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L’avventura del narrabile

Nel documento Patografie: voci, corpi, trame (pagine 56-61)

3. Tra scarti e modelli: trame e generi a confronto

3.1. L’avventura del narrabile

Quando ci si appoggia a generi letterari consolidati nel tentativo di identificarne di nuovi, è evidente che si è in cerca di una legittimazione che non ha ancora del tutto avuto luogo per le scritture in fase di definizione. Dare priorità all’intento di catalogazione rischia di risultare fortemente limitante; al contempo, sondare i confini tra generi, la porosità delle pareti divisorie o la rigidità degli steccati può offrire scorci inediti su parentele insospettabili e far risaltare ulteriormente l’originalità di ciascuna singola narrazione. Non è un caso, pertanto, che le classificazioni a cui sono soggette librerie, cataloghi editoriali e biblioteche costituiscano la cartina di tornasole della più ampia percezione delle diverse forme narrative a ridosso dell’autobiografia. In relazione a quest’ultima, Franco D’Intino osservava in L’autobiografia moderna (1998) l’assenza di una collocazione apposita nelle librerie e di una dispersione tra denominazioni di vario tipo, quali biografie, romanzi e racconti di viaggio: «Si assiste, negli ultimi anni, a un ritorno della confusione tra biografia e autobiografia, con un fiorire di forme miste con etichette nuove, ma anche antiche, e ambigue: testimonianze, récits de vie, descrizioni» (p.20). In Teoria del romanzo (2001), Guido Mazzoni rileva, ad anni di distanza dal lavoro di D’Intino, un’analoga mescolanza, da cui non si ricava necessariamente una impressione negativa:

[…] i romanzi, le autobiografie scritte per scopi artistici, i racconti vengono inseriti nella medesima collana, quasi fossero sottospecie di una specie più ampia. Questo significa che la nostra cultura concepisce ogni testo narrativo scritto con intenti estetici come parte di un’unica famiglia all’interno della quale le differenze pesano meno delle somiglianze. (pp.29-30)

È infatti all’insegna della continuità l’approccio con cui si intende indagare la patografia in questo capitolo, prendendo le mosse da quella confusione che anche la scrittrice statunitense Nancy Mairs riscontra nel modo in cui venivano classificate le sue opere personali sulla malattia (cfr. Couser Recovering pp.x-xi).1 Immaginando una collocazione, nonché una definizione della patografia, Anne Hunsaker Hawkins e Nancy Mairs fanno, in testi differenti, paragoni simili con due materie narrative dalla lunga tradizione: mentre la prima ritiene che «in some sense, the pathography is our modern adventure story»

1 In questo caso la confusione ha a che fare con la separazione, tipica del mondo anglosassone, tra fiction, in

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(Hawkins p.1), la seconda evoca gli scritti, lettere e diari, dei primi esploratori come corrispettivo antecedente, dato che «the terrain is similarly unknown and fraught with peril» (Couser Recovering p.xi). Queste suggestioni si basano sul contenuto dei tipi di narrativa messi a confronto, senza che vengano fornite ulteriori giustificazioni al parallelismo, che pure, di primo acchito, non risulta del tutto fuorviante. Pertanto, sondare il fondale da cui sarebbero emersi i racconti di malattia potrebbe conferire maggiore sostanza a quella che si presenta come una intuizione affascinante.

Sia l’ipotesi di Mairs sia quella di Hawkins sottintendono l’idea di avventura, ma nessuna delle due autrici si riferisce esplicitamente al romanzo, anche se il vago story impiegato da Hawkins farebbe pensare proprio a questo genere letterario, identificato da Michail Bachtin in Estetica e romanzo come una forma anarchica, proteiforme, che assorbe e contiene gli altri generi. Come sintetizza Mazzoni, la cui periodizzazione relativa al romanzo è compresa tra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio dell’Ottocento, «[…] a partire da una certa data, il romanzo diventa il genere in cui si può raccontare qualsiasi storia in qualsiasi modo» (p.29). Ripercorrerne la storia equivale a prendere atto del variegato corpus di forme testuali narrative che come affluenti hanno a lungo alimentato il grande fiume romanzesco fino alla sua stabilizzazione come novel. Spiccano, accanto alle composizioni greche, cortesi e pastorali, alle novelle e alle opere epistolari di carattere amoroso, alcune «scritture dell’esperienza personale» (Mazzoni p.84), come, tra la seconda metà del Cinquecento e il Settecento, biografie e autobiografie laiche di artisti, studiosi e scrittori che diventano oltremodo diffuse. Mazzoni, inoltre, segnala l’importanza della lettera, rilevante non solo per il suo contributo alla struttura del fortunato romanzo epistolare a tema amoroso, ma anche per la sua funzione nei resoconti di viaggi, immaginari, verosimili o reali. Legato o meno all’espediente epistolare, il racconto di viaggio si configura ugualmente quale forma autonoma:

Intermedio fra la scrittura d’esperienza e la pura invenzione, il racconto di viaggio conosce una fortuna costante nel Medioevo e nella prima età moderna. Mentre certe narrazioni si presentano come resoconti di esperienze reali, altre si presentano come opere fantastiche o utopiche, ma qualunque sia il suo statuto di realtà, questa forma influenza alcune delle opere entrate nel canone del romanzo europeo, dal Robinson Crusoe (1719) di Defoe ai Viaggi di Gulliver (1726-35) di Swift. (Mazzoni p.86)

Un’influenza, quella degli intrecci di viaggio, che giungerebbe fino ai giorni nostri, costituendo il trait d’union evocato da Mairs tra l’ultramoderna patografia e lo sguardo straniato su un paesaggio inedito, restituito sotto forma di lettera e diario. Tuttavia, non si tratta semplicemente dell’unione di una modalità espressiva associata all’esperienza

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personale (il diario, la lettera, l’autobiografia) con un contenuto marcato dal pericolo e dall’ignoto a cui rimanda il viaggio. Non si tratta insomma di ricorrere unicamente alla metafora, resa celebre da Susan Sontag, della malattia come approdo in una terra ostile (cfr.

Illness as Metaphor p.3). In gioco c’è in realtà qualcosa di più, che coinvolge il concetto stesso di narratività e la struttura delle trame. La pertinenza del paragone, infatti, risiede verosimilmente in questi aspetti più sottili, meno immediati. D’altronde, se ci si attiene ai tratti più evidenti del racconto di viaggio, si constata facilmente che la patografia, le cui ambientazioni sono tendenzialmente limitate a luoghi domestici o legati alla cura, differisca nettamente. Come ricorda D’Intino: «Nel racconto di viaggio la contiguità di luogo è il principio di connessione, la digressione descrittiva è la regola» (p.166). Il testo autobiografico si avvicina a questo tipo di narrazione quando è organizzato sulla base delle città e dei paesi in cui ci si reca per compiere le proprie gesta, come avviene per Casanova: «Qui la memoria autobiografica adotta spontaneamente l’odine e i ritmi di un romanzo di avventure» (D’Intino p.166).

Ma di una simile mobilità la patografia difficilmente dà prova, il che rende Un altro giro

di giostra (2004) di Tiziano Terzani una vistosa eccezione, dal momento che l’autore intraprende un viaggio letterale (tra Stati Uniti e Paesi asiatici) alla scoperta dei diversi trattamenti esistenti per la cura del cancro. D’altronde, avendo passato decenni ad esplorare il mondo come giornalista, Terzani non può che reagire alla malattia rimettendosi in marcia. In questo modo, metaforizzazione e concretezza dell’esperienza coincidono (come si intuisce pure dal sottotitolo dell’opera: Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo): «Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso» (Terzani p.14). Anche i titoli dei capitoli in cui Un altro giro di giostra è suddiviso ricalcano la dimensione ‘itinerante’ del testo, il quale incomincia con “Partenza” e si chiude con “Arrivo”, dopo essersi sviluppato in sezioni che portano il nome dei luoghi geografici visitati.

Di norma, però, la patografia non si costruisce attorno alle audaci peregrinazioni di cui si rende protagonista Terzani. Di conseguenza, la presunta avventurosità che farebbe della storia di malattia il racconto di viaggio del tardo XX secolo necessita di un approfondimento, che si realizza compiendo nuovamente un passo indietro verso il

romance, quando, cioè, il romanzo era ancora lontano dall’essere identificato con il novel ed era rappresentato, accanto ad altre forme testuali, dalla narrativa cavalleresca

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rinascimentale e medievale. Questo corpus si caratterizza per la predominanza di quello che Bachtin chiama «il tempo dell’avventura». Lo contraddistinguono, inoltre, stati d’eccezione, scenari inusuali, fatti imprevisti che avvengono in tempi e luoghi indefiniti interrompendo l’ordinario corso degli eventi, senza però cambiare l’interiorità dei personaggi, la cui età e identità non subiscono mutamenti. L’inconsueto, insieme a una certa staticità, sono i connotati che il romance attribuisce all’avventura, alla quale, a questa altezza temporale, va aggiunta un’altra specificità semantica:

Il mezzo della prova e dell’affermazione è l’«avanture», una forma particolare e strana dell’accadere, sviluppata dalla civiltà cortese. A dir vero già molto tempo prima esistevano descrizioni fantasiose delle meraviglie e dei pericoli che attendono chi si spinge oltre i confini del mondo conosciuto, in paesi lontani, inesplorati – e racconti non meno fantasiosi dei pericoli misteriosi che anche nel mondo geografico conosciuto minacciano l’uomo per opera di divinità, spiriti, demoni e altre forze magiche. E già molto prima della civiltà cortese esisteva anche l’eroe impavido, che con la forza, la virtù, l’astuzia e l’aiuto divino supera tali pericoli e ne libera gli altri. Ma è creazione ex novo del romanzo cortese il fatto che tutto un ceto, in piena fioritura contemporanea consideri suo compito esclusivo superare pericoli del genere. (Auerbach p.148)

Se il significato dell’avventura risulta circoscritto dalla civiltà cortese, è anche vero, come osserva Erich Auerbach, che gli ostacoli dell’esplorazione hanno popolato l’immaginario dell’uomo da tempi ben più antichi. Il valore pressoché archetipale di questo nucleo narrativo viene messo in luce da Hawkins nella sua disanima di patografie, sottolineando quanto il costrutto del viaggio e della battaglia, radicati nelle mitologie, nei testi sacri ed epici, siano individuabili anche nelle narrazioni più recenti intorno all’esperienza di malattia. Occorre inoltre rilevare che l’interpretazione cortese dell’avventura verte sulla prova individuale che spetta al cavaliere e ne permette l’affermazione:

[…] non ci si deve lasciar indurre dal significato moderno della parola avventura [..] perché nel romanzo cortese non s’intende per avventura ciò che è sciolto, periferico, privo d’ordine o, come lo definì una volta Simmel, ciò che sta al di fuori dell’esistenza vera e propria, e che oggi si ricollega alla parola avventura; invece il vero significato della vita ideale cavalleresca è proprio l’affermarsi per mezzo dell’avventura. (Auerbach p.149)

Certo, in questo caso si è lontani da una rappresentazione realistica, che tenga conto della funzione e del ruolo storici dei cavalieri, per altro unica categoria sociale a cui la nozione di avventura qui si rivolge. Eppure, l’idea che questa equivalga a una prova da superare e che valorizzi chi ne è protagonista, lo renda eroe, si ritrova in una delle forme caratteristiche delle narrazioni di malattia individuate da Arthur Frank: «Quest stories meet

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suffering head on; they accept illness and seek to use it. Illness is the occasion of a journey that becomes a quest» (Frank p.115).

Quanto esposto finora lascia intendere che la malattia, nella sua concettualizzazione narrativa, si presti effettivamente a divenire l’avventura contemporanea. Ma affinché ciò avvenga bisogna attendere che il romance venga superato dal novel, ovvero che diventi degna di interesse, di racconto esteso, quella dimensione quotidiana della vita che apparentemente non ha nulla di eroico e avventuroso. L’avvento del romanzo nella sua conformazione che oggi reputiamo tradizionale porta infatti in primo piano individui di qualsiasi estrazione sociale, le cui vicende di ogni genere vengono narrate con i toni e le sfumature più varie. In questo modo, però, esso sancisce anche una dispersione del concetto di avventura, facendo sì che ogni accadimento sia, perché o purché raccontato, un evento: «Raccontare vuol dire selezionare, stabilire delle gerarchie e dei nessi fra contenuti narrativi, cercando di ottenere qualcosa di interessante e coeso, qualcosa che il pubblico abbia voglia di leggere, ascoltare, vedere. Gli anglofoni parlano di eventfulness, con un termine quasi intraducibile, che potremmo rendere con “avventurosità”» (Giovannetti p.105). Circa l’evoluzione di questo concetto risultano particolarmente significative le opere di Jane Austen, fautrice di quello che Mazzoni chiama il «romanzo di destino», in cui una circostanza determina l’esito di una vita in un contesto sempre più estraneo alle cornici di significato religiose:

Austen scopre un aspetto decisivo della forma di vita moderna: scopre che le nostre vite acquistano interesse ogni volta che il desiderio si confronta con la realtà e il risultato dello scontro sancisce il nostro destino, la nostra felicità o infelicità; scopre che questo conflitto ha un valore assoluto, perché la ricerca della felicità privata […] è l’unico dio condiviso e ancora vivo, l’unica cosa che conta davvero per gli individui moderni. […] Il romanzo di destino ha un archetipo cristiano (l’autobiografia spirituale), e tuttavia si situa ormai in un orizzonte laico e terreno: non si tratta più di salvare l’anima; si tratta di essere felici in questo mondo. (Mazzoni p.286)

Il restringimento del campo d’azione alla sfera privata e terrena, la posta in gioco che coincide con il destino del singolo, l’evento che, semplicemente perché in conflitto o in consonanza con il desiderio personale, genera la discontinuità narrabile: ci troviamo di fronte ai principi attorno cui prende progressivamente forma l’intreccio del racconto di malattia. In realtà, man mano che si ampia il bacino di temi cui attingere per farne il soggetto di una storia, vengono meno restrizioni e distinzioni e l’atto narrativo stesso giunge a fungere da garante della dignità e fruibilità di ciò che si racconta. In breve, se la malattia non è l’avventura, l’esperienza affermatasi sul finire del Novecento, è certamente

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«Affinché l’avvenimento più banale divenga un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo» (Sartre citato in Mazzoni p.61). Questo paradigma, che si afferma progressivamente con il novel, viene espresso dal progetto di rappresentazione della totalità incarnato dagli imponenti cicli romanzeschi dell’Ottocento e viene perseguito poi nel Novecento con l’insistenza sulle sfaccettature della vita interiore e della minuta quotidianità, in cui rientrano anche le vicende del corpo:

Un semplice elenco delle discontinuità che gli imitatori estraggono dal flusso di fenomeni reali o fantastici dice moltissimo su un periodo storico: mostra quali parti della vita collettiva e personale siano giudicate degne di un investimento emotivo; indica le esperienze, i desideri, i modi di vita cui viene attribuito un interesse. (Mazzoni p.53)

In questo senso, le patografie rivelano parecchio dell’epoca in cui vedono la luce, configurandosi come artefatti testuali in cui viene resa pubblica una esperienza personale che la costruzione narrativa valorizza, rende comprensibile e comunicabile. In questi testi la mimesi cristallizza e mette a disposizione della memoria collettiva quella dimensione del reale costituita dalla malattia intimamente vissuta. Un atto la cui ragione d’essere è insita nel filtro attraverso il quale la contemporaneità interpreta specifici eventi della vita e li reputa idonei al racconto (di per sé una interpretazione) letterario: «When illness and disability are seen not so much as inevitable natural phenomena but as unexpected and perhaps disastrous events, they become noteworthy and (potentially) narratable» (Couser

Recovering p.9). Tale è l’ampliamento e insieme il restringimento (che coincide con l’ottica individualista) dello spettro mimetico che ha percorso i secoli e che ha visto trame, come quelle incentrate sulla malattia, assurgere al corrispettivo aggiornato della storia di avventura.

Nel documento Patografie: voci, corpi, trame (pagine 56-61)