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Da un po’ di tempo a questa parte, all’interno degli studi organizzativi, si è sviluppata sempre più la consapevolezza che le pratiche organizzative siano pratiche sociomateriali [Orlikowski, 2007], nel senso che gli aspetti materiali della vita quotidiana (e, per estensione, di quella organizzativa in particolare) siano imprenscindibili e dunque, lungi dal dare essi per scontati, debbano essere problematizzati e presi in considerazione in quanto partecipi, a pieno titolo, della socialità. Le cose, insomma, costituiscono la società tanto quanto le istituzioni, gli individui, i simboli, la cultura e così via. Per giocare a tennis, occorre sicuramente sapere che bisogna mandare la pallina al di là della rete, possibilmente nella metà campo avversaria; ma occorre anche avere la racchetta con cui colpire la pallina (e di conseguenza, occorre avere la pallina da lanciare al di là della rete, la rete da oltrepassare, il campo su cui montare la rete, del gesso che abbia tracciato delle linee che delimitino il campo da gioco e così via). Di conseguenza, il mondo materiale, piuttosto che esser dato per scontato, deve essere adeguatamente incorporato nell’analisi.

Se facciamo riferimento alle diverse pratiche descritte nelle pagine precedenti, vediamo come la dimensione materiale sia presente fin negli aspetti più minu-ti. Per buttar giù degli schizzi o simulare la distribuzione dei fasci di luce, i membri di Studio Lambda hanno utilizzato dei software installati sui propri PC. L’interazione fra Mike, Casabase e Eddie da un lato e i software dall’altro, è mediata da altri artefatti, quali la tastiera, il monitor e il mouse, attraverso cui essi dialogano con il software e mettono in atto le singole azioni necessarie per portare a termine ogni singolo compito. Di conseguenza, per fare un so-lo esempio, also-lorquando Mike “dice” al software che il paralume è di acrilico, certamente entrano in gioco le conoscenze sulle proprietà fisiche dell’acrilico, sul funzionamento del software e così via, ma queste azioni vengono portate a termine attraverso gesti concreti mediati materialmente: impugnare il mouse con una mano, muoverlo sul tavolo in modo tale da posizionare il puntatore sullo schermo controllato dal mouse sul punto desiderato, “cliccare” con il tasto

destro per far aprire il menu contestuale e così via. In questo e in tutti gli altri casi, la pratica viene portata avanti né grazie all’intervento umano, né grazie alla mediazione dell’artefatto, ma dalla loro interazione, dalla loro interconnessione, dal fatto che essi partecipano attivamente, concretamente, inesorabilmente, a quella pratica e lo fanno interagendo fra di loro10.

La sede di Alpha, può essere a diritto essere descritto come un «ambiente tecnologicamente denso» [Bruni, 2008, p. 451], in cui l’interazione fra umani e tecnologie è una condizione necessaria per lo svolgimento del lavoro stesso. L’aspetto materiale pertanto sembra essere ovvio e scontato. Tuttavia è interessan-te diventa indagare quale rapporto viene a crearsi tra i diversi attori umani e non umani. Con gli oggetti, infatti, viene instaurato un rapporto non solo cognitivo (nel senso delle nozioni di base per il loro utilizzo) o strumentale (nel senso di oggetto finalizzato ad un uso specifico). Piuttosto, il rapporto con gli oggetti può essere descritto attraverso la metafora del “flirt” [Bruni, 2011], nel senso che, la relazione che gli umani intavolano con i diversi artefatti con cui entrano in contatto è una relazione di complicità estemporanea. Un primo esempio è costituito dal seguente passo:

Alle 13:25 arriva un pacco da una casa produttrice, sono due campioni di due prodotti. Il primo è un faro da incasso a soffitto con cinque Led. Una forma tonda, con due fermi a molla ai lati (Il faretto viene inserito nella sede sul soffitto; i fermi poggiano sulla parte non visibile del controsoffitto, agendo come blocco, impedendo dunque al faretto di scivolare via dalla sede) ed il “driver”, ossia una scatolina esterna al quale vengono collegati i fili per il collegamento elettrico. Mike prende il faretto in mano, lo osserva, lo tocca, se lo rigira nelle mani, ticchetta sul bordo ed esclama: «ma guarda, è di plastica!», con tono di disappunto, perché il materiale è tutto sommato di scarsa qualità.

(Nota del 20 Luglio 2011)

In questo caso, la complicità che si instaura tra Mike e il faretto è ben visibile sui diversi movimenti di Mike con l’oggetto in mano: rigirandoselo fra le mani, infatti, ne saggia le forme al tatto e con la vista, ne scruta i particolari, ne valuta la consistenza; il tamburellare sul bordo mira a stimolare un altro senso, l’udito. Attraverso i sensi, dunque, sollecita l’oggetto stesso affinché dia degli indizi utili per esprimere un giudizio estemporaneo ma fondato sull’oggetto stesso.

10Uno degli aspetti apparentemente più insignificanti, e che invece fungono da conferma dell’irrimediabile performatività della materia nelle pratiche, è proprio la personificazio-ne dell’oggetto stesso e personificazio-nell’utilizzare, con le macchipersonificazio-ne, un linguaggio solitamente riservato all’interazione fra umani, come ad esempio “dire al software etc...” (senza che il software preveda l’utilizzo di comandi vocali).

Casabase si reca nella sala dei designer senior, dove siedono D7, D9 e D11. Mostra il device a D7, e da come parla, sembra che D7 abbia partecipato attivamente alla progettazione. Infatti, quando nota uno dei problemi di meccanica (nella fattispecie, il problema delle viti che non entrano nella sede, passandoci sopra il dito, e provocando un leggero ticchettio nel passaggio del dito dalla testa della vite alla scocca) dice: «È sempre così, con le viti! Eppure ci avevamo dedicato tanta cura!». Sia gli altri senior designers (D9 e D11) sia i due junior designers presenti in questo momento nel loro spazio (D6 e D10), vengono a vedere il device, formando un capannello intorno a Casabase. In quello stesso momento, provo la stessa sensazione che ho provato una volta entrando in un negozio di chitarre: uno dei commessi stava provando una chitarra, per far sentire il suono ad un potenziale cliente; in quell’esatto momento, si era creato un capannello di altri clienti che si erano fermati a sentire e a “godersi lo spettacolo”; mentre Casabase mostra il device agli altri, avverto la stessa sensazione di curiosità da parte degli altri, e di attenzione ai dettagli; anche D7 si gira e rigira il device tra le mani, inclinandolo, inclinando talora lo sguardo per guardarlo di sguincio; D11 tocca i pulsanti, chiede spiegazioni sul meccanismo. E poi tutti dicono «che è bello».

Ritorniamo nello spazio Lambda. Poco dopo, Casabase si alza con in mano il device e va verso la zona delle macchine fotocopiatrici: mi giro, e vedo che lo sta mostrando a uno dei soci: anche lui lo tiene in mano, lo gira e rigira in mano, passa il dito sui punti in cui Casabase ha ravvisato delle imperfezioni.

(Nota del 24 Novembre 2011)

Anche in questo caso, il rapporto che che si instaura tra i progettisti e l’oggetto è di una complicità fatta di ammiccamenti: il ticchettio provocato dal passaggio del dito dalla testa della vite alla scocca, serve ad evidenziare fisicamente, con-cretamente, l’imperfezione, attraverso la sollecitazione di uno dei sensi, l’udito; il ticchettio funge da prova che effettivamente siamo in presenza di un’anomalia poiché, se la vite entrasse perfettamente nella sede, non vi sarebbe alcun disli-vello fra la testa della vite e la scocca, e nessun ticchettio si udirebbe. Una delle caratteristiche fondamentali degli oggetti è la loro affordance [Gibson, 1999 cit. in Bruni, 2011]. Con questo termine (coniato da Gibson stesso [Gibson, 1986]) si indica la capacità di un oggetto o un ambiente, di permettere, attraverso il suo aspetto esteriore, determinate azioni e inibirne altre, di suggerire, il proprio utilizzo. Una caverna ha l’affordance di costituire un riparo in caso di pioggia, così come il manico di una tazzina da caffè suggerisce di impugnarla servendosi del manico stesso. Gli oggetti della vita quotidiana, dunque posseggono una loro

affordancepiù o meno accentuata. Talora, gli oggetti suggeriscono un loro utilizzo anche molto diverso rispetto a quello per cui sono stati pensati:

Mike si siede alla scrivania di Casabase, e inizia a smontare una Bird Lamp. Lo spegne, stacca la spina dalla presa, svita la lampadina. Sfila il nastro isolante bianco che tiene fermo il dimmer (e sostituisce il coperchio bianco de-finitivo), e sfila la centralina dimmer. Da sopra, invece, sfila il portalampada; infine, solleva il sensore dalla schiena; porta lampada, sensore e centralina rimangono collegate fra di loro dai cavi elettrici. Cerca un cacciavite per poter sfilare i cavi dal portalampada, ma non trova nulla che secondo lui possa andar bene e si mette a cercare qualcosa che possa andar bene. Sulla scrivania di Casabase trova una graffetta (di quelle da cancelleria, che servo-no per tenere insieme i fogli) e inizia a modificarla: partendo dall’estremità, il filo piegato viene reso retto. Con questo aggeggio di fortuna, sgancia i cavi elettrici dal portalampada.

(Nota del 13 Marzo 2012)

In questa situazione, Mike si trova davanti al problema di ordine pratico di sfilare dei cavi dal portalampada, tuttavia, nessuno degli attrezzi da lavoro a sua disposizione sono utili per compiere questa operazione. Di conseguenza, Mike deve arrangiarsi come può, ed è nell’interazione fra Mike e l’ambiente circostante che emerge la soluzione: infatti, Mike si serve di una graffetta, un comune oggetto di cancelleria che trova sulla scrivania. Non si può dire dove finisca l’inventiva di Mike e dove cominci l’influenza dell’ambiente; ma si può dire, certamente, che è nella data situazione contingente che possono emergere utilizzi alternativi e inaspettati a testimonianza di un’affordance che va oltre le possibilità inscritte [Akrich e Latour, 1992] dal progettista della graffetta.

Può capitare che gli oggetti progettati per un loro utilizzo non si rivelino adatti a perseguire una particolare mansione coerente con scopo per cui sono stati progettati, e tuttavia contengano un invito ad essere modificati in modo tale da poter essere utilizzati:

Con D5, invece, cercano una soluzione ad un problema emerso venerdì in fase di montaggio. Il problema è il seguente. Le due scocche sono tenute insieme da due viti a brugola che si avvitano dalla scocca inferiore; queste viti, per ragioni estetiche, si trovano dietro, nascoste dalla staffa che serve a tenere il dispositivo in posizione verticale; tale staffa, deve essere montata sulla scocca inferiore prima delle viti di montaggio perché i bulloni che tengono ferme le viti vanno inserite dall’interno della scocca inferiore; di conseguenza, a staffa montata, diventa molto difficoltoso inserire le viti

in maniera corretta, e impossibile, con gli strumenti a loro disposizione, avvitarle, perché le chiavi a brugola che hanno loro hanno un braccio corto più lungo dello spazio utile per avvitare. La soluzione adottata allora è quella di segare la brugola quel tanto che basta per poter inserirla nel bullone.

(Nota del 5 Dicembre 2011)

In questo episodio, la difficoltà ad avvitare le viti non è dovuto all’assenza di uno strumento adatto, come nel caso precedente; effettivamente, a loro disposizione, ci sono delle chiavi a brugola che servono ad avvitare proprio quel tipo di viti, anche se non possono essere utilizzate. Tuttavia, esse possono essere modificate e adattate al loro scopo, e questo è possibile proprio perché la chiave stessa incorpora un invito all’adattabilità: poiché l’intero braccio della chiave a brugola è a sezione esagonale, e non soltanto la sua estremità, accorciare il braccio non comporta un cambio nella testa del braccio, che rimane a sezione esagonale11.