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Bartolomeo Colleoni

Nel documento al servizio di Venezia (pagine 52-58)

La riflessione vertente a illustrare le peculiarità con cui Venezia si rapportava a questo condottiero va profondamente inserita nel contesto bergamasco. La provincia di Bergamo rappresentava infat-ti per la Serenissima un territorio in cui si era ancora lontani, all’in-domani della conquista seguita alla guerra coi Milanesi, dal risolve-re problemi sia di natura amministrativa che difensiva.

La possibilità di affidarla, interamente o quasi, a una nuova schiera di vassalli, che avrebbe così potuto facilmente sostituirsi ai ribelli passati a Milano (anzi ritornati a Milano), fu lungamente di-battuta a Venezia prima di essere accolta. Per questi motivi poté es-sere accettata la formazione di uno stato signorile come quello del Colleoni, utile, se non altro, per vincolare alla Dominante le am-bizioni e i poteri di un condottiero la cui compagnia rappresentava il fulcro delle truppe veneziane. Si era quindi sempre cauti, nel ca-poluogo, quando si doveva trattare con questo Signore, in partico-lare dopo quel clamoroso caso del 1440, quando in occasione della ridiscussione della ferma come capitano, voluta da Venezia a segui-to di alcune sue campagne vitsegui-toriose nella Lombardia, il Senasegui-to si riservò di largheggiare nelle premiazioni, concedendogli il borgo di Romano e le ville di Covo e Antenate (già appartenute appunto a un ribelle, Giovanni da Covo). E non bastasse in queste circoscri-zioni feudali godeva sia di plenaria giurisdizione che della garanzia di ereditarietà dei feudi, in quanto, fu detto e scritto in quella sedu-ta, «ipse sit unus ex principalibus conductoribus nostris».74

74 Ibid., cit. p. 182.

Appariva sempre più chiaro però (e del resto a Venezia erano sempre maggiori le voci di sospetto nei confronti dei capitani ge-nerali dopo “l’Affaire Carmagnola”), come le continue bizze del Colleoni fossero più rivolte a indurre la Dominante a nuove e più importanti concessioni, che a realizzare un effettivo cambio di ban-diera.75 E se da un lato questi continui stratagemmi potevano essere indici di come fosse il condottiero a reggere il coltello per il manico, dall’altro non si poteva certo dire che alla Serenissima questa situa-zione spiacesse più di tanto, visto che il dominio colleonico garan-tiva come una sorta di stato cuscinetto tra essa e i Milanesi, e il fat-to stesso che fosse dominio personale di un Signore che comunque rispondeva agli ordini di Venezia poteva essere considerato un’ac-cettabile soluzione al costante pericolo proveniente da occidente.

Non ci si soffermerà in questo capitolo a vedere come la Domi-nante reagirà ai passaggi di fedeltà del suo capitano (che pur sono stati clamorosi, come quello del 1451 in seguito all’elezione di Gio-vanni da Leonessa a capitano generale), ma è comunque importan-te evidenziare come in questa fase storica, tra gli anni ’40-’50 del secolo XV, ogni “ravvedimento” del Colleoni portasse a nuovi be-nefici e a nuove acquisizioni territoriali:

- nel 1448, quando venne rinnovata la sua ferma al soldo di Venezia dopo che nel 1442 era passato a Milano, ottenne che gli venissero restituite le precedenti prerogative sui suoi pos-sedimenti e un omaggio di 10.000 ducati d’oro;

- nel 1454, al suo ritorno alla fedeltà della Serenissima dopo aver servito ancora una volta i Milanesi, riuscì a ottenere i feudi di Martinengo, Cologno e Urgano; tutti castra di ri-levante importanza strategica, palesando a tutti come ormai fosse diventato un raccomandato più che un suddito della Si-gnoria veneziana.76

75 Ibid., Cfr. pp. 181-5, sulle condotte colleoniche.

76 Ibid., p. 183

E non era neanche così facile per Venezia liberarsi di lui o eserci-tare effettivo controllo sul suo agire: era noto infatti nel capoluogo come attorno alla figura del prestigioso condottiero bergamasco si riunissero, alla ricerca di bottino e fama, i rampolli delle maggio-ri casate del patmaggio-riziato veneziano, della cui presenza, nelle truppe colleoniche, si hanno dettagliate testimonianze nei resoconti dei saccheggi perpetrati nel Veronese dai Colleoneschi in risposta alla mancata nomina del proprio capo a capitano generale dell’esercito veneziano.77

E ancora si ricordi il tentativo di annullarne con la forza l’ascen-dente, terminato mestamente con la sconfitta degli eserciti con-giunti degli altri due condottieri al servizio veneziano, che voleva essere preventivo alla diserzione del 1451.78

Venezia non lesinò certo in elargizioni in seguito al ritorno del suo preferito sotto la propria bandiera (e questa volta, si noti, come capitano generale degli eserciti veneziani); grazie infatti alle parti-colari attenzioni di cui godeva, già nel 1455 Bartolomeo Colleo-ni sarà capace di acquisire per proprio conto terreColleo-ni allodiali e di comprare l’anno seguente il castello di Malpaga. Gli anni finali del-la sua vita furono totalmente rivolti al tentativo di garantirsi una successione, attraverso compromessi e accordi con la Dominante, come quelli che portarono, nel 1460, alla sua acquisizione libera e incondizionata delle ville di Calcinate, Mornico, Ghisalba, Caver-nago e Palasco, come saldo della paga di cui era ancora creditore rispetto alla Serenissima. Abile nella trattativa si rivelò ancora due anni più tardi, quando solamente le promesse della ereditarietà per i suoi possedimenti riuscì a impedire il suo passaggio al servizio del pontefice.79

77 Ibid., p. 182-3 ma anche Mallet L’organizzazione militare di Venezia nel ‘400, pp.

59-60.

78 Mallet, L’organizzazione militare di Venezia nel ‘400, p. 60.

79 Zamperetti, I Piccoli Principi..., p. 184.

Quando poi nel 1465 Venezia dovette accordarsi con il Colleo-ni per il rinnovo della ferma, quest’ultimo si dimostrò ancora una volta estremamente risoluto nel volersi assicurare l’allodialità dei benefici di Martinengo, Cologno e Urgnano; ormai per la Domi-nante assicurarsi ad ogni costo i servigi di questo potente signore, controllandone le ambizioni per poterle indirizzare a proprio be-neficio, non era solo conveniente ma una vera e propria necessità.

Questo perché Bartolomeo Colleoni fu di fatto (eccetto lo Sfor-za), l’unico condottiero a riuscire nella creazione di quello stato che rappresentava la più grande ambizione di questi signori d’arme.

Quello del Bergamasco colleonico era un piccolo stato “de facto e de iure indipendente”, in cui il signore esercitava pieni e illimitati poteri sovrani, seppur questi non fosse affatto svincolato da auto-rità superiori: anche nel suo dominio personale infatti, gli ufficiali veneziani esercitavano sulle popolazioni locali la pienezza delle loro prerogative.80

Privo di un erede maschio, pur di riuscire a ottenere la successio-ne del dominio almeno ai nipoti, si impegnò successio-nel donare a Vesuccessio-nezia oltre 100.000 ducati uniti alla dichiarazione di considerare estinto il debito che la Dominante aveva ancora pendente. Di contro nel capoluogo, se nulla fu fatto per assecondare le preghiere del con-dottiero, già si studiavano modi e tempi per strappargli, sul letto di morte, assicurazioni riguardo il futuro delle sue compagnie, spina dorsale dell’esercito veneziano sulla frontiera occidentale, la garan-zia della continuità amministrativa locale nei feudi e nelle proprietà colleoniche, e mettere le mani su quello che si sapeva essere il suo consistente tesoro personale, accresciuto dalla vendita del suo pre-zioso mobilio disposta dal Senato.81

Fu proprio grazie a questo accorto e tempestivo intervento che la Serenissima poté concedere, senza scossoni, che solamente due

80 Cfr. pp. 185-6.

81 M. E. Mallet, L’organizzazione militare di Venezia nel ‘400 pp. 245-6.

dei dieci feudi del condottiero passassero agli eredi designati, sep-pur tutti fossero stati concessi in perpetuo, mentre tutti gli altri tornarono allo stato; indice di come il dominio colleonico avesse ottenuto prerogative troppo vaste e importanti per poter sopravvi-vere al suo signore. Da Venezia giunse il giustificativo proclama di come il mancato rispetto della parola data non fosse dipeso dalla volontà della dominante stessa, ma dalle popolazioni locali, nono-stante fosse chiaro e noto come quella aggregazione di feudi, creata con lo specifico scopo di mantenere il più cospicuo settore dell’e-sercito veneziano, ora non aveva più, come detto, alcuna ragione di sussistere.82

È certamente difficile e forse poco rilevante ai fini dell’analisi (ma egualmente suggestivo), capire fino a che punto quelle vene-ziane fossero concessioni dovute a un contingente stato di debolez-za oppure, come potrebbe far pensare l’epilogo della vicenda col-leonica, quanto invece potessero essere state frutto di un preciso calcolo razionale dei rischi e delle possibilità politiche, finalizzato a ottenere il massimo con il minimo, fingendo latenti e strutturali deficienze per convincere il capitano di essere il vero conduttore del gioco, estorcendogli così inconsapevolmente la possibilità reale di rinunciare alla protezione e ai vantaggi dati dal servire la Serenissi-ma. Fatto sta comunque, che il suo dominio venne scinto in svaria-te parti; a Martinengo e a Romano fu inviato un patrizio veneziano in qualità di rettore e le circoscrizioni tramutate in podestarie, le al-tre invece vennero sottoposte al governo urbano, eccezion fatta per Malpaga e Cavernago. Solamente questi ultimi due feudi furono concessi in eredità alla figlia primogenita del condottiero, peraltro andata in sposa a un membro della famiglia Martinengo.

Indicativa di quanto potesse essere accorta la politica veneziana nei confronti dei suoi condottieri, è senz’altro la decisione senato-riale di precludere il campo di battaglia al Colleoni, con la

costri-82 Ibid., cfr. p. 246. in riferimento al testamento del condottiero.

zione a risiedere a Malpaga, all’indomani del suo ritorno a Venezia con la pace di Lodi, fulgido esempio di come la Serenissima prefe-risse la diplomazia all’arte della guerra e di come, nella Città, nulla non fosse mai lasciato al caso.83

83 Si intende qui ricordare come nel corso delle campagna militari, la politica fosse tutt’altro che assente, anzi, mentre sui campi si combatteva, trattative e accordi pren-devano forma per mezzo delle ambascerie. Metodo questo che va oltre il semplice inganno del nemico, perché era volto ad assicurarsi, in caso di sconfitta, che questa non fosse di grosse proporzioni, mentre si gettavano le basi per portare al proprio servizio i condottieri rivali.

Nel documento al servizio di Venezia (pagine 52-58)