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Una riaffermazione dell’io di fronte al postmoderno

Nel documento Patografie: voci, corpi, trame (pagine 32-37)

2. Presupposti di una narrativa testimoniale

2.1. Una riaffermazione dell’io di fronte al postmoderno

«Stories of people trying to sort out who they are figure prominently on the landscape of postmodern times» (Frank p.xiii): la patografia si afferma in anni postmoderni, ovvero culturalmente contrassegnati da fenomeni disparati che in vari ambiti, dall’architettura alla letteratura, rimandano alla mescolanza, all’indefinitezza e alla decentralizzazione.1 L’attenzione a questo sfondo composito in cui si staglia la patografia permette di rilevare le concezioni e le percezioni dell’io alla base della scrittura contemporanea della malattia, mettendo in evidenza come tali presupposti siano in rapporto con il clima postmoderno. Inoltre, un simile raffronto consente di portare alla luce gli elementi di continuità e di contrasto che intercorrono tra le narrazioni della malattia e l’autobiografia come forma letteraria, nonché il posizionamento di questi testi rispetto alle teorie postmoderne della scrittura dell’io.

Per orientarsi nella selva di accezioni attribuite al termine «postmoderno» bisogna preventivamente segnalarne una relativa alla periodizzazione storico-sociale dell’evoluzione della medicina. Ad esempio, in La tormentata storia del rapporto medico-

paziente (1986) Edward Shorter individua nello specialista postmoderno la figura del curante che si è sviluppata a partire dagli anni 50-60 del Novecento e che si distinguerebbe dal suo collega moderno per una serie di tratti, quali l’aperta contestazione di cui è oggetto da parte di pazienti sempre più insoddisfatti malgrado il progresso tecnico-scientifico delle opzioni terapeutiche. A questo contesto, estremamente mutato rispetto a quello ottocentesco, si riferisce anche Arthur Frank:

What is distinct in postmodern times is people feeling a need for a voice they can recognize as their own […].2 The postmodern divide is crossed when people's own stories are no longer told

1 Si veda Raccontare il postmoderno di Remo Ceserani per un inquadramento e una ricostruzione storica

tanto del termine «postmoderno» quanto dei fenomeni, delle riflessioni e dei dibattiti ad esso associati.

2 All’analisi predisposta da Frank andrebbe aggiunta la riappropriazione del proprio corpo da parte del pa-

ziente in seguito a quella che il sociologo definisce «colonizzazione medica». In quest’ottica il malato non è solo postmoderno, ma anche postcoloniale: «The post-colonial ill person, living with illness for the long term, wants her own suffering recognized in its individual particularity; "reclaiming" is the relevant postmodern phrase» (p.11). Frank impiega il termine in maniera generica associandolo a una libertà di espressione che rifiuta deleghe e silenzi. L’interpretazione del narratore-malato contemporaneo come anche postcoloniale è in linea con la volontà, da parte di Frank, di enfatizzare la maggiore autonomia acquisita dal paziente attra- verso una cancellazione della figura medica: «The post-colonial stance of these stories resides not in the

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as secondary but have their own primary importance. Illness elicits more than fitting the body into traditional community expectations or surrendering the body to professional medicine, though both community traditions and professional medicine remain. Postmodern illness is an experience, a reflection on body, self, and the destination that life's map leads to. (p.7)

Frank, inoltre, identifica una postmodernità intrinseca dei ‘narratori feriti’ contempora- nei: «Sooner or later, everyone is a wounded storyteller. In postmodern times that identity is our promise and responsibility, our calamity and dignity» (p. xiii). Archiviate le patologie acute, la nostra si configura come l’era della cronicità, per cui si vive in prognosi (cfr. Jurecic p.21; Jain) o, per mantenere la similitudine medica, in remissione (cfr. remission

society in Frank). La cura, cioè, per quanto riuscita e in grado di garantire un sostanziale benessere, non è definitiva né completa: si resta all’erta e ci si sottopone a misure di moni- toraggio e aggiustamento costanti (dai diabetici, a chi è reduce da una dipendenza, fino a chi soffre di allergie e a coloro che hanno avuto il cancro; cfr. Frank pp.8-9). Il confine tra salute e malattia è diventato pertanto estremamente sfumato, differenziandoci ulteriormente dai degenti che ci hanno preceduti:

The physical existence of the remission society is modern: the technical achievements of mod- ernist medicine make these lives possible. But people's self-consciousness of what it means to live in the wake of illness is postmodern. In modernist thought people are well or sick. Sickness

and wellness shift definitively as to which is foreground and which is background at any given moment. In the remission society the foreground and background of sickness and health con-

stantly shade into each other. (Frank p.9)

Questa concezione del paziente contemporaneo suggerisce non solo come il soggetto si relazioni oggi con la malattia, ma anche quanto il profilarsi all’orizzonte di un simile evento destabilizzante offra l’occasione per un ripensamento dell’idea di identità. Se quest’ultima è di per sé problematica, nasce come incognita da risolvere e una sua definizione si impone alla riflessione quando non si è sicuri della propria appartenenza e di come posizionarsi nei confronti degli altri (cfr. Bauman pp.12-13), allora la circostanza della malattia costituisce evidentemente una chiamata a fare i conti con chi si è, si era o si diventerà in ragione dell’infermità da cui si è colpiti. Si noti, per altro, che il tempo futuro, malgrado l’accento nella scrittura autobiografica sia posto abitualmente sul passato da ricostruire, ha un ruolo chiave nella patografia e ugualmente nel compito dell’identità:

content of what they say about medicine. Rather the new feel of these stories begins in how often medicine and physicians do not enter the stories. […] in the remission society, the post-colonial ill person takes respon- sibility for what illness means in his life» (p.13).

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Sebbene troppo spesso sia stato ipostatizzato come attributo di un'entità materiale, l'identità ha lo statuto ontologico di un progetto e di un postulato. […] Identità è una proiezione critica di ciò che è richiesto da e/o si cerca in ciò che esiste; o, più esattamente, un'asserzione obliqua dell'inadeguatezza o incompletezza di quest'ultimo. (Bauman pp.12-13)

La sfida dell’identità aumenta così la sua portata, la sua necessità e urgenza si fanno lampanti nel momento in cui all’incertezza generalizzata del postmoderno si somma quella apportata da una malattia, che irrompe improvvisa e i cui esiti sono imprevedibili o difficilmente pensabili. Per questo l’atto patografico si configura come un’impresa votata a contrastare l’indeterminatezza e motivata dall’esigenza di fissare, dire l’ultima parola, mettere insieme i frammenti andati in pezzi con la malattia. Il declino fisico, specie quando prematuro, obbliga a un’inversione di rotta rispetto all’estemporaneità a cui sarebbe votato il soggetto della nostra epoca: «[…] se il «problema dell'identità» moderno consisteva nel costruire una identità e mantenerla solida e stabile, il «problema dell'identità» postmoderno è innanzitutto quello di come evitare ogni tipo di fissazione e come lasciare aperte le possibilità» (Bauman p.12). Il fatto è che, di fronte alla malattia, il tempo si restringe e con esso le possibilità da lasciare aperte, mentre si impone l’urgenza di conferimento di una forma, un’identità, infine, alla propria persona e alla vita che si è, che sta volgendo al termine o che proseguirà in una direzione totalmente diversa da quella trascorsa fino a quel momento. Come si è detto, scriverne equivale ad attribuire fissità a questa esperienza, che non di rado offre l’occasione di un bilancio e di una rilettura dell’intera esistenza. L’esigenza di stabilità e nitidezza traspare in particolare dalla ricerca di una chiusura, tanto della vicenda della malattia, che nell’incertezza della sua evoluzione può non averne una, quanto della propria vita, prima che la sua effettiva conclusione tolga ogni possibilità di parola.

Pertanto, non appare fuori luogo un’interpretazione della patografia, in quanto scrittura dell’intimo, come una risposta alla dispersione e all’evanescenza dell’io postmoderno, «an affirmation of individual worth» (Bell e Yolam p.1):

As readers entering into the experiential world of another consciousness, we move once more within the human dimension where it is still possible to believe in the meaning of a personal identity. The impersonality, fragmentation, and alienation of the postmodern world seem less overwhelming as we follow the vicissitudes of a real person – a brother or sister creature from whom we grasp vicarious validation of our own lives. Perhaps this is one reason why autobiographies and biographies are proliferating as never before. (Groag Bell e Yolam p.1)

Al centro delle patografie vi è generalmente un soggetto profondamente individualizzato, autocosciente e impegnato a ripristinare, costruire o riconoscere per la

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prima volta la propria unità. Nel fare questo, l’io contemporaneo può contare su una conformazione psicologica e cognitiva che lo identifica come «[…] ever evolving, becoming through narrating, constituted through relation, and inflected by the body» (Charon p.81). Due aspetti sono deducibili da questa definizione: la fiducia riposta nel potenziale della narratività, applicabile a qualunque aspetto dell’esistenza, e la valorizzazione della fisicità, mai come ora enfatizzata. Circa la prima tendenza, ne dà testimonianza la teoria che ha incontrato largo consenso ed impiego negli ultimi decenni per cui l’identità è costitutivamente narrativa e senza un autoracconto, interiore, della propria vita non c’è io. Si tratta di una visione strettamente legata alla produzione patografica e sostenuta dai maggiori studiosi del rapporto tra narrazione e malattia.3

Per quanto invece riguarda il corpo, nella patografia, che lo eleva, anche cogliendolo nei suoi momenti di maggiore bassezza, a vero e proprio protagonista, si può trovare una delle sue rappresentazioni più complete ed estreme. L’onnipresenza del corpo in questi testi pone di fronte ad un io della cui esistenza è difficile dubitare, perché sua è la rivendicazione delle sensazioni legate a una fisicità compromessa, espropriata, irriconoscibile; ed è sua la ten- sione verso un disegno unitario in cui la molteplicità di queste manifestazioni possano con- vergere in un’unica persona, un identico referente. L’io ha, è un corpo: dal Dna alla voce, il corpo attesta chi si è, proclama l’individualità, la singolarità e l’autenticità del sé: «the body – its skin, anatomy, chemistry– resonates as both a locus of identity and a register of the similarities and differences that inflect social identities.» (Smith e Watson p.39). Gli studi letterari, in cui si collocano le teorie dell’autobiografia, e la filosofia hanno d’altronde abbandonato da tempo la dicotomica visione cartesiana, mentre le scienze cognitive non fanno che confermare le reciproca influenza e la strettissima relazione che legano mente e corpo. Una delle sfide della patografia è di trovare un linguaggio che traduca quello dell’or- ganismo e renda comunicabili, dotati di senso i suoi meccanismi e le sue mutazioni. Frank ritiene infatti che le storie di malattia non si limitino ad assumere la fisicità come mera tematica privilegiata e che non siano narrazioni sul corpo, ma del corpo, in cui è la sua voce che si tenta di far emergere (cfr. Frank p.xii). È questo corpo «parlante»4, infine, che chiama il lettore a confrontarsi con l’unità esperienziale del sé autobiografico, il quale è messo a dura prova da circostanze che fanno venir meno l’integrità corporea: è un sé certamente in

3 Jerome Bruner è stato tra gli iniziatori del pensiero narrativo come fondamentale e connaturato alla

costruzione del sé. Nell’ambito delle medical humanities, si citano, tra i tanti sostenitori di questa concezione, Rita Charon, Byron J. Good e Howard Brody.

4 Maria Antonietta Saracino menziona un corpo «parlato» in riferimento al Diary di Alice James, di cui cura

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crisi, ma che si adopera per ripristinarne o rinnovarne l’interezza e che, soprattutto, confida di riuscirci (cfr. Hawkins p.17). Vi è infatti una certa fiducia nell’impresa di narrazione personale così intesa, con l’accento posto sul processo di ricerca, che non garantisce le risposte sulle cui tracce ci si era messi, ma che vale di per sé come reazione, presa in carica e, entro una determinata misura, di controllo, di una situazione da cui il soggetto rischia di essere semplicemente annullato (dal trauma, dagli effetti della malattia, dalla delega all’agire medico):

Autobiography is still recognized as the effort by a writer or a narrator to reflect on, recapture, reinterpret, and represent to readers the events in his or her life that, taken together and in the particular sequence and frame in which they are provided, make sense (in one of many possible ways) of it. But instead of stolidly and reliably recounting the events of one’s life, the autobiographer is understood, now, to be seeking and not merely repeating the grounds of meaning in a life, and to search not only among his or memories but also among his or her intimates for that meaning. (Charon pp.74-45)

Simili motivazioni possono giustificare l’ipotesi che con la patografia si sia di fronte a un arresto della deriva del soggetto autobiografico dato per disperso e in nessun punto unitariamente e stabilmente rintracciabile.5 I testi di nostro interesse costituiscono una differenza significativa sia rispetto al monolitico racconto di sé esemplificato dai modelli delle Confessioni agostiniane e da quelle rousseauiane, sia rispetto alla versione postmoderna, ovvero multiforme e dispersiva, della scrittura introspettiva.

When Rousseau or Benjamin Franklin or Henry Adams reported their lives, they were setting forth master narratives of the evident truth, stamping one version of their lives as the authoritative and unquestionable one. These life-writers represented fully formed, autonomous selves who exerted power in the world and who remained whole and the same throughout their lives. These selves, their readers realized, were there for the describing, larger than life, confident of their integrity and their permanence. (Charon p.71)

Le forme più sfuggenti della narrazione autodiegetica sarebbero tipicamente novecentesche:

[…] forse, in passato, tali forme erano marginali rispetto alla preminenza di quel modello di autobiografia che per comodità chiamiamo “classica”, mentre nel Novecento è accaduto esattamente il contrario, le nuove forme, strettamente private, frammentarie e disperse o aggressive e provocatorie, hanno finito con l’imporsi, con l’invadere ogni spazio. È il mutare delle forme, infatti, è [sic] non quello dei grezzi contenuti, che dev’essere al centro della nostra attenzione. (Sozzi p.308)

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Se nella patografia si evidenzia un deciso mutamento tanto a livello dei contenuti quanto della forma in cui questi vengono resi, la dinamica che la contraddistingue e la mette in moto è la consapevolezza, da parte del soggetto malato, di non essere più integro e la conseguente ricerca del modo in cui tornare ad esserlo o di far fronte a un’instabilità incontrovertibile. Difficilmente la patografia produce una mera trasposizione sul piano espressivo di questa frattura.

Nel documento Patografie: voci, corpi, trame (pagine 32-37)