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L’operazione di scavo nella composizione della casa ci ri- porta al rapporto corporeo che la scultura stabilisce attraverso il senso del tatto. Il corpo, quindi, la coscienza della corporeità che scaturisce dell’esperienza tattile garantita dalla pianta cen- trale scavata mette in secondo piano l’esperienza visiva della prospettiva e lascia il posto ad un luogo di riferimento, dove far tornare la memoria, dove lasciare che scaturisca l’immagi- nazione.13 La pianta centrale, infatti, non contempla un punto prospettico dominante.

Nel suo porre al centro il corpo, instaura con questo una relazione diretta nell’immediato rapporto tra la misura-mate- ria corporea e la materia-forma architettonica. Nel momento in cui ci si ritrova al centro della corte del Mantegna, siamo al contempo dentro e fuori l’architettura: un luogo di sospensio- ne del fluire dello spazio-tempo che ci riconduce alla immagi- ne di Oteiza bambino che si lascia trasportare via dal mondo terreno all’interno di una cava di roccia. Nel maestosamente grande il rapporto corporeo con le masse viene sublimato in quello intellettuale e viceversa nel circolo dell’atrio.

Al centro dobbiamo necessariamente entrare in relazione non solo con la pietrosità degli elementi, ma con le operazio- ni logiche che hanno portato a quella forma. Stando dentro, l’architettura disvela il racconto della sua genesi, quella che Eisenmann chiamerà inner structure e che molto più prosaica-

mente noi chiamiamo operazione formale. Dove per formale non intendiamo una sterile produzione della forma, bensì lo scolpire quella forma secondo passaggi intellegibili in grado

montaggio #1_percorso

di generare una narrazione che struttura i suoi livelli sino al simbolo del portale, alla connessione con il cielo, al rapporto con il paesaggio e con la città.

E’ ora possibile elidere uno dei due assi compositivi e leg- gere la sequenza degli spazi della soglia-ingresso, dell’atrio cir- colare, del portale “divino”, della camera fatta alla maniera di quella dipinta per i Gonzaga, della soglia sul brolo: il percorso che penetra la casa e le relazioni che stabilisce con gli elementi sono il vero oggetto della progettazione del Mantegna. Sono tutti concatenati l’uno nell’altro nel secondo percorso narrati- vo, quello che si sviluppa linearmente lungo l’asse principale dove il corpo viene colto di sopresa dal ritmo imposto con la successione ripetuta di compressione-dilatazione. Il paesaggio esterno della campagna entra in relazione diretta con quello del- la casa, sospende la sua percezione nella accelerazione verticale dell’atrio per poi riversarsi nuovamente all’esterno nella strada e viceversa.

Un’ operazione di montaggio degli elementi compositivi della soglia, dell’atrio, della stanza, che consentono al paesag- gio di fecondare l’architettura e all’architettura di guardare il paesaggio così che l’uno sarà paradigma per l’altro, divenendo prototipo per quella lanterna che in Villa Capra trova nuovi e decisivi equilibri. Dove il brolo diventa la campagna, dove al paesaggio cittadino si sostituisce quello naturale, dove il cielo diventa cupola, dove il percorso non è lineare ma fissa il corpo al centro di un punto stabile e dipana il racconto nelle quattro direzioni cardinali definendo quattro stanze esterne alla dimo- ra attraverso le quali l’orizzonte entra dentro l’architettura.

“Ho costruito palazzi come case e case come palazzi. Nel richiamare il senso della casa antica così come l’evento tragico dell’eruzione vesuviana che l’ha trasmesso – fissato nelle dissepolte rovine di Pompei Ercolano Stabia – saremmo tentati di modificare così il precedente aforisma di Le Corbusier: si costruivano templi come case e case come templi.

Cinquant’anni dopo la repentina scomparsa di quelle città un edificio straordinario e fortunato avrebbe assunto e trasmesso fino a noi – e senza soluzione di continuità – il senso del secondo aforisma: la rotonda del Pantheon dilata fino ai limiti divini della sfera il semplice umano cubo dell’atrio di una casa di Pompei o di Ercolano.

In questo come in quella, protagonista è la fresca penombra di un pozzo aperto solamente verso il cielo. Tutto lo spazio è concentrato su quel vuoto attraverso cui la luce dei giorni e delle stagioni, penetrando all’inter- no del cavo, misura riti e preghiere, o i semplici atti quotidiani della vita domestica. Il disco del sole rimane per un attimo sospeso nell’ora antica del mezzodì: il fragore del temporale v’irrompe con la luce del lampo e lo scroscio della pioggia; nelle sere di plenilunio ombre ancora più nette si stagliano su luce di un pallore estremo.

Il senso che accomuna la grande rotonda alla semplice casa risiede nel perpetuarsi di quel procedimento che si suole definire classico: un progressivo trasferimento di relazioni strutturali e funzionali a qualcosa di puramente formale. Si mette in opera la rappresentazione di un gio- co delle parti. L’atrio, centro della convivenza domestica, attraversato dell’asse in cui si concreta l’appartenenza della casa alla terra e al cielo (non è singolare che la stessa immagine venga evocata dalla definizione di proprietà usque ad infera usque ad coelum nel diritto romano?) viene nel tempo abbandonato dalle funzioni della vita quotidiana – che si trasferiscono nei minori quartieri più interni attorno al peristilio – fino

a divenire in un mondo rovesciato luogo di rappresentazione di quella

stessa quotidianità – memoria della casa – sacrario”.14

Nell’architettura “scavata” del Pantheon il modello clas- sico che riporta l’assoluto nelle possibilità di rappresentazio- ne umane; nella casa il rovesciamento nei luoghi quotidiani dell’assoluto artistico. Francesco Venezia ci offre una nitida visione di quello che accade all’interno di un atrio romano, dove la natura stessa, penetrando, è simbolo capace di far ri- suonare il mito della sfida al caos, di lasciare entrare nell’ar- chitettura la forza dei quattro elementi, di sollecitare il corpo e i sensi attraverso la mediazione della casa e con questa del nostro abitare.

Andre Palladio, Casa Cogollo, 1572; Federico Zuccari, Casa Zuccari, 1578