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La storia di Kenjiro Azuma è narrata in prima persona in una splendida intervista18 dove lo stesso artista spiega i moti- vi della sua ricerca riavvolgendo il nastro della vita al tragico epilogo della seconda guerra mondiale. L’impero nipponico, chiuso e rivolto gelosamente su se stesso, vive nell’illusione dell’infallibilità del proprio imperatore che invece la sconfitta bellica rivela essere un uomo come tutti gli altri. Questa presa di coscienza lascia senza fede l’ultimo dei kamikaze.

La guerra è perduta, l’impero ha perso la sua guida e perdu- ta è la ragione di vita di chi aveva deciso il sacrificio supremo per la patria. “L’uomo è fatto di carne, ossa e sangue, com- preso spirito, fede. Questo era l’uomo. Però dal mio corpo è uscita la parte invisibile, l’anima, lo spirito. Quindi io ero solo materia. Una condizione spaventosa. Ero morto. Finito. Ho sofferto tanto”.

Il giovane Kenjiro tenta affannosamente di ricostruire se stesso andando alla ricerca una nuova rotta che possa colmare il vuoto lasciato dal fallimento di quella precedente.

Questa necessità spirituale lo porta ad eliminare assoluti- smi su cui sorreggersi per abbracciare la ricerca artistica al fine di ricostruire il proprio spirito.

Una strada infinita la quale non permette a colui che la intraprende di raggiungere una meta, ma concede il privilegio di una promessa: la continua scoperta per mezzo dell’opera creata che sarà carica di frutti trasformandosi essa stessa nella ragion d’essere di una vita. Così un giovane pilota, destinato all’oblio nello schianto che avrebbe tramutato il suo aeroplano

Lucio Fontana, Concetto Spaziale - Attesa, 1968

Sul retro del dipinto: Questo quadro a sette tagli...

in un proiettile alato, decide di voltarsi indietro e apprende- re l’arte di famiglia, artigiani da generazioni della fusione del bronzo. “Ho avuto un’idea. Diventare scultore. Non pittore! Scultore!”.

Volerà in Italia dopo la laurea a Tokyo, divenendo allievo di Marino Marini presso l’accademia di Brera, a Milano. Azuma è assetato. E’ bravo. Dotato di una tecnica eccellente diviene assistente personale del maestro presso il suo studio. Manca però qualcosa nei suoi lavori. Manca l’anima.

Il maestro lo ammonirà, spronandolo a cercare nelle pro- prie radici le ragioni della sua ricerca. Marini gli farà notare come la sua arte è chiaramente pregna della cultura di cui è figlio: “Io sono un etrusco Kenjiro, tu, invece, sei un giappo- nese”. Inizia così un periodo di frustranti tentativi per affran- carsi dalla scultura del maestro quando, un giorno, mentre tra- sporta le assi di faggio di una cassetta per la frutta, inciampa facendo cadere tutto davanti a se. Istintivamente fa il calco di quel disordinato disporsi di elementi. Nasce la sua prima scul- tura. Osservandola attentamente comprende: si è imbattuto nei suoi antenati. Come in un racconto Zen il pensiero alla base della sua civiltà si manifesta al piccolo artista giapponese in un episodio che egli non vede casuale proprio perché quo- tidianamente plausibile. Nell’accettazione di questa casualità apparente Azuma riconosce le proprie radici e intraprende la sua personale ricerca: la rappresentazione del vuoto.

Nella serie di sculture Mu, infatti, la vera scultura è il vuoto,

non la forma che lo definisce e lo contiene; ciò che attira la nostra attenzione è la specifica natura di questo vuoto.

questione: “In architettura Ma è il luogo dove si vive quoti-

dianamente la casa. Il senso concreto e quotidiano di questo modo di concepire lo spazio, prevale, comunque, sul mero aspetto quantitativo”.21 Il vuoto circoscritto dai fondamentali della casa (tatami - pavimento, shoji - pannelli esterni, fusuma -

pannelli interni, hisashi - portico) è inteso quale possibilità per

la vita umana e gli elementi che ne permettono la disponibilità consentono il rapporto diretto con il vuoto naturale, lascian- do aperto uno dei pannelli esterni. “Lo spazio giapponese è sempre legato a questa sublimazione del vuoto.

Per vivere, infatti, in uno spazio con la massima libertà possibile, occorre innanzitutto creare il vuoto; in seguito il vuoto sarà in qualche maniera occupato, ma la vibrazione del vuoto e la sua presenza devono restare sensibili”.22

Il vuoto di Azuma non è uno spazio infinito, indefinito, privo di significati, non è un nulla cui la presenza della materia si oppone. Parlando del suo incontro con Lucio Fontana ci spiega che, così come la ricerca intrapresa dal collega italiano assume significato solo se l’infinito spazio dietro il taglio della tela si ferma definendosi contro il fondale nero, anche la sua trova nel confronto con il limite della forma-materia la pro- pria ragion d’essere.19 Il vuoto è complementare alla massa che ne permette l’esistenza, la sua forma irregolare testimonia il fatto che è stato scavato nel bronzo che lascia il segno nel- la materia da cui è generato. Non a caso la mano dell’artista misura questi vuoti con il gesto del raccogliere e portare a se mentre parla e trasmette il senso del suo operare. Vuoto che, in quanto scavo, è in attesa, capace di accogliere.

In questa sua qualità ravvisiamo il legame con la cultura giapponese, in cui ritroviamo lo stesso vuoto circoscritto dal recinto di corde, il kami, il modo più semplice di definire uno

spazio che attende per accogliere la divinità. Lo stesso vuoto del recinto del santuario di Ise – kodenchi – che per vent’an-

ni attende la ricostruzione: “Nel fitto bosco di Ise, la radura ospita il vuoto dell’intenzione umana, lo spazio ritagliato geo- metricamente e conservato attraverso sottili e raffinati mec- canismi simbolici di apparenza naturale. E’ data in quel luogo una eccezionalità di prima istanza, quella della radura rispetto al bosco, ed un’altra ad un secondo livello: quella del kodenchi

dentro il santuario. Nella natura si apre il passo per l’umano e nell’umano si lascia uno spazio per il futuro”.20 Vuoto che nell’abitare tradizionale torna all’uomo quale significante della

Jorge Oteiza, Caja vacìa, 1958, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid

Oteiza ovvero il vuoto come risultato di un processo logico