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Opposizioni alle concezioni dominanti

Nel documento Patografie: voci, corpi, trame (pagine 90-99)

3. Tra scarti e modelli: trame e generi a confronto

3.5. Opposizioni alle concezioni dominanti

Evidentemente, il recupero e la rielaborazione di riferimenti al Cristianesimo non sono assimilati nella produzione patografica contemporanea senza contraddizioni e problematicità. Con il suo saggio Mes milles et une nuit (2017) Ruwen Ogien attira

19 Si noti che la traduzione italiana riduce il valore metanarrativo dell’opera di Guibert traducendo, nel finale, mise en abyme con «abisso»: «Il mio libro tocca il fondo e l'abisso si richiude su di me» (trad. it. p.205).

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l’attenzione proprio su queste implicazioni legate alle modalità attuali con cui si tende a venire a patti con la malattia. Ogien, al pari di altri studiosi e pensatori che hanno trattato l’argomento, può contare sull’autorità esperienziale. Infatti, è in quanto affetto dal cancro che nel suo scritto prende in considerazione principalmente questa patologia e abbraccia una posizione contraria alle condotte riconducibili al dolorismo:

Je défends […] un certain nombre d’arguments généraux, presque tous dirigés contre le

dolorisme, l’idée que la maladie physique ou mentale possède des vertus positives. Pour le doloriste, la maladie est un défie enrichissant, une épreuve qui donne au patient un avantage épistémique et moral sur les bien-portants. (Ogien p.12)

Il dolorismo, che esalta la sofferenza fisica perché portatrice di vantaggi morali, ha una storia fondamentalmente religiosa e un presente che travalica i confini della fede. Nella seconda accezione rientra una visione che mette in discussione l’ideologia dominante, la sua esaltazione della salute e del benessere materiale e la sua svalutazione del patire. Come osserva Ogien, non si fatica a identificare tracce di questo pensiero tra correnti filosofiche e letterarie per cui il malessere e l’isolamento apportati dalla malattia sono fonti di lucidità ed esercizio del pensiero. Riportando la propria esperienza, Ogien si dice insofferente verso un dolorismo dai molteplici volti (come quello della resilienza, a cui si viene invitati da più parti) poiché contribuirebbe a marginalizzare pazienti che non hanno né la forza né le risorse per considerare sotto una luce favorevole la propria situazione. I più deboli, inoltre, sarebbero così spinti ad accettare la loro condizione passivamente, come se fosse tutto ciò a cui poter aspirare. Raccontando, e quindi inserendo significative porzioni narrative all’interno del saggio, il momento in cui gli è stata comunicata la diagnosi, Ogien mette in evidenza due aspetti che caratterizzano anche le patografie: l’ambiguità dei sentimenti associati alla malattia, come si è già avuto modo di rilevare, e la tendenza ai grandi interrogativi, che, contrariamente a quanto spesso viene suggerito, non è un’abitudine di chi si trova in terapia.

Certains penseurs prétendent tout savoir de la condition humaine sans avoir jamais ressenti le besoin de vérifier empiriquement leurs considérations.

Ainsi, ils voudraient nous faire croire, sans avoir enquêté systématiquement, que les malades en traitement perpétuel hors de l’hôpital se posent en permanence des questions existentielles. […] De nombreux témoignages, auxquels je pourrais ajouter le mien, montrent pourtant que les préoccupations quotidiennes des malades sont, la plupart du temps, infiniment plus terre à terre. (Ogien pp.223-224)

Le considerazioni di Ogien mettono a nudo uno scarto che distanzia teoria (quale quella rappresentata dagli studi critici che affrontano le patografie), narrativizzazione ed evento reale, segnalando il divario tra l’esperienza e la sua percezione. Al contempo, Ogien

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propende per una trama della malattia che non corrisponde alla ricerca, al perseguimento di una conquista da parte del malato per mezzo della sua condizione solo apparentemente svantaggiosa. Lo spirito che anima una storia di malattia può, cioè, non mantenersi nitido per tutto il suo corso, come invece pretendono le generalizzazioni dei modelli. La malattia, con la sua evoluzione incostante e imprevedibile, può dettare gli stati d’animo e l’andamento della trama che si intende sovrapporle. Il racconto di Ogien si appella infatti all’incoerenza, alla giustapposizione di stati e scene: «On pense faire preuve de stoïcisme ou de sang-froid parce que ce sont des attitudes valorisées dans nos sociétés, alors qu’on court, dans nos esprits, d’un affect à l’autre sans véritable cohérence: stupeur et colère, sidération et révolte, rage et acceptation, etc.» (p.89). Non solo si è soggetti a una instabilità emotiva poco incline a suscitare ammirazione, ma il superamento delle avversità quotidiane che il malato deve fronteggiare risulta la sua preoccupazione primaria, il movente decisivo e pressoché spontaneo dietro a una elementare tendenza alla sopravvivenza. Nulla, in fin dei conti, di straordinario o che permetta all’individuo di elevarsi sopra i suoi simili, ma anzi una propensione alla forma basilare del suo essere. Questo, perlomeno, secondo quanto esprime la voce narrante, colpita da un tumore incurabile, de La vie sauve (2006) di Lydie Violet e Marie Desplechin:

La douleur est toujours là, je la sens bouger jour et nuit. Mais elle n’est plus en première ligne. En première ligne, j’ai mes emmerdes. Si bien que je ne vois pas de courage dans le fait de se relever. Une faculté à l’adaptation, plutôt. Une force de l’espèce. Une inscription dans le génome, un patrimoine partagé avec les mouches et les termites. Pas de quoi se vanter. (Violet e Desplechin p.110)

La stessa protagonista di questo memoir subordina la speranza in una salvezza dai tratti religiosi alle proprie condizioni fisiche e alle loro oscillazioni, relegando pertanto eventuali cornici di stabili significati spirituali in una dimensione di contingenza soverchiante:

Ma croyance dépend beaucoup de mon état physique. Selon ma forme, bonne ou petite, je balance entre le totalement matérialiste et le vaguement idéaliste. La bonne forme me fait rêver au paradis, la petite forme m’en éloigne. C’est que je ne crois pas pour retrouver l’espoir. Ce serait plutôt le retour de l’espoir qui me pousserait à croire. Dès que je retombe, je ne crois plus en rien. (Violet e Desplechin p.98)

Un simile approccio alla malattia appare in linea con quello di Ogien, che non a caso inserisce il testo di Violet e Desplechin tra le opere letterarie che incontrano il suo favore perché prive di pathos e autocompiacimento (cfr. Ogien p.62). Inoltre, tali narrazioni si rifanno a una dinamica delle emozioni in cui i sentimenti appaiono confusi e ‘misti’, che Ogien mette a fuoco problematizzando lo scenario interiore associato generalmente alle

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storie di malattia. Il rapporto con la patologia, nonché la sua interpretazione, risulta pertanto ambiguo e incostante. La stessa progressività di uno schema narrativo che riporta un miglioramento orientato verso la guarigione oppure un peggioramento che si intensifica fino alla morte, si rivela non conforme all’effettivo svolgimento degli eventi:

J’ai mis du temps à comprendre que ma maladie n’évoluerait pas de façon linéaire, c’est-à-dire que je n’irais pas de mieux en mieux jusqu’à la guérison finale ou de plus en plus mal jusqu’à la phase terminale.

Je sais maintenant que je passerai de l’euphorie à la déprime, de l’optimisme le plus irrationnel au pessimisme le plus aveugle, du sentiment plutôt plaisant d’aller mieux à la reconnaissance pénible du fait qu’en réalité je vais plus mal, et ainsi de suite, dans une série interminable de hauts et de bas. (Ogien p.233)

Quello che Ogien denuncia nel dolorismo è la sua presunzione di farsi essenza dell’esperienza di malattia, con una pretesa tanto descrittiva quanto normativa (cfr. p.226). La posizione del filosofo francese è accostabile a quella di Galen Strawson, che in un articolo polemico dal titolo “Against Narrativity” si scaglia contro una visione, divenuta egemone, della narrazione come unica costruzione di significato vera e auspicabile per la vita umana. Ora, Ogien è decisamente più pacato nell’esporre le sue ragioni, ma esibendo il percorso accidentato inaugurato da una diagnosi e asserendo che nessun senso è attribuibile alla sofferenza del corpo, mette in discussione, impiegando il filtro della malattia, strutture di significato arbitrariamente imposte su esistenze differenti. Strawson esprime una posizione analoga, adottando toni più decisi e procedendo per contrasti netti in riferimento all’intero arco di vita di un individuo.

Nello specifico, Strawson diverge da una concezione della narratività che da descrittiva si fa normativa: in tempi recenti, infatti, psicologi, medici, antropologi e letterati sembrerebbero concordare non solo sul fatto che l’identità di un individuo si costruisce e definisce sulla base della storia con cui egli stesso interpreta la propria vita (vale a dire stabilendo connessioni temporali, conferendo coerenza e unità agli eventi e alle scelte che la caratterizzano); ma anche sull’indispensabilità di una simile griglia narrativa, da sovrapporre a quanto si vive e si è, per il corretto sviluppo della persona. Strawson fa notare che la narrazione non è l’unico valido strumento attraverso cui gli esseri umani possono collocarsi nel tempo, tanto più che in molti ne fanno a meno, senza che la loro vita ne risulti diminuita. Escludere queste esperienze, pertanto, impoverisce la comprensione di come avvenga il pensiero di sé, limita la riflessione etica e rischia di affliggere chi non vive secondo il modello narrativo, con esiti anche gravi in contesti psicoterapeutici (cfr. Strawson p.429). Al fine di illustrare cosa intende distinguendo tra due paradigmi, Strawson

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introduce il confronto tra una concezione diacronica ed episodica, strettamente legata, ma non intercambiabile, con la contrapposizione tra narratività e non-narratività. Diacronico è il pensiero che percepisce una continuità, in un ampio arco di tempo che può abbracciare l’intera vita, tra ciò che si era, ciò che si è e ciò che si sarà. Si è invece «episodici» quando non si avverte questo legame costante e si è connessi principalmente con il proprio presente, fermo restando che entrambi gli stati – diacronico ed episodico – possono contaminarsi l’uno con l’altro (cfr. Strawson p.430). Tra i nomi forniti, a titolo esemplificativo, in riferimento a questa distinzione, alcuni permettono di coglierla intuitivamente, soprattutto se messi in relazione con la scrittura autobiografica: nelle Confessioni, Agostino dà prova di una marcata unitarietà narrativa, mentre Montaigne e Virginia Woolf, con la loro inclinazione al frammento, rientrano nell’episodicità (cfr. Strawson p.432). Anche Ogien, per quel che concerne la modalità prescelta per il suo racconto della malattia, rientra nella seconda categoria, ispirandosi al cinema e in particolare alla tecnica narrativa esibita da Akira Kurosawa in Rashomon: «Elle consiste à juxtaposer plusieurs versions d’un même événement selon ses dimensions objectives ou subjectives, selon le point de vue de différents témoins, ou selon le regard qu’on porte sur lui à différents moments du temps» (Ogien p.23). Il punto di vista si scompone, si decentra e non ci si rapporta alla temporalità prediligendo la continuità. Questo non indica, tuttavia, che non si abbia alcuna attinenza con il passato; semmai, non gli si attribuisce quel significato che Strawson associa alla narratività:

[…] one can be Diachronic without actively conceiving of one’s life, consciously or unconsciously, as some sort of ethical-historical-characterological developmental unity, or in terms of a story, a Bildung or ‘quest’. One can be Diachronic without one’s sense of who or what one is having any significant sort of narrative structure. And one can be Diachronic without one’s apprehension of oneself as something that persists in time having any great importance for one. (Strawson p.441)

Strawson aggiunge che è possibile condurre vite più che soddisfacenti e moralmente ricche anche senza alcuna specifica riflessione in senso narrativo: «Granted that certain sorts of self-understanding are necessary for a good human life, they need involve nothing more than form-finding, which can exist in the absence of Narrativity; and they may be osmotic, systemic, not staged in consciousness» (p.448).

Tramite la sua posizione controcorrente, Strawson spinge a riconoscere la costruzione narrativa come non l’unica forma degna di essere adottata qualora si intenda conferire alla propria vita un disegno onnicomprensivo. Un atto, quest’ultimo, che per giunta non viene

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intrapreso da ogni individuo, ma risulta congeniale ad alcuni senza essere praticato da altri, i quali non per questo sono persone incomplete o deficitarie. Una simile prospettiva è in linea con un maggior riconoscimento dell’eterogeneità delle modalità di rappresentazione e racconto di sé, nonché dell’equa dignità e vantaggiosità, per il singolo, della scelta compiuta in questo senso.20

L’attacco di Strawson riesce a far vacillare convinzioni date per assodate, fungendo anche da monito per gli studiosi di medical humanities che tendono a basarsi su un’idea normativa della narrazione.21 Tuttavia, quando stabilisce che la concezione unitaria, segnata da uno sviluppo progressivamente positivo, a cui molti individui associano la propria vita, si deve all’appartenenza religiosa di queste persone, non pare del tutto persuasivo.22 Il paradigma dolorista, per esempio, che si traduce in una struttura narrativa orientata verso la crescita morale apportata dalla sofferenza, e che favorisce un disegno coeso della propria esistenza, è assai diffuso anche tra coloro che si professano atei. Le patografie sono una dimostrazione lampante della pervasività di una concezione che è sì di origine religiosa, ma che continua ad echeggiare come residuo più ampiamente culturale.

Ancor prima che negli autori malati che adottano palesemente la prospettiva dolorista, è in coloro che la rigettano esplicitamente che la sua influenza è rintracciabile, poiché dissociandosene apertamente non si fa che confermarne la persistenza e la validità. Annie Ernaux, che con il compagno dell’epoca, Marc Marie, scrive L’usage de la photo (2005), in cui parallelamente alla relazione sentimentale l’autrice rende nota la sua terapia per un cancro al seno, adotta un’attitudine irriverente, che sfida le comuni aspettative verso lo stile di vita di una persona colpita da tumore: «Cela [mon corps malade] ne nous empêchait pas de faire l'amour. Il déclarait: «Tu n'es pas une cancéreuse sérieuse.» Si je me réfère à la

20 Strawson, al pari di Couser e Sontag, con la quale condivide la vena polemica, attira l’attenzione su modelli

alternativi a quelli più popolari, rivelando panorami più vari di quanto gli approcci dominanti suggeriscano. Eppure tutti e tre non possono fare a meno di conferire un valore positivo, in senso assoluto, alla propria proposta, che finisce col costeggiare la normatività biasimata nel paradigma osteggiato: «My own conviction is that the best lives almost never involve this kind of self-telling, and that we have here yet another deep divider of the human race» (Strawson p.437; il corsivo è nostro). Così Couser sostiene che le storie di tumore al seno dovrebbero essere scritte con un finale aperto poiché questa scelta apparirebbe «[…] more appropriate – healthier in every sense – in narratives of an illness like breast cancer» (Recovering p.41; l’enfasi è nostra). Echeggia, nella posizione di Couser, la sicurezza con cui Sontag asseriva che considerare la malattia dissociata da qualsiasi metafora fosse il modo più sano di essere malati (cfr. Sontag Illness p.3).

21 Angela Woods applica la riflessione di Strawson proprio all’ambito delle medical humanities nel suo

articolo “The Limits of Narrative: Provocations for the Medical Humanities”.

22 A questa matrice religiosa Strawson ricollega, in maniera discutibile, anche il narcisismo insito in questa

visione adottata da più individui: «Many of them, connectedly, have religious commitments. They are wrapped up in forms of religious belief that are – like almost all religious belief – really all about self» (pp.436-437). In nota Strawson dichiara: «Religious belief is one of the fundamental vehicles of human narcissism» (p.437).

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prière des vieux missels, Sur le bon usage des maladies, le mien, d'usage, m'apparaît le meilleur que j'aie pu donner au cancer» (Ernaux e Marie p.110). Riferendosi alla Prière

pour demander à Dieu le bon usage des maladies di Blaise Pascal, Ernaux descrive, per contrasto, la sua scelta di non indugiare nella mortificazione della carne nella circostanza della malattia, al fine di elevarsi verso Dio; al contrario, esalta il godimento che può ancora trarre dal proprio corpo, nonché da una vita primariamente intesa nella sua materialità.23 È facile intendere in questo senso, ovvero come una celebrazione della fisicità e tangibilità dell’esistenza, anche il doppio rimando del termine usage («uso»): della malattia, non in linea con l’immaginario collettivo, e della fotografia, che dà il titolo all’opera e che vede i due autori immortalare tracce materiali dei loro amplessi (dai vestiti abbandonati, ai fogli di carta sparsi sul pavimento). L’atipicità della narrazione di Ernaux si fonda anche, pertanto, sulla sua dichiarata distanza dal riferimento religioso, che pure viene menzionato segnalandone la permanenza.

Vi è poi il caso di Guibert, estraneo a qualsiasi fede, eppure aderente non solo al modello identitario di stampo narrativo contrastato da Strawson, ma pure al dolorismo discusso da Ogien. Una perfetta dimostrazione, insomma, della varietà di influssi e connotazioni ascrivibili a una singola esperienza di malattia, che tuttavia, nelle opere che Guibert ha dedicato all’Aids, rimandano a un certo modo di intendere la propria condizione. Mentre

À l’ami e Le protocole compassionnel (1991) sono facilmente identificabili come patografie, L’homme au chapeau rouge, uscito postumo nel 1992, è una marcata

autofiction, in cui l’autore si mette al centro di un intreccio dal sapore noir che non trova riscontri nella biografia di Guibert. Quest’opera fa parte dei tentativi di allontanarsi dalla materia narrativa dell’Aids, diventata predominante, per pervenire a una scrittura che recasse, almeno sulla carta, una liberazione dalla malattia. Eppure, questa operazione fallisce nel momento in cui Guibert inserisce svariate sezioni che hanno per oggetto la sua esperienza con l’Aids. La riflessione sulla sofferenza appartiene a questo filone de

L’homme au chapeau rouge: «Ce n’était pas par masochisme, mais cette douleur me donnait une force extraordinaire, elle faisait de moi un colosse, un géant, non pas dans mon endurance à la supporter, mais parce qu’elle était devenue un instrument de connaissance de moi-même qui me grandissait dans chacune de mes pensées» (p.41). Come nota Vincent

23 Nella preghiera di Pascal si legge invece: «Vous m’aviez donné la santé pour vous servir; et j’en ai fait un

usage tout profane. Vous m’envoyez maintenant la maladie pour me corriger […]. Si j’ai eu le cœur plein de l’affection du monde, pendant qu’il a eu quelque vigueur, anéantissez cette vigueur pour mon salut, et rendez- moi incapable de jouir du monde, soit par faiblesse de corps, soit par zèle de charité, pour ne jouir que de vous seul» (Pascal p.306).

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Kaufmann nel suo saggio Ménage à trois. Littérature, médecine, religion (2007), siamo di fronte a un chiaro esempio di attitudine dolorista, sintetizzabile nella formula «je souffre donc je sais (mieux) qui je suis». D’altronde, già in À l’ami, Guibert scriveva parole ambigue riferite alla patologia che lo accomunava a tanti altri giovani uomini: «[...] je tirais une sorte de jubilation de la souffrance et de la dureté de notre expérience» (p.149). Le

protocole compassionnel, invece, si distingue per l’immagine ricorrente della rinascita, che si deve al farmaco che Guibert inizia ad assumere traendone giovamento, ovvero beneficiando di alcune tregue dalla malattia:

Mon corps n’était plus un éléphant ligoté avec des trompes d’acier à la place des membres, ni une baleine échouée et saignée à blanc. J’étais de nouveau vivant» (p.64); «Me lèverai-je de mon cercueil comme je me lève de mon lit, en m’agrippant aux bords ou en me laissant tomber, maintenant que, grâce au DDI du danseur mort, je crois au mythe de la renaissance? (p.143)24

L’intero sforzo autobiografico compiuto da Guibert in concomitanza con la sua malattia coincide con un’esposizione del corpo sofferente che assume un particolare significato. In

Le protocole compassionnel questo si manifesta in maniera accentuata:

C'est mon âme que je dissèque à chaque nouveau jour de labeur qui m'est offert par le DDI du danseur mort. Sur elle je fais toute sorte d'examens, des clichés en coupe, des investigations par résonance magnétique, des endoscopies, des radiographies et des scanners dont je vous livre les clichés, afin que vous les déchiffriez sur la plaque lumineuse de votre sensibilité. (p.94)

Nel documento Patografie: voci, corpi, trame (pagine 90-99)