suo narratario e il suo eroe; - l’ontologia dell’io;

38 - il rapporto tra presente e passato.6

Alcuni di questi aspetti hanno speciale rilevanza per il discorso sulla patografia, altri verranno affrontati solo indirettamente. È il caso del dibattito intorno all’esistenza o meno dell’io, sebbene si sia già accennato alle implicazioni per l’autobiografia come forma letteraria. Per quanto riguarda il rapporto tra presente e passato, non verrà considerato in chiave cognitivista-psicologica, ma piuttosto dalla prospettiva narratologica. Ed è in tale chiave che sull’organizzazione della trama occorrerà soffermarsi, accennando anche al legame che intercorre tra il responsabile del racconto e il suo destinatario.

Ad ogni modo, l’inserimento dei racconti di malattia nel quadro teorico dell’autobiografia è finalizzato ad ipotizzare un apporto in tale contesto in termini di conferme o interrogativi inediti, anche perché, evidentemente, la patografia non è estranea alla problematizzazione che tuttora interessa la forma da cui è derivata. A questo proposito, una riflessione sul rapporto con i generi letterari contigui appare un punto di partenza proficuo: «[…] il n’est peut-être pas possible d’étudier un genre, à moins d’accepter d’en sortir» (Lejeune p.8). Tanto più che un simile confronto contribuisce certamente a gettare maggior luce sulla patografia stessa.

Considerando che lo statuto di genere letterario continua a non essere unanimemente riconosciuto all’autobiografia, almeno due tendenze possono essere citate come indicative, sebbene non certo esaustive, delle posizioni contrapposte all’interno di questo dibattito. Da un lato, il rifiuto del riconoscimento viene giustificato con i volti troppo diversificati che l’autobiografia si presta ad assumere e che semplicemente renderebbero assente l’oggetto che si ritiene di individuare e osservare. Emblematica è, in questo senso, la posizione di Paul de Man:

Empirically as well as theoretically, autobiography lends itself poorly to generic definition; each specific instance seems to be an exception to the norm; the works themselves always seem to shade off into neighboring or even incompatible genres and, perhaps most revealing of all, generic discussions, which can have such powerful heuristic value in the case of tragedy or of the novel, remain distressingly sterile when autobiography is at stake. (p.920)

Autobiography, then, is not a genre or a mode, but a figure of reading or of understanding that occurs, to some degree, in all texts. The autobiographical moment happens as an alignment between the two subjects involved in the process of reading in which they determine each other by mutual reflexive substitution. (p.921)

6 Cfr. Lejeune; Bell e Yalom; Smith e Watson; Battistini. Per dei riferimenti sintetici a tali questioni in

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Questa interpretazione verte, oltre che sull’eterogeneità di forme della scrittura autobiografica, sul confronto di questa con i generi letterari stabilmente ammessi e identificati: quel che vale per la tragedia, il romanzo e la commedia, non ha alcuna consistenza quando lo si rapporta al tentativo di giustificare esteticamente e formalmente una caratteristica scrittura dell’io, il cui fondamento si vorrebbe far coincidere con la dichiarata corrispondenza tra il nome dell’eroe, nonché dell’io narrante, e la firma sulla copertina, cioè l’autore in carne e ossa, esistente fuori dal testo. Proprio questa referenzialità extratestuale si dimostra, per alcuni critici, il tallone d’Achille dell’autobiografia nella sua aspirazione a farsi genere:

Chiamo l’autobiografia uno pseudo-genere perché un criterio formale interno permette di distinguere fra loro altri generi letterari (per esempio un romanzo da un poema epico, una tragedia da una commedia), mentre solo un criterio liminare o esterno – il titolo, oppure una relazione di identità fra il nome dell’autore e il nome del narratore-protagonista – permette di distinguere fra una biografia e un’autobiografia. (Neppi p.315)

Quello che non si manca di contestare a Lejeune è proprio di aver costretto in un modello una forma evanescente e sfuggente il cui unico, insufficiente tratto distintivo è l’esplicita identità di narratore-eroe-autore. Ci si concentra su questo punto e si trascura che nella sua ricerca Lejeune non si è limitato a stabilire questa coincidenza, ma ha individuato nell’autobiografia degli aspetti chiaramente testuali che la renderebbero tale e che vengono condensati nella sua celebre definizione: «Récit rétrospectif en prose qu’une personne réelle fait de sa propre existence, lorsqu’elle met l’accent sur sa vie individuelle, en particulier sur l’histoire de sa personallité» (p.14).7 Più che un recinto costrittivo, tale definizione costituisce una traccia, a cui i testi possono aderire con maggiore o minore forza: pensiamo, come suggerisce Lejeune, all’avvicendarsi dei piani temporali, tra cui il presente non è esente dall’essere accostato alla narrazione al passato. E d’altronde, si pretende forse la stessa costanza e uniformità espressiva per il genere proteiforme per eccellenza che è il romanzo? Inoltre, già ad un livello superficiale di lettura, i distinguo tra forme emergono senza che sia necessario ricorrere all’extratestualità: la biografia sarà scritta in terza persona e prevedibilmente (ma non necessariamente) si concluderà con la morte del biografato, mentre è difficile che l’autobiografia, tendenzialmente in prima

7 Anche tra i lejeuniani il riferimento privilegiato sembra essere quello alla segnalazione esplicita dell’autore

fuori dal testo: «Yes, we believe like Philippe Lejeune that the autobiographical “I”, however fugitive, partial, and unreliable, is indeed the privileged textual double of a real person, as well as a self-evident textual construct» (Bell e Yalom p.2).

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persona, abbia questo finale, il che fornisce un elemento inerente alla trama alquanto caratteristico (come avviene, tra l’altro, per commedia e tragedia).

Senza voler addentrarci ulteriormente nella discussione specifica dell’autobiografia, ci interessa far nostro, nello scandaglio delle patografie, da un lato l’approccio lejeuniano di profonda attenzione al testo, tentando di escludere i pregiudizi legati all’influenza del canone e allo scetticismo dell’autobiografismo inteso come natura stessa di qualsiasi espressione letteraria. Dall’altro, la perplessità e la cautela con cui parte della critica si accosta alle scritture dell’io suggeriscono sicuramente che della categoria del genere sia opportuno non abusare. Una precauzione, questa, che va tenuta particolarmente a mente nel momento in cui si tenta di conciliare la varietà dei testi patografici con le costanti che ne fanno un corpus codificato (o codificabile). Di fronte a dei nuclei tematici forti, in quanto determinano il contenuto della narrazione, si profila infatti la tentazione del grido al nuovo genere e della catalogazione zelante di più o meno improbabili sottogeneri, come abitualmente viene intesa la patografia in rapporto all’autobiografia (cfr. Smith e Watson; Couser Recovering). Del resto, si è visto quanto le narrazioni della malattia si prestino ad

essere raggruppate a seconda del tipo di esperienza che riportano. Eppure, individuare un genere sulla base di un elemento esclusivamente contenutistico, come fa Couser, appare forse una strada imboccata con eccessiva leggerezza:

Narratives of breast cancer constitute a distinctive, significant, and quite coherent new subgenre of American autobiography. […] Already the genre has its own history – from the diary of Alice James, which became a breast cancer narrative only incidentally, through the pathos of Isaac’s A

Breast for Life, to the politically aware, well-crafted, and innovative narratives of recent years. The nomination of Juliet Wittman’s Breast Cancer Journal for a National Book Award is a sign that the subgenre is coming of age and gaining recognition. (Couser Recovering pp.76-77)8

Un’altra inclinazione che si riscontra negli studi sulle narrazioni della malattia è quella ad appoggiarsi ai generi letterari affermati per vedere nella patografia una loro rivisitazione e, in qualche modo, più che una contrapposizione una continuità che contribuirebbe alla sua legittimazione. Si tratta di una via che il presente lavoro non esita a percorrere, se non altro per testarne la validità o appurarne i limiti insormontabili, collocandosi, al contempo,

8In Recovering Bodies l’importanza attribuita da Couser ai nuclei tematici lo porta a distinguere «narratives

of reaffiliation» (p.168), «counterconversion narratives» (p.162), «treatment narratives» (p.157), ma anche a chiamare in causa la categoria del genere per gli usi più disparati: «One subgenre of modern Western autobiography is the narrative of initiation into a profession […]» (p.24); «[…] the breast cancer narrative, as an autobiographical or autopathographical subgenre, developed in the 1970s and 1980s […]» (pp.38-39); «During the AIDS epidemic the gay death notice has developed into a distinctive genre» (p.90).

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sulla scia del dibattito intorno all’autobiografia che l’ha vista costantemente messa a confronto con modalità espressive e forme artistiche meno bistrattate. Il rischio di una simile procedura comparativa è tuttavia innegabile, dato che può portare a sovrapposizioni forzate e non sempre adeguatamente giustificate. Couser, ad esempio, propone un audace paragone tra le testimonianze degli schiavi neri che riuscirono a conquistare la libertà e le narrazioni delle sopravvissute al cancro al seno, ma è lui stesso a mettere in evidenza le divergenze che rendono il parallelismo non del tutto convincente (cfr.Recovering pp. 37- 38). Sempre Couser menziona insospettabili (improbabili?) suggestioni gotiche che un’altra studiosa ritiene attribuibili alle narrazioni dell’AIDS:

[…] Judith Williamson has suggested that HIV stories are inclined to fall back on the conventions of the Gothic and the sentimental – horror and melodrama: “Where the stress is on the activity of the viral monster, one might say that AIDS discourse is closest to Gothic horror, and when it is on the ‘passive’ (non-complaining) suffering of the ‘victims’ it moves over into Sentimentalism”. (Recovering p.92)

Hawkins indica invece la patografia come una versione aggiornata ai nostri tempi del romanzo d’avventura:

In some sense, the pathography is our modern adventure story. Life becomes filled with risk and danger as the ill person is transported out of the familiar everyday world into the realm of a body that no longer functions and an institution as bizarre as only a hospital can be; life in all its myriad dimensions is reduced to a series of battles against death; and there is the inescapable sense, both for the sick person and his or her family, of being suddenly plunged into “essential” experience – the deeper realities of life. (p.1)

Occorre considerare, tuttavia, che un intreccio primariamente concepito all’insegna dell’avventura avrà come scopo principale l’intrattenimento, mirerà ad appassionare, avvincere il lettore, e questo non risulta tra gli scopi essenziali che si prefigge la patografia. Parallelamente, Hawkins assegna un’altra ascendenza alle contemporanee narrazioni della malattia, ricollegandole, attraverso il ricorso ad esempi testuali, ai racconti di conversione della tradizione cristiana. La tesi sostenuta da Hawkins è che la patografia corrisponda all’autobiografia religiosa diffusa nei secoli scorsi e oggi semplicemente impraticabile per il venir meno delle chiavi di lettura spirituali con cui interpretare il mondo. Poiché questa ipotesi suscita interesse per più di un motivo, ci riserviamo di esaminarla con maggiore attenzione in un secondo momento.

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Nel documento Patografie: voci, corpi, trame (pagine 37-42)