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Cessati i rumori della guerra, il governo iniziò a rivedere la materia della beneficenza allo scopo di riformarla in modo organico e generale, rendendo soprattutto più semplici e più efficaci gli ordinamenti amministrativi delle Opere Pie e creando nuove forme di assistenza «legale»153. Ogni prospettiva di intervento, però, era intralciata dalle pesanti conseguenze economiche del

151 Ibidem.

152 Lettera dell’avvocato Giovanni Amendola al Ministero dell’Interno, datata 17 luglio 1918, in

ACS, MI, DGAC, DABP, tr. 1922-1924 , b. 5, fascicolo n. 25272.7, «Beneficenza pubblica. Proposte. Modificazioni», sottofascicolo n. 25272.7 «Proposte di riforma della pubblica beneficenza».

153 Nacquero vari enti a sostegno dei militari della grande guerra, come l’Opera Nazionale per i

combattenti, il Comitato nazionale di protezione per i tubercolotici di guerra, l’Opera Nazionale invalidi di guerra in ACS, MI, DGAC, DABP, tr. 1922-1924, b. 142. Cfr. anche A. F. Gamberucci,

37 conflitto, che aveva piegato le finanze statali, inghiottito gran parte delle risorse

finanziarie delle Opere Pie ed inasprito i costi dell’assistenza.

La Direzione generale dell’Amministrazione civile pensò allora di modificare la normativa in vigore sulle istituzioni pubbliche di beneficenza variando la composizione e le funzioni degli organi consultivi e di tutela (come il Consiglio superiore di beneficenza); introducendo nuove norme per un migliore coordinamento e rendimento delle iniziative benefiche; sistemando la situazione patrimoniale delle Opere Pie oberate da debiti; dividendo gli enti pii in due categorie in base alle loro entrate; ed accrescendo, infine, la responsabilità degli amministratori154.

Malgrado le pressioni delle organizzazioni assistenziali, lo Stato non formulò una ricca legislazione ma si limitò a riorganizzare sul piano finanziario le Opere Pie, in serie difficoltà per l’assenza del personale di ragioneria.

Il governo autorizzò quindi la compilazione di conti consuntivi sommari155 e, attraverso il Ministero dell’Interno, raccolse notizie sulle Opere Pie esistenti in ogni Provincia per poter integrare i bilanci delle istituzioni addette agli inabili al lavoro (fanciulli e vecchi) ed esercitare su di esse un’efficace vigilanza156.

Ma le direttive del governo furono disattese da molti enti pii. Alcuni esponenti democratici, infatti, denunciarono istituti di grande importanza e di milioni di rendite, come quello romano delle maestre Pie Filippini, per non aver stilato il prospetto delle entrate e delle uscite, segnalando, di conseguenza, anche il carente controllo da parte delle autorità politiche157.

Un tentativo di riforma rimasto sulla carta fu quello della Direzione generale dell’Amministrazione civile che, prendendo spunto dalle altre legislazioni europee, tentò di aggiornare le disposizioni relative al domicilio di soccorso riducendolo, «per ragioni di giustizia», da cinque a due anni158. Questa riduzione

154 Relazione della Direzione generale dell’Amministrazione civile al Presidente del Consiglio per

il Consiglio dei Ministri, in data12 giugno 1919, in ACS, MI, DGAC, DABP, tr. 1925-1927, b. 17, fascicolo n. 25285.1 «Riforma della legislazione sulla beneficenza 1919-1921».

155 Minuta della circolare n. 25200 inviata dalla Direzione generale dell’Amministrazione civile ai

prefetti del Regno, datata 20 aprile 1920, in ACS, MI, DGAC, DABP, tr. 1922-1924, b. 2, fascicolo n. 25200 «Sistemazione finanziaria delle Opere Pie di ricovero e di cura».

156 Minuta circolare della Direzione generale dell’Amministrazione civile ai Prefetti del Regno, in

ACS, MI, DGAC, DABP, tr. 1922-1924, b. 6, fascicolo n. 25273II bis «Ricovero inabili ed ispezione periodica degli istituti. Circolare».

157 Lettera di un nucleo di democratici al Ministero dell’Interno, in data 15 novembre 1920, in

ACS, MI, DGAC, DABP, tr. 1922-1924, b. 139, fascicolo «Istituto Maestre Pie Filippini».

158

Nota della Direzione generale dell’Amministrazione civile al Sindaco di Roma, in data 30 maggio 1922, in ACS, MI, DGAC, DABP, tr. 1922-1924, b. 2, fascicolo n. 25200 «Disegno di

38 era stata pensata per impedire che ulteriori spese di cura potessero ricadere su quei

Comuni dai quali i rispettivi abitanti, in cerca d’assistenza, si erano allontanati da molti anni non portando, quindi, alle loro realtà cittadine quei benefici che sarebbero dovuti derivare dalle loro attività e dai loro consumi159. Ma il Comitato dei Comuni capoluoghi di Provincia, presieduto dal Sindaco di Roma, respinse questa proposta perché una simile riduzione, a causa del fenomeno dell’urbanesimo, avrebbe spremuto le casse comunali dei grandi centri urbani, già carichi di spese per i servizi pubblici, ed avrebbe avvantaggiato, invece, le città più piccole, i cui cittadini emigravano altrove per necessità di lavoro160. Secondo il Comitato, era prioritario, invece, risolvere al più presto altre urgenze sociali come la protezione dell’infanzia e della fanciullezza161

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La fine del conflitto sollevò la questione giuridica degli asili d’infanzia che la legge Crispi aveva inquadrato come Opere Pie, controllate dal Ministero dell’Interno e, nello stesso tempo, vigilate da quello dell’Istruzione. In Italia, il numero degli asili era aumentato relativamente, sebbene la prima fondazione risalisse al 1827 su iniziativa di Ferrante Aporti. Questi istituti svolgevano, in realtà, un’attività ad indirizzo pedagogico-didattico e non soltanto assistenziale, sia pure tra mille difficoltà economiche162. Nel giugno del 1922, perciò, i direttori degli asili infantili italiani organizzarono a Cremona un congresso nazionale per sollecitare il governo ad attuare un’immediata riforma giuridica163.

Sul finire dello stesso anno, l’“Unione Nazionale Educatrici Infanzia” rese note le difficili condizioni lavorative all’interno degli asili infantili che, privi di una legislazione ad hoc, potevano essere avviati in modo facoltativo e, nello stesso tempo, potevano essere chiusi facilmente in presenza di difficoltà

legge n. 918. Domicilio di soccorso e funzionamento del Consiglio superiore di assistenza e beneficenza pubblica»: secondo le legislazioni degli Stati più civili il tempo necessario all’acquisto del domicilio di soccorso era notevolmente inferiore ai cinque anni, in Belgio e in Inghilterra 3, in Germania e Francia 1.

159

Nota della Direzione generale dell’Amministrazione civile al Sindaco di Roma, in data 30 maggio 1922, in ACS, MI, DGAC, DABP, tr. 1922-1924, b. 2, fascicolo n. 25200 «Disegno di legge n. 918. Domicilio di soccorso e funzionamento del Consiglio superiore di assistenza e beneficenza pubblica ».

160 Ibidem.

161 Lettera dell’Associazione dei Comuni italiani al Presidente del Consiglio dei Ministri, Luigi

Facta, in data 19 maggio 1922, in ACS, MI, DGAC, DABP, tr. 1922-1924, b. 2, fascicolo n.25200 «Disegno di legge n. 918. Domicilio di soccorso e funzionamento del Consiglio superiore di assistenza e beneficenza pubblica».

162 L’asilo infantile nell’assistenza della maternità e dell’infanzia, in «La difesa della stirpe», I, n.

1, pp. 16-26.

163

Relazione del Comitato pro-educazione infantile all’onorevole Alberto Pironti, in ACS, MI, DGAC, DABP, tr. 1922-1924, b. 3, fascicolo n. 25271.3 «Congresso nazionale per gli asili infantili».

39 economiche, non ricevendo peraltro finanziamenti da parte dello Stato e dei

Comuni, i cui bilanci erano a corto di risorse. Di conseguenza, il personale educativo non riceveva stipendi regolari, oltre a non avere una chiara posizione giuridica164.

Nel primo dopoguerra, il sistema italiano della beneficenza pubblica fu esposto a varie istanze di riordinamento e di riassetto perché troppo lacunoso.

Nel 1919, la Direzione generale dell’Amministrazione civile, retta da Alberto Pironti, prese in esame il disegno di riforma suggerito dal Presidente della Congregazione di Carità di Napoli, Giuseppe Miranda, il cui istituto, al pari degli altri operativi nel resto d’Italia, faticava a garantire un’assistenza completa perché non supportato adeguatamente dal governo sul piano economico. Numerose, infatti, erano le Congregazioni italiane senza alcun patrimonio da amministrare! Secondo il presidente Miranda, «il maggior cancro roditore delle fonti dell’assistenza e della beneficenza pubblica» era stato il riconoscimento dell’autonomia agli enti pii, malgrado gli accorgimenti presenti nella legislazione crispina165. Questo fatto, oltre ad aumentare le spese patrimoniali e di amministrazione, aveva impedito una linea d’intervento armonica ed unitaria. Il pregiudizio, inoltre, che la perdita dell’autonomia avrebbe frenato lo spirito altruistico di fondatori e benefattori, avevo danneggiato ulteriormente l’apparato benefico nazionale.

Il primo passo, quindi, verso una riforma radicale della beneficenza pubblica richiedeva di eliminare l’autonomia delle pie istituzioni attive in Italia e di

164 Lettera dell’Unione nazionale Educatrici infanzia al capo del governo, datata febbraio 1923, in

ACS, MI, DGAC, DABP, tr. 1922-1924, b. 3, fascicolo n. 25271.3 «Asili infantili e istituti educativi».

165

«Sono, inoltre, di regola, concentrate nella congregazione di carità: a) le istituzioni pubbliche di beneficenza esistenti nel comune che non abbiano una rendita netta superiore a 5000 lire; b) le istituzioni pubbliche di beneficenza di qualunque specie a beneficio degli abitanti di uno o più comuni che, insieme riuniti, abbiano meno di 10 mila abitanti; c) le istituzioni pubbliche di beneficenza esistenti nel comune, delle quali sia venuta a mancare e quelle per le quali non si possano costituire l’amministrazione e la rappresentanza per difetto di disposizioni nell’atto di fondazione. Se trattasi di istituzione a beneficio degli abitanti di più comuni, il concentramento ha luogo nella congregazione di carità del comune nel quale l’istituzione ha la sua sede principale». Art. 57: «Nell’intento di rendere più semplice e più economica l’amministrazione, di facilitarne il controllo e di procurare che riesca più efficace la beneficenza, può essere concentrata nella congregazione di carità, ogni altra istituzione di beneficenza esistente nel comune della quale non sia ordinato il concentramento a norma dell’articolo precedente». Art. 60: «Possono essere eccettuate dal concentramento o dalla riunione in gruppi, ordinati negli art. 54 e seguenti, quelle istituzioni, anche elemosiniere, le quali, avuto riguardo alla rilevanza del loro patrimonio, all’indole loro o alle speciali condizioni nelle quali esercitano la beneficenza, richiedano una separata amministrazione. Ma, ove trattisi di istituzioni elemosiniere, rimane fermo l’obbligo di procedere alla revisione degli statuti e dei regolamenti, secondo le norme stabilite nell’art. 55», cfr. legge 17 luglio 1890, n. 6972, articolo 56.

40 ricondurle sotto il controllo delle rispettive Congregazioni di Carità, rispetto alle

quali molti enti avevano paradossalmente accumulato un patrimonio di gran lunga maggiore. Era poi necessario istituire nei Comuni più popolosi, cioè a Roma, Milano e Napoli, Congregazioni di Carità più grandi, articolate in più uffici, per accelerare i tempi amministravi e gestire patrimoni comunali di beneficenza più corposi.

Un altro progetto di riforma prevedeva la nascita della Banca dell’assistenza e della beneficenza pubblica in cui far confluire tutto il patrimonio dei pii istituti, formato all’incirca da un miliardo di titoli di rendita pubblica di Stato e un miliardo e mezzo di beni immobili166; ed un altro ancora, invece, mirava a trasferire gli istituti di beneficenza fuori città rispettando gli obblighi scolastici dei giovani ricoverati. Quest’ultima possibilità era stata suggerita da un avvocato romano, il conte Enrico Pocci, per ridurre nella capitale i disservizi generati dal fenomeno dell’urbanesimo e garantire una maggiore disponibilità di appartamenti, cioè quelli lasciati liberi dalle pie istituzioni. Secondo il nobile romano, gli enti pii dovevano essere aperti in quei paesi dove c’era la disponibilità di conventi vecchi ed abbandonati che i Comuni dovevano cedere ben volentieri, anche a poco, piuttosto che vederli peggiorare nello stato di degrado in cui erano stati lasciati. Le Opere Pie, inoltre, potevano coprire le spese per impiantare altrove le loro attività vendendo gli stabili posseduti in città ed ottenendo dallo Stato prestiti di favore. Gli stessi ricoverati, specialmente gli adolescenti, avevano in questo modo l’opportunità di essere avviati al lavoro agricolo167

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