• Non ci sono risultati.

Avere cura di chi cura: i rischi delle professioni d’aiuto

I lavoratori che svolgono la loro professione all’interno dei servizi che si occupano di presa in carico di sofferenza psichica degli immigrati, ricoprono una posizione molto delicata e da tutelare. Essi hanno infatti a che fare quotidianamente con il racconto di storie e situazioni difficili, e, in certi casi, anche disumane e degradanti. Il dover dare risposte, a volte anche in maniera immediata e urgente, ai bisogni della gente, comporta una tensione emotiva che è necessario saper gestire e incanalare positivamente. Questo è un aspetto comune a tutte le professioni di aiuto, risaputamente più esposte a fattori di stress e rischi quali la sindrome da burnout, su cui torneremo più avanti. Come abbiamo visto però, vi è una scarsità di servizi che si occupano di presa in carico di sofferenza psichica dei migranti, la categoria di figure professionali che vi lavorano non è uniforme e la letteratura sul tema non è esauriente. In particolare, trovare dei dati relativi alla salute degli operatori che hanno a che fare a loro volta con la salute di persone immigrate soggette a disturbi psichiatrici, è estremamente difficile, se non impossibile, a causa della grande specificità dell’argomento e della ridotta presenza di figure di questo tipo. Nei paragrafi successivi farò dunque riferimento a una letteratura più ampia, che si rivolge più in generale alle professioni di aiuto intese in senso lato (dall’educatore, al medico, addirittura al servizio pastorale), cercando di ricondurre le informazioni presenti in letteratura alle realtà passate in rassegna all’inizio di questo capitolo. Mi pare fondamentale quanto affermato da Giancarlo Trombini nell’introduzione del libro “Come logora curare”:

Oltre che al malato è doveroso rivolgere l’attenzione al professionista che entra in relazione con lui,

pensare cioè anche alla qualità di vita di colui che cura, così che possa conservare il piacere di continuare a svolgere la propria attività lavorativa e ricercare nuovi metodi per fronteggiare la sofferenza, godendo

dell’apprezzamento e dell’affetto di chi gli sta vicino91.

Partiamo dunque da cosa significa relazione d’aiuto: si intende quella particolare tipologia di relazione interpersonale caratterizzata da una attivazione emotiva molto forte, che ha lo scopo di promuovere nel soggetto in condizione di bisogno elementi come crescita, sviluppo, integrazione sociale. L’operatore dovrebbe mettere al centro l’utente e porsi al suo servizio, con l’obiettivo di comprendere meglio la sua situazione e trovare soluzioni adeguate ad essa92. Tutto ciò comporta

un forte coinvolgimento emotivo, da parte di chi compie questo lavoro, in tutta la sua persona, in quanto non si tratta di una semplice “erogazione di un servizio”. Ascoltare, in particolare se l’ascolto ha a che fare con l’entrare a contatto con il dolore della vita delle altre persone,

91Trombini G., (a cura di), Come logora curare, Zanichelli, Bologna, 1994, p. VIII.

92Mannucci A., Poggesi P.,L’educatore di professione e i rischi di burnout – Volume I, Edizioni Del Cerro, Tirrenia,

sentendone il peso, è un’azione da considerare attiva e che richiede grandi energie, e che rischia di far sentire gli operatori esausti sia fisicamente che emotivamente93. Per il tipo di disagio e di

patologia che portano nell’interazione (problemi, sofferenze, ecc.), gli utenti espongono in maniera continuativa gli operatori alla loro ansia e disperazione. Inoltre, essi si pongono spesso in un’ottica egocentrica rispetto al sistema dei servizi socio-sanitari94.

Nonostante sia difficile compiere una distinzione netta e univoca, è comunque necessario cercare di capire quale potrebbe essere il tipo più sano di coinvolgimento che un operatore può attuare nel suo contesto lavorativo: in letteratura si possono trovare riferimenti relativi al coinvolgimento emotivo, che si differenzia da quello professionale95. Nel primo caso vi sarebbe

una sorta di “con-passione” nei confronti del cliente, in quanto l’operatore assumerebbe su di sé il carico emotivo del problema ascoltato e tenderebbe a sostituirsi al paziente. Nel secondo invece, realizzabile in genere a seguito di percorsi formativi, l’operatore risulterebbe capace di individuare una sorta di equilibrio fra il punto di vista del cliente e quello di un osservatore ideale non coinvolto nei fatti.

Come anticipato, uno dei rischi maggiori nelle professioni di aiuto, ovvero di coloro che sono protagonisti di un coinvolgimento stabile con persone in condizioni di bisogno, è il rischio di contrarre la sindrome da burnout: in una traduzione non letterale burnout può significare “scoppiato”, e fa riferimento ad una caduta di motivazione di chi opera all’interno di una qualche professione sociale, oltre che a “disaffezione, irrigidimento affettivo ed etico”96. Si tratterebbe

dunque, secondo la teoria di uno degli autori che maggiormente contribuirono alla definizione della sindrome, Cary Cherniss, di una strategia di adattamento che ha conseguenze negative sia per la persona sia per l’organizzazione, che consiste in una modalità errata di adattamento allo stress lavorativo messo in atto dagli operatori che non dispongono delle competenze adeguate per fronteggiarlo e che comporta una sorta di ritirata psicologica dal lavoro, in risposta ad un eccessivo stress o insoddisfazione97. L’equilibrio emozionale necessario per poter far fronte alle

situazioni che caratterizzano le professioni d’aiuto, sembra solo in minima parte assicurato da un adeguato training formativo, rimane piuttosto affidato alla “sensibilità” dell’operatore di cura98.

93Fine S.F., Glasser P.H.,Il primo colloquio. Coinvolgimento e relazione nelle professioni d’aiuto, McGraw-Hill,

Milano, 1999, p. 177.

94Santinello M., Furlotti R.,Servizi territoriali e rischio di “burnout”. Fattori di stress lavorativo negli operatori

sociosanitari, Giuffrè Editore, Milano, 1992, p. 15.

95Ivi, p. 148.

96Mannucci A., Poggesi P.,L’educatore di professione e i rischi di burnout – Volume I, cit., p. 82. 97Ivi, p. 85.

Cherniss sostiene che vi siano tre fasi di sviluppo del burnout, in particolare: la prima è quella in cui l’operatore avverte uno squilibrio tra richieste e risorse disponibili, tre obiettivi personali e mezzi dell’organizzazione disponibili. La seconda è quella in cui l’operatore sente la stanchezza, la demotivazione, diviene irritabile e in cui tende a spostare gli obiettivi personali più verso la struttura che verso gli utenti. La terza infine è caratterizzata dallo sviluppo, da parte dell’operatore, di atteggiamenti di rigidità, cinismo e distacco emotivo, tendenza a trattare gli utenti in maniera meccanica e impersonale99. Per l’autore dunque sono tre i fattori che

interagiscono fra loro determinando lo sviluppo (o meno) della sindrome: organizzazione – individuo – ambiente.

Un altro autore di spicco relativo alla teorizzazione della sindrome è Maslach, il quale adotta un approccio di tipo psicodinamico. Dal suo punto di vista l’elemento da prendere maggiormente in considerazione è il processo di conversione dello stress in atteggiamenti di distacco emozionale e di meccanicità nei comportamenti dell’operatore. In certi casi infatti, aldilà del possibile stress emotivo o esaurimento fisico o psichico, vi è piuttosto un nuovo comportamento di tipo “costruttivo” che punta alla creazione di nuovi sistemi di difesa, che possano condurre alla creazione attorno a sé di “barriere immunitarie”100. Anche in questo caso vi sono tre dimensioni

che caratterizzano la sindrome: in primo luogo l’esaurimento emozionale, ovvero lo svuotamento delle risposte emozionali con una contemporanea sensazione di non avere più nulla da offrire a livello psicologico; in secondo luogo la depersonalizzazione, caratterizzata da atteggiamenti di distacco, cinismo e ostilità diretti nei confronti della gente con cui si lavora; in terzo luogo la realizzazione personale, che consiste nel crollo dell’autostima e del desiderio di successo, dovuto alla percezione della propria inadeguatezza al lavoro101.

Non essendo questo il luogo in cui passare in rassegna l’intero sviluppo delle definizioni teoriche sull’argomento, passiamo dunque ad analizzare le varie componenti che possono influenzare l’insorgere del disturbo.

La sindrome da burnout si può considerare come un fenomeno multidimensionale, che dipende da vari fattori che, combinati insieme, possono condurre all’insorgere del malessere. In letteratura emerge che le principali componenti che hanno un’influenza sono quelle individuali, quelle relative ad aspetti del lavoro e dell’organizzazione e quelle socio-culturali. Nel primo caso si fa riferimento alla maggiore probabilità che i soggetti a rischio di burnout abbiano

99Mannucci A., Poggesi P.,L’educatore di professione e i rischi di burnout – Volume I, cit., p. 85. 100Ivi, p. 86.

caratteristiche quali l’empatia, la sensibilità, siano umanitari, impegnati, realistici e “people oriented”, ma al contempo introversi, ossessivi, ansiosi, altamente entusiastici e suscettibili di identificarsi fortemente con l’altro102. Essi avvertirebbero inoltre in maniera maggiore il contrasto

tra la passione ideale, la motivazione altruistica che li ha spinti verso un determinato lavoro e gli ostacoli esterni, i limiti che si incontrano nell’esercizio della professione103. Per quanto riguarda

invece le componenti relative ad aspetti del lavoro e dell’organizzazione, bisogna allargare il discorso per comprendere anche il concetto di stress. Infatti, nessun fattore organizzativo può essere considerato, preso singolarmente, una certa causa di burnout. Piuttosto, per poter spiegare il fatto che persone diverse reagiscano in modi diversi agli stessi contesti lavorativi, bisogna osservare il significato e il valore che l’individuo dà a questi elementi, i quali dipendono dalla valutazione e dalla percezione che l’individuo dà alla situazione in cui vive. Ciò non toglie però che certi tipi di organizzazione, modalità relazionali e climi sul posto di lavoro comportino una maggiore probabilità di creare una situazione che verrà percepita come stressante104. I fattori più

comuni di stress sembrano essere il sovraccarico lavorativo (inteso come eccesso di richieste rispetto alle reali risorse disponibili), la contraddittorietà fra le varie domande di prestazione, l’ambiguità di ruolo, la definizione dei compiti professionali, il riconoscimento inadeguato delle proprie competenze e prestazioni, la partecipazione limitata ai processi decisionali, la carenza di coesione e di capacità di supporto da parte del gruppo di lavoro e, infine, la scarsa mobilità professionale105. Infine, per quanto riguarda i fattori socio-culturali, probabilmente i meno

studiati dalla letteratura, fa riferimento a quanti scelgono di lavorare nel sociale partendo con forte motivazione e grandi ideali, ma si ritrova poi nella maggioranza dei casi a dover avere a che fare con una realtà quotidiana fatta di scarsa considerazione sociale, bassa qualità dei servizi, scarse risorse economiche pubbliche, impossibilità di rispondere in maniera adeguata alla richieste dell’utenza, con conseguenti ripercussioni sulla definizione dei ruoli, mansioni e obiettivi e, dunque, anche sul rischio di burnout del singolo individuo106.

Come poter dunque far fronte alle possibili difficoltà che scaturiscono dall’esercitare una professione d’aiuto, come nel caso di chi quotidianamente incontra presso il proprio servizio immigrati che presentano difficoltà psicologiche o psichiatriche? Vi sono vari supporti possibili,

102Farber B.A., Stress and Burnout in the human service professions, Pergamon Press, New York, 1983.

103 Volpi C., Ghirelli G., Contesini A., Il burnout nelle professioni di aiuto: modalità di intervento ed esperienze di

prevenzione in Francescato D., Leone L., Traversi M. (a cura di), Oltre la psicoterapia, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993.

104Santinello M., Furlotti R., Servizi territoriali e rischio di burnout. Fattori di stress lavorativo negli operatori

sociosanitari, cit.

105Mannucci A., Poggesi P., L’educatore di professione e i rischi di burnout – Volume I, cit., p. 94. 106Ivi, pp. 98-99.

da non sottovalutare per la loro pregnanza e la ricaduta che possono avere sulla salute degli operatori.

In primo luogo, un sostegno molto utile è il lavoro d’équipe. Poter fare riferimento a un gruppo di lavoro, cooperare, scambiarsi informazioni, poter contare su coesione e spirito di gruppo107

(pur se non immediati da ottenere) sono tutte strategie che permettono al singolo lavoratore di non fare leva unicamente sulle proprie forze, ma di unire fra loro energia, punti di vista, modalità diverse. L’approccio dell’auto-mutuo-aiuto, sperimentato anche in ambito di studi specifici su equipe che avevano a che fare con richiedenti asilo e rifugiati108, può essere una buona modalità

per sostenersi a vicenda all’interno del gruppo. Si parte dal presupposto che il gruppo racchiuda in sé la potenzialità di promuovere dinamiche di aiuto reciproco fra i suoi membri. Steinberg identifica nove dinamiche principali che caratterizzano questo tipo di gruppi: la condivisione di informazioni; la dialettica interna; la possibilità di discutere i tabù; la sensazione di “essere tutti sulla stessa barca”, percependo dunque l’interdipendenza presente fra i membri del gruppo; il sostegno emotivo reciproco; le richieste reciproche esplicitando i problemi; il fronteggiamento dei problemi individuali; la possibilità di “fare le prove”, ovvero di sperimentare nuovi modi di fare; infine, la forza del numero, in quanto si viene a creare un’identità collettiva. Tutti questi elementi possono essere di forte sostegno e dare motivazione al gruppo.

In secondo luogo si può parlare di supervisione, altro strumento di fondamentale importanza nei contesti lavorativi a cui facciamo riferimento. Dondi descrive la supervisione clinica in questo modo:

Il percorso supervisivo ha come scopo di concorrere al governo clinico e di sostenere, in quel settore del servizio sociale e/o sanitario, l’affidabilità delle prestazioni che sono state contrattualizzate e che devono essere erogate dal gestore accreditato. Tutto ciò deve essere svolto tenendo conto delle caratteristiche costitutive del servizio stesso, della sua storia e della sua identità. Ogni operazione rilevante deve essere

confrontata e risultare coerente alla mission dell’ente e funzionale al raggiungimento degli obiettivi del sistema curante. Il metodo di lavoro mira a costituire un ponte fra i bisogni dell’utenza, di quella particolare utenza, e le possibilità di cura che l’organizzazione può mettere a disposizione. La

supervisione lavora per custodire, sorvegliare e verificare gli impianti metodologici e le prassi attuative concorrendo alla costruzione delle migliori condizioni di appropriatezza dei trattamenti che sono possibili in quella data situazione109.

Poter condividere dubbi teorici, discutere sul proprio operato professionale con un esperto risulta certamente una preziosa opportunità.

107Trombini G., (a cura di), Come logora curare, cit., p. 21.

108Tarricone I., Mencacci E., Braca M., Salvatori F., Di Marco S., Nolet M., Storbini V., Berardi D., Il lavoro del

Centro di Studio e Ricerche G. Devereuex– Bologna. Transcultural Psychiatric Team (BoTPT) con i rifugiati e i richiedenti asilo: per una memoria utile, Journal of Psychopathology, 19, 2013, pp. 234-241.

Proseguendo con le possibili modalità di supporto e prevenzione del burnout, si può identificare l’adeguata formazione come una di esse. L’ente entro il quale si lavora può organizzare corsi di aggiornamento e formazione che permettano, grazie ai supporti teorici, la comprensione del proprio vissuto quotidiano. Perché possano dimostrarsi momenti utili e non solo dei momenti obbligatori vissuti passivamente (o erogati passivamente), è necessario che non siano proposte isolate ma che seguano invece una continuità temporale110.

Concludendo, le professioni di cura sono naturalmente esposte a rischi per cui è importante fare uso dei supporti disponibili, imparare a chiedere aiuto a propria volta e, grazie alla formazione e all’esperienza, divenire sempre più competenti nella gestione dei vissuti degli altri e dei propri.

110Santinello M., Furlotti R., Servizi territoriali e rischio di burnout. Fattori di stress lavorativo negli operatori