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Confronto con i colleghi come strategia protettiva

7. La salute degli operatori

7.2. Confronto con i colleghi come strategia protettiva

Da quanto raccontato dagli intervistati, emerge che vi siano diversi momenti in cui avvenga un confronto fra coloro che lavorano all’interno di un servizio, in maniera più o meno strutturata e sistematica. Come gli strumenti precedentemente analizzati, è chiaro che anche la possibilità di fermarsi dopo i colloqui con i pazienti o comunque sapere di poter fare riferimento ai colleghi per un confronto più continuativo su quanto avvenuto nel corso della terapia, può avere una funzione protettiva significativa. Vediamone alcuni esempi:

Noi siamo in due e quindi anche tra di noi… senza aspettare la riunione mensile ci parliamo molto, quindi ci autoconteniamo, nel senso reciprocamente... se c’è qualcosa che ci colpisce in particolare… (8,

Il termine auto-contenimento è molto evocativo in un contesto di questo tipo, in quanto sta a indicare un tipo di relazione con la collega di lavoro, in questo caso specifico, che le permette di condividere il carico emotivo, il peso che può derivare da una professione di questo genere. È significativo che questo pensiero sia piuttosto ricorrente, e che rappresenti un punto d’appiglio per la maggior parte delle persone ascoltate. Un altro intervistato afferma infatti che trova sollievo, riferendosi a un episodio emotivamente forte di cui ha appena parlato, “nel parlarne con i colleghi, con... i colleghi e gli altri operatori del servizio, soprattutto questo” (10, psichiatra e psicoterapeuta, Ferite Invisibili). La condivisione e il confronto volta per volta sembrano quindi essere una delle strategie protettive più efficaci:

Ci sono dei momenti di confronto e poi io e l'altra psicologa ci sentiamo e anche tra di noi ci... perché è un po' diverso il lavoro che facciamo noi rispetto il lavoro che fanno gli altri [operatori, mediatori,

antropologi…], e quindi... ci facciamo delle... degli incontri, però io sono fortunata, tipo S. [l’altra

psicologa] che lavora invece più da sola, in modo... e in una situazione di più vulnerabilità probabilmente, io invece essendo nell'équipe con R. [collega dell’intervistata], c'è comunque condivido sempre le responsabilità e per me forse è un pochino più facile questo. (3, psicologa psicoterapeuta, Progetto Casper)

Il confronto e la condivisione di responsabilità sui casi seguiti permettono dunque di affrontare più serenamente un carico di lavoro che rischierebbe se no di sopraffare colui o colei che deve occuparsene. Questa possibilità ha tanto più senso quanto più è continuativa: “dopo ogni sessione di incontri ci fermiamo a parlarne un po'” (6, psicologo psicoterapeuta, Progetto Approdi). Dedicare del tempo dopo ogni incontro è sicuramente un impegno consistente, in quanto bisogna prevedere delle tempistiche che tengano in considerazione non solo il vero e proprio colloquio con il paziente ma anche un secondo momento di riflessione su quanto ascoltato e su quanto avvenuto durante lo stesso. A livello organizzativo e logistico è quindi un aspetto non indifferente, ma ha senso nella misura in cui permette di proteggere i lavoratori da stress elevato. Poter confrontarsi anche all’interno di un’équipe multidisciplinare, caratteristica rappresentativa dei servizi analizzati, diminuisce i rischi legati all’ipercoinvolgimento e all’ansia dei professionisti: l’entità delle problematiche affrontate e i problemi relativi alla decodifica dei bisogni espressi dal paziente potrebbero altrimenti sovrastare il lavoratore che se ne dovesse occupare senza alcun tipo di affiancamento133. Un’ulteriore testimonianza ci sta a indicare quanto questa accortezza sia fondamentale in questo tipo di lavoro:

La supervisione è una cosa importante e poi facciamo il debriefing cioè praticamente subito dopo ogni

adesso non so con che frequenza però in genere si cerca di di… di analizzare quello che è stato fatto, le

strategie fatte, quando possiamo facciamo in modo ci sia la coterapia cioè non è la terapia di uno ad uno,

133Tarricone I., Mencacci E., Braca M., Salvatori F., Di Marco S., Nolet M., Storbini V., Berardi D., Il lavoro del

Centro di Studio e Ricerche G. Devereuex– Bologna. Transcultural Psychiatric Team (BoTPT) con i rifugiati e i richiedenti asilo: per una memoria utile, cit., p. 237.

quindi insieme ad altre persone. Con i mediatori si fa il debriefing è molto forte. Quindi curiamo diciamo questi aspetti anche costanti proprio per mantenere la salute di tutti in maniera adeguata. Quindi supervisione e debriefing sono questi i due punti forti. (11, coordinatore area sanitaria Caritas Roma)

Nel debriefing, come qui viene definito, è importante coinvolgere tutti coloro che hanno lavorato sul caso, non solo gli psicoterapeuti. Questo permette di tutelare l’intera équipe, ripercorrendo le decisioni prese, le modalità utilizzate, il percorso già intrapreso e prevedendo quello ancora da intraprendere. Vediamo ora un esempio di un caso in cui non si sono riuscite ad adottare queste misure protettive poiché non c’è stata precedentemente una preparazione sufficiente rispetto a quanto sarebbe accaduto nel corso del colloquio, in modo da poter toccare con mano le conseguenze legate al non aver organizzato un tempo ad hoc dedicato agli operatori del servizio:

Un siriano, un ragazzo della Siria, ehm... come dice giovane della Siria e abbiamo fatto questo incontro, questa consultazione e... dove lui... e... ci ha raccontato quello che gli è successo ed è successo alla sua famiglia [tono di voce molto più basso] e... è stato una situazione molto difficile, dove siamo usciti tutti molto provati, tra le quali mediatrice che non era preparata a questa cosa, e lei ha sentito tutto il racconto nella sua lingua, e quindi anche come dire... in un modo più diretto. E... insomma ci abbiamo voluto un po' per riprenderci un po' tutti, ecco. Avremmo dovuto... avere delle strategie a disposizione per questo, ma... proprio per una questione di numeri, per una questione di spazi, per una questione... ci siam trovati ad avere questo appuntamento in serata tardi alle sei, e... e quindi abbiamo finito alle sette e mezza e non c'era più tempo di fare niente, perché l'ideale doveva essere che dopo aver un tempo, almeno una mezz'ora, un quaranta minuti, in cui poter riparlare di quello che è successo, come ci si è sentiti, cioè... una condivisione è importante questa parte, forse più importante poi del... cioè di... dopo l'incontro in sé con la persona è una delle parti più importanti del lavoro, però purtroppo quando si lavora in prima linea a volte... non è poss... non ci sono i mezzi per poter fare questo. (5, psicologo psicoterapeuta, Servizio di consultazione culturale/Start-ER 2)

Un pomeriggio qualunque, è stato fissato un incontro che nessuno si aspettava sarebbe stato così emotivamente forte e di complessa gestione. Avendo colto tutti alla sprovvista, è mancato proprio quel momento di rilettura del colloquio imprescindibile per la salute degli operatori. Come dice l’intervistato, quello spazio dedicato al confronto è da considerarsi di importanza quasi pari all’incontro stesso con i pazienti. Una difficoltà che l’intervistato sottolinea è relativa al “lavorare in prima linea” e alla “mancanza di mezzi”: è molto significativo che venga sottolineata una carenza relativa agli strumenti a disposizione per svolgere adeguatamente il proprio lavoro, in particolare per quanto riguarda la disponibilità di spazi adatti per sostenere un colloquio di questo genere, oltre che alla disponibilità di mediatori e dei vari componenti dell’équipe che seguono il caso. Si riconferma l’ipotesi, già accennata da altri intervistati in altri momenti, che il tipo di servizio di cui ci si sta occupando in questo elaborato sia ancora non del tutto valorizzato e sostenuto sotto molteplici punti di vista (dalla formazione, alla disponibilità di risorse economiche e logistiche, alla diffusione dei servizi, ecc.). Vediamo ora quali possono essere le conseguenze a volte anche pesanti legate a una mancata rielaborazione di incontri emotivamente forti, come è avvenuto in questo ultimo episodio raccontato. La mediatrice che seguiva il caso infatti non è stata esente dal forte impatto di quell’incontro e anche il tentativo fatto dallo psicoterapeuta di rielaborare quanto

accaduto non è andato a buon fine: “le abbiamo dato un appuntamento, nei giorni successivi, ma lei poi non si è presentata, non ha voluto più fare la mediatrice su quel caso...” (5, psicologo psicoterapeuta, Servizio di consultazione culturale/Start-ER 2).

Vediamo ancora un altro esempio relativo a un colloquio in cui la paziente denuncia il fatto di aver subito violenza all’interno di una struttura di accoglienza, informazione che suscita ovviamente sentimenti molto forti a tutti i presenti in quel momento. La reazione, forse più impulsiva che ragionata, differentemente da quanto visto finora non è stata la tendenza a un confronto su quanto ascoltato (almeno nell’immediato, per quanto ne sappiamo), ma piuttosto si è manifestata la necessità di staccare completamente la testa, prendendosi un momento di pausa:

Ah poi eravamo usciti, ci eravamo presi una pausa dopo quel colloquio, tutti quanti, e abbiamo fatto aspettare il colloquio... forse quello, siamo andati fuori e abbiamo parlato di altro, ci siamo presi dieci minuti di pausa, perché è stato molto forte per tutti, anche perché c'è per tutti noi sembrava incredibile che dentro una struttura potesse accadere una cosa così... (3, psicologa psicoterapeuta, Progetto Casper)

La necessità di mettere uno tempo, seppur breve, in cui coloro che hanno ascoltato il racconto della donna potessero distanziarsi psicologicamente da quanto avvenuto, si dimostra un ulteriore tipo di strategia da utilizzare per proteggersi da storie di vita che rischiano di portare a un coinvolgimento emotivo troppo forte.