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Testimonianza, verità e soggettività

Nel documento Patografie: voci, corpi, trame (pagine 42-48)

2. Presupposti di una narrativa testimoniale

2.3. Testimonianza, verità e soggettività

Per proseguire, complicandolo, questo confronto incrociato, è necessario tornare su uno dei capisaldi della teorizzazione relativa alla scrittura autobiografica, ovvero il rilevamento della misura in cui verità e finzione sono presenti nel racconto e agiscono in esso. Interrogarsi nuovamente su tale aspetto è funzionale, più che a una ricostruzione storica dei fatti narrati, all’identificazione della forma espressiva di nostro interesse, alla sua definizione e insieme all’individuazione del tipo di ricezione, che proprio intorno a concetti quali autenticità e autorevolezza viene plasmata. Sulla verità di una narrazione, insomma, si costruisce un genere, inteso come una serie di convenzioni mutualmente condivise da autore e lettore. Vedremo ora quale significato assume questa constatazione per la patografia.

La patografia presuppone, da parte del lettore, un’attitudine pari a quella da riservare a un racconto di natura testimoniale.9 Se, come insegna Lejeune, l’autobiografia è tanto una modalità di lettura quanto una forma di scrittura, questo vale certamente anche per le narrazioni di nostro interesse: «Considering life-writing as narrative self-creations bent toward poetic unity that are experienced by the writer as personal discovery and cultural declaration alters how readers might receive such texts» (Charon p.77). Quando si parla di narrativa testimoniale, come fa Hawkins individuando patografie che si distinguono per questa intenzione in maniera visibilmente accentuata, il riferimento non è unicamente alla postura specifica assunta dal lettore nei confronti del racconto. Colui a cui ci si rivolge è chiamato a «testimoniare», cioè a convalidare tramite la sua partecipazione empatica l’autenticità del racconto; al contempo, chi scrive del proprio vissuto lo fa con l’autorità del protagonista di quei fatti, cioè del testimone primario:

Nella scrittura delle testimonianze, i testi che nel tempo sono divenuti classici non poggiano sul genio individuale ma sulla posizione abissale del narratore, capace di restituirci, proprio in quanto testimone, un racconto irripetibile di ciò che ha visto. Una posizione non sostituibile da altri, che nel farsi scrittura – dunque nel rendersi leggibile, comunicabile – ci conduce a sporgerci su ciò che per definizione possiamo chiamare architettura dell'abisso. (Padoan p.1)

9 Frank attribuisce il carattere testimoniale alle storie in sé e ne rileva uno peculiare nelle narrazioni di malattia

(cfr. p.18). Per Charon è fondamentale il ruolo dell’ascolto e della lettura, fondati entrambi sull’esercizio di una profonda e rispettosa attenzione, con cui la studiosa concepisce la sua teoria e pratica della medicina narrativa, come è ribadito, per altro, dal sottotitolo Honoring the Stories of Illness del suo volume del 2006.

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In breve, i testimoni sono due e reciprocamente influenzati da questo ruolo, che per l’autore è legato all’adesione a quanto ha vissuto, mentre per il lettore al rispetto e all’empatia verso il racconto di un’esperienza che si vuole consegnare. Da una simile dinamica emerge una concezione di genere letterario con una spiccata funzione di orientamento dell’atto di lettura, che mira a suscitare in chi si confronta col testo determinate aspettative e reazioni. Nel caso della patografia, che partecipa dei meccanismi propri della scrittura del sé, è prevista una voce narrante della cui autenticità non si deve aver motivo di dubitare, in primo luogo perché appartiene a chi ha vissuto gli eventi al centro del racconto. Il lettore implicito delle patografie si configura con una sua specificità: per potersi qualificare come testimone, deve essere in sintonia con il progetto di autosvelamento, non privo di rischi, di chi racconta di sé; deve, inoltre, impegnarsi ad assumere, almeno inizialmente, la prospettiva dell’autore, secondo non tanto una sospensione del pensiero critico, bensì all’insegna di una «lealtà di lettura» che differisce da quella prevista dalla narrativa di finzione o da altri tipi di prosa nonfiction (cfr. Charon p.77). I testimoni dell’Olocausto, tra gli esempi che si sono maggiormente imposti di autori di narrazioni finalizzate a far perdurare la memoria e a far conoscere l’indicibile, si appellano precisamente a una profonda disponibilità all’ascolto da parte dell’interlocutore. Senza di essa, il racconto non ha motivo di darsi, non può andare a buon fine e rischia di non realizzarsi quell’intimità tra chi scrive e chi legge e che la letteratura già predisporrebbe (cfr. Padoan p.6).

Un po’ confidente, un po’ testimone, chi si vede assegnare, più o meno esplicitamente, un simile ruolo, è un lettore il cui posizionamento nei confronti del testo, e del suo autore, rischia di risultare prestabilito e con scarse possibilità di variazioni. In realtà, il lettore empirico sfugge evidentemente all’ incasellamento rigoroso, persino in un ambito, come appunto quello testimoniale, caratterizzato da un forte coinvolgimento etico difficile da disattendere in fase di ricezione. Adottando una concezione dei generi letterari come patti comunicativi o narrativi, le aspettative legate al valore del discorso prodotto dall’autore fanno parte di questi contratti:

Some genres in particular – including autobiographical, essayistic, documentary, or testimonial fiction and the historical novel – conventionally presuppose a strong fiduciary pact stipulating the relation of the writer to his or her words and that of narrative discourse to what is known as factual reality. Such genres tend to display a battery of conventional clues reinforcing the author’s authenticity or, minimally, his or her attempt at truthfulness and sincerity. The representation of extreme historical events, such as the Holocaust, is often expected to conform to strong ethos norms, such as those formulated by Jean Améry or Elie Wiesel, for instance: a writer should

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demonstrate and foster an attitude of respect for the victims or show restraint in trying to represent the unrepresentable. (Korthals Altes p.161)

All’interno di questa dinamica in cui gli elementi in gioco sono molteplici, la relazionalità fondante dello scambio testimoniale gioca un ruolo fondamentale, che vale la pena sottolineare:

Una scrittura messa al servizio dell'altro, dove non sono i tuoi aggettivi, i tuoi concetti, a forzare il voler dire che ti è stato consegnato, ma dove il risultato sta nello sporgersi verso l'altro per giungere a una restituzione. Un atteggiamento in cui la persona che raccoglie la testimonianza mira a tenersi in disparte ma non ad annullarsi, consapevole di non poter ipostatizzare una neutralità per il fatto (quasi una tautologia) che gli scambi tra umani si danno nell'umanità, e che dunque la traccia o il sedimento della relazione non solo non contamina la purezza della fonte, ma la rende attingibile ad altri. (Padoan p.3)

L’apporto relazionale assicura una trasmissione della testimonianza, la sua comunicabilità, ma contribuisce anche, non contaminando la limpidezza del racconto, a rimarcarne l’autenticità, perché chi lo accoglie lo fa nella consapevolezza che il narratore espone quella che è la sua verità.

Parlo di stile perché quella che possiamo chiamare un'accettabile approssimazione alla verità si dà anche tramite scelte estetiche (il che non vuol dire scegliere le parole più “belle”, ma scegliere le parole più somiglianti al loro pronunziatore) fino al momento in cui al testimone sia possibile dire: questo è il mio testo, questa è la mia esperienza, detta con queste parole e non con altre. (Padoan p.3)

È in questi termini che la questione del grado di veridicità attribuibile a un’autobiografia viene affrontata e risolta quando ha per oggetto il racconto della malattia, e poiché questa è narrata da chi l’ha esperita direttamente, ogni contestazione della plausibilità o meno del racconto risulta, se non superflua, perlomeno di scarsa rilevanza. Della patografia, rispetto al suo aspetto cronachistico, viene privilegiato proprio l’elemento creativo, trasformativo anche, per il suo impatto su quel vissuto che non si limita a raccontare, configurandolo come testo ben più dinamico di quanto le costrizioni di una malattia lascino supporre. Di questa dinamicità, rapportata alla verità contenuta in queste narrazioni, offre una descrizione Arthur Frank, ponendola parallelamente in relazione alla temporalità e alla ricezione:

The truth of stories is not only what was experienced, but equally what becomes experience in the telling and its reception. The stories we tell about our lives are not necessarily those lives as they were lived, but these stories become our experience of those lives. A published narrative of an illness is not the illness itself, but it can become the experience of the illness. […] Life moves

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on, stories change with that movement, and experience changes. Stories are true to the flux of experience, and the story affects the direction of that flux.

[…] I have read personal accounts I considered evasive, but that evasion was their truth. The more reconstructed the story, the more powerful the truth of the desire for what is being told, as the corrected version of what was lived. Hearing the desire in the story takes me back to the need for a different level of attention to stories. (p.22)

Concentrarsi su queste storie date per vere significa anche portare in primo piano come, appunto narrativamente, questa verità viene costruita. Il racconto, per quanto personale, della malattia è pur sempre, cioè, un racconto: non può essere inteso come registrazione accurata degli eventi, perché questi vengono condensati, ridotti a contrasti netti, l’ambiguità viene spianata; alle carenze dovute alla selettività della memoria e della scrittura, corrisponde tuttavia l’aggiunta di significati, latenti nell’esperienza originale e apportati dalla narrazione (cfr. Hawkins p.14). Selezione, alterazione e organizzazione convivono nella forma drammatizzata, caricata emotivamente, dotata di inizio, centro e fine del racconto. Proprio nel suo carattere formulativo, costruttivo, risiede infatti il valore, ma anche il limite, dell’atto patografico in rapporto all’esperienza destabilizzante della malattia:

Pathography can be seen as re-formulation of the experience of illness, as the artistic product and continuation of the instinctive psychological act of formulation: it gathers together the separate meanings, the moments of illumination and understanding, the cycles of hope and despair, and weaves them into a whole fabric, one wherein a temporal sequence of events takes on narrative form. (Hawkins p.24)

In tale prospettiva, suggerita e sostenuta da Hawkins, l’interesse con cui si deve guardare a questi testi non dovrebbe risiedere tanto nella registrazione di ciò che è successo, poiché non sono resoconti fattuali, ma nel loro essere interpretazioni dell’esperienza, cioè «constructs, revisions, and, in some cases, creative distortions that expose a variety of ideological and mythic attitudes about illness today» (Hawkins p.25), che mettono a nudo, per l’appunto, i diversi modi in cui l’autore cambia le esperienze che sostiene di riprodurre autenticamente.10 L’accesso alla condizione di infermità, nonché la sua piena comprensione da parte del lettore, su cui si insiste nell’ambito delle medical humanities in vista di una fruizione pedagogica di simili narrazioni, appaiono ridimensionati dal dato di fatto che «no written account can replicate what it is like to be ill» (Hawkins p. xi).

10 « While autobiographical narratives may contain “facts,” they are not factual historyabout a particular

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Scrivere di una qualsiasi esperienza inevitabilmente la altera, e ciononostante la narrazione in quanto tale pare essere il mezzo più adatto a restituire nella maniera più efficace la verità del testimone, espressa al massimo grado nella sua elaborazione scritta:

Dove il testimone è fonte, dove si fa riferimento a una trascrizione esatta del parlato, non si dà racconto, perché il racconto è costruzione e artificio; tuttavia capita che proprio quella costruzione e quell'artificio abbiano la prerogativa di giungere non solo a una dicibilità e a una trasmissibilità dell'esperienza, ma anche, paradossalmente, a una maggiore approssimazione alla verità dell'esperienza. (Padoan p.1)

Il doppio binario fin qui seguito ha messo in relazione, sebbene evitando prudentemente la sovrapposizione, la narrazione del testimone di un crimine collettivo, sistematicamente perpetrato e dalla portata storica enorme, quale è lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, e quella di un evento che, nella sua universalità e nel suo primo significato spogliato di ogni considerazione culturale e sociale, fa parte del corso naturale della vita umana, quale è la malattia. Il parallelismo viene giustificato da alcune caratteristiche condivise da entrambi gli atti testimoniali e a cui si deve il loro configurarsi come tali: a narrare sono dei sopravvissuti, l’esperienza di cui sono stati protagonisti ha incontrato misure di occultamento e il linguaggio con cui esprimerla non è facilmente disponibile. Se questi tratti sono chiaramente riconducibili ai racconti degli scampati ai lager, la loro specificità in relazione alle patografie va esplicata.

Nella società occidentale contemporanea i mali cronici, quelli incurabili e fonte di sofferenza e seri disagi sono largamente diffusi ed eppure relativamente invisibili, per lo meno nella misura in cui non sono oggetto di un discorso pubblico che non si limiti alla superficie della condizione di malattia. Di quali trattamenti siano effettivamente necessari, come funzionino, quale quotidianità viva la persona affetta dalla patologia e quale significato abbia per lei una diagnosi terminale, non si parla. La malattia, soprattutto quando associata direttamente alla morte, è forse l’ultimo tabù del nostro tempo, l’inaccettabile realtà di un decadimento e di una fine prematura che il progresso scientifico, a cui si riconosce il raggiungimento di vette inimmaginabili, non è riuscito a sconfiggere. La malattia grave ha, anche per la sua diffusione, poco di straordinario di per sé, ma è il rifiuto del pensiero del delino e della mortalità a far sì che il singolo la percepisca come un evento drammaticamente assurdo ed eccezionale. Sia che riesca a rimandare la fine, sia che la sua scrittura accompagni i suoi ultimi giorni, la voce del malato sarà quella di un sopravvissuto che testimonia cosa comporta percorrere un cammino di sofferenza. Si tratta di voci che si contrappongono a un duplice silenzio: quello della medicina contemporanea

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che solo recentemente e in determinati contesti si è dimostrata disponibile ad accogliere la storia del paziente in quanto persona, e quello di una società concentrata sul sogno dell’eterna giovinezza e di un corpo infallibile. La parola della testimonianza patografica deve fare i conti con il pudore, con la dignità, con l’accettazione sociale, con le angosce più profonde, con un corpo dal linguaggio alieno:

In life narratives of the Holocaust, sexual abuse, torture, AIDS, and disability, among others, narrators struggle to find ways of telling about suffering that defies language and understanding; they struggle to reassemble memories so dreadful they must be repressed for human beings to survive and function in life. In such narratives, the problem of recalling and recreating a past life involves organizing the inescapable but often disabling force of memory and negotiating its fragmentary intrusions with increasing, if partial, understanding. (Smith e Watson pp.21-22)

Certo, l’esigenza primaria alla base delle scritture patografiche non è il recupero e l’affermazione di una memoria collettiva, ma, spesso, si tratta di un singolo destino che si vuole preservare dall’oblio, in un estremo, anche disperato, tentativo di raggiungere, per mezzo della malattia che si fa testo, quella realizzazione che in salute non si è riusciti a conquistare, né forse ci si è preoccupati di perseguire. Diverso, tuttavia, è il caso dell’esposizione dell’Aids, in quanto in Europa e negli Stati Uniti si è manifestata la volontà di impedire che un’intera generazione di giovani omosessuali venga dimenticata senza che nemmeno si conosca il nome di coloro che sono morti tra atroci sofferenze e pesantemente discriminati. In questo senso vanno lette molte patografie, frequentemente firmate da familiari, dell’Aids, e certamente il movimento a cui si deve l’Aids Memorial Quilt, l’enorme ‘trapunta’ composta da sezioni individuali, ciascuna assemblata da parenti e amici per ricordare la vita di un loro caro morto per la malattia e, come si legge nel sito dell’organizzazione, per «making HIV/AIDS real and immediate and turning statistics into souls».11

«Generally, illness narratives reflect mixed motives: an urge for self-exploration and a desire to serve those with the same condition» (Couser Recovering p.15): la malattia risulta dunque vicenda privata, di molti, di alcuni, di tutti, e questa molteplice appartenenza contribuisce a rendere ambigua la legittimità della sua narrazione come testimonianza, che pure i suoi autori rivendicano. Dal punto di vista della storia della letteratura, l’ambito tedesco risolve questa ambiguità con una contrapposizione netta, in quanto vede, negli anni 70, l’emergere di una tendenza narrativa che si distanzia decisamente dall’interesse per i

11 La frase è tratta dalla pagina del sito consultabile a questo indirizzo: http://www.aidsquilt.org/view-the-

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contenuti politici e di validità generale, per focalizzarsi su rivelazioni del privato senza alcun abbellimento e incentrate su stati d’animo del tutto individuali. Si apre così la stagione della Neue Subjektivität, all’interno della quale vedono la luce, in alta concentrazione fino agli anni 80, testi autobiografici, ma anche finzionali, che tematizzano la malattia (cfr. Moamai pp.42-43). Eppure, se si esclude la specificità del panorama tedesco, oppure si accetta di dubitare di una interpretazione di questi testi basata sul contrasto con quelli che li hanno preceduti e che li considera esclusivamente votati alla prosaicità del quotidiano e all’autoreferenzialità, ci si convince di quanto il loro valore testimoniale sia da valutare con più attenzione.

Nel documento Patografie: voci, corpi, trame (pagine 42-48)