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CAPITOLO 5. ŠESTOV, L’ESISTENZIALISMO, IL PENSIERO INDIANO

5.1. La Bhagavad Gītā

Lev Šestov conosceva di sicuro e aveva meditato a fondo la Bhagavad Gītā. Il buddhismo, prima ancora. Possiamo affermarlo con certezza perché vediamo molti temi, concetti e passi della Gītā riemergere nelle pagine e nelle riflessioni šestoviane. Si pensi per esempio alle intense pagine šestoviane di Speculazione e

rivelazione. Si pensi al tema del bene e del male, dell’azione giusta, del tempo. Al

grande tema di Dio e del mondo. Al concetto di fede e di peccato. Alla lotta

contro le evidenze, che è anche uno dei pilastri fondamentali del buddhismo.

E’ inoltre sicuro che Šestov conoscesse due testi critici importanti sulla Gītā, pubblicati in Germania durante i suoi anni di studio: R. Garbe, Die Bhagavadgīta, uscito a Lipsia nel 1921, e H. Jacobi, Die Bhagavadgītā, pubblicato in Deutsche

Literaturzeitung, 24 dicembre 1921 e 8 aprile 1922. Šestov, inoltre, conosceva di

certo le riflessioni di Schopenhauer sul pensiero indiano. Shopenhauer1 come si evince da Il mondo come volontà e rappresentazione del 1844 non credeva che le persone avessero volontà individuali, ma che fossero semplicemente parte di una vasta e unica volontà che pervade l’ universo; il destino dell’uomo non è la felicità, essendo i desideri emotivi, fisici vani e solo temporaneamente appagabili. Non nutrendo né considerazione, né fiducia alcuna nell’ umanità, si spalancò per lui la porta della misantropia e del pessimismo. L’inganno dei fenomeni, il veleno

della materia, che appare anche a Šestov, viene infatti profondamente trattato in

India.

80 La Bhagavad Gītā, come viene detto nelle sue stesse pagine, è la scienza della

relazione con Dio, con il Supremo. La stessa scienza di Šestov. La Gītā è la

narrazione di quella grande battaglia delle anime di cui parlava Plotino.

E’ nell’ultima parte della sua vita che Šestov rilegge quotidianamente i testi indiani. Dice la Gītā2:

Dell’irreale non vi è esistenza. Del reale non vi è non esistenza. Gli uomini pieni di saggezza conoscono la verità ultima sulla realtà. L’Uno che pervade tutte le cose è imperituro[...]. Il Sé che dimora dentro, eternamente immutabile, in deperibile e illimitato, considera questi abiti corporei come aventi un termine[...]. Chi considera il Sé come l’uccisore, e chi pensa che Esso possa venire ucciso, nessuno di questi conosce la verità. Perché il Sé non uccide né può essere ucciso. Questo Sé non è mai nato né perisce. Né essendo venuto in esistenza cesserà mai di essere. Esso è senza nascita, eterno, immutabile, sempre se stesso.

Il punto da cui muove la Gītā è lo stesso di Kierkegaard quando il pensatore danese scrive3:

Senza rischio non vi è fede. La fede è appunto la contraddizione tra l’infinita passione dell’interiorità e l’ incertezza obiettiva. Se posso cogliere Dio obiettivamente, vuol dire che non credo.

E Šestov?

Ma osserviamo più in dettaglio, e vediamo di comprendere i motivi dell’avvicinamento di Šestov a questi testi e ai percorsi indiani. La Bhagavad Gītā è il libro sacro più celebre della tradizione spirituale dell’India: è composta da diciotto capitoli e da settecento versi e contiene un dialogo iniziatico in cui Krishna, che nell’opera personifica il supremo e divino Assoluto, svela ad Arjuna la conoscenza trascendentale capace di risolvere tutti i misteri dell’essere.

Sebbene da tutte le scuole di ricerca spirituale la Gītā sia ritenuta un libro completo e a sé stante, essa risulta inserita all’interno del grandioso poema

2

Bhagavad Gītā, Adelphi, Milano, 1984.

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Mahābhārata del quale occupa solo una sezione, o stanza, del sesto libro dei

diciotto che lo compongono. Nella sua forma integrale questo gigantesco poema si compone di quasi centomila strofe ed è ancora oggi la più estesa composizione mai scritta dall’umanità. Dopo aver formulato numerose teorie controverse, gli studiosi tendono oggi a datare la stesura del Mahābhārata attorno al 400 a.C., anche se esso narra avvenimenti che sarebbero avvenuti molto tempo prima.

Nel suo racconto centrale, che è costellato da numerose storie secondarie, si narrano le mitiche vicende di una dinastia di regnanti dell’alta pianura del Gange, ovvero gli antenati del popolo ariano. Tali storie tracciano lo scenario nel quale la

Bhagavad Gītā si sviluppa. In particolare vi si racconta di un re di nome Pandu

che morendo ancora giovane lasciò la moglie Kunti con cinque figli in tenera età. Il maggiore di essi era Yudhisthira, mentre Arjuna era il mediano, nonché coetaneo del cugino materno Krishna. Essendo tutti ancora troppo giovani per governare il regno, la reggenza del trono venne temporaneamente affidata al fratello cieco del re Pandu, il re Dhritarashtra, che a sua volta aveva numerosi figli di cui il maggiore si chiamava Duryodhana. Questi bramavano molto il potere e ordirono quindi ogni genere di intrighi per escludere dalla discendenza i cugini Pandava che erano gli eredi legittimi. Così la regina Kunti e i cinque fratelli vennero costretti a un difficile esilio e sottoposti a vari oltraggi. Una volta divenuti adulti essi rivendicarono i loro diritti; in realtà si sarebbero accontentati anche di un piccolo territorio su cui regnare, ma ogni trattativa naufragò per via della prepotenza dei figli di Dhritarashtra che nel frattempo si erano appropriati del trono e avevano intessuto numerose alleanze con altri governanti che li sostenevano per interessi personali. Il regno di Hastinapura, oggetto della disputa, aveva allora un’importanza politica e strategica in tutta l’alta valle del Gange, quindi anche gli stati vicini si schierarono a favore degli uni o degli altri contendenti e si stava prospettando una gigantesca guerra per la successione. Il fallimento di tutte le proposte di risoluzione pacifica aveva infatti reso ormai inevitabile la guerra e gli schieramenti andavano già a comporsi. Ai due rivali il divino Krishna propose di scegliere di avere dalla loro parte una guarnigione di

82 suoi uomini armati, oppure Lui stesso, ma solo in qualità di consigliere, perché Egli espresse la sua volontà di non voler combattere in prima persona. Arjuna scelse di avere accanto a sé il cugino Krishna che divenne quindi l’auriga del suo carro da combattimento. Duryodhana fu invece ben felice di accogliere tra le sue file i suoi soldati. Lo scontro armato venne programmato sull’altopiano di Kurukshetra, luogo ritenuto sacro perché qui erano stati compiuti importanti riti sacrificali dagli avi della dinastia Bharara da cui tutti loro discendevano. Il re cieco Dhritarashtra, padre dei principi usurpanti, nel corso delle ostilità era assistito dal suo consigliere Sanjaya, al quale il saggio Vyasa aveva fatto dono del magico potere di vedere e di sentire tutto ciò che accadeva nell’immenso campo di battaglia, così che potesse raccontare le vicende dello scontro armato al sovrano non vedente.

Partendo da questa scena e per tutto il primo capitolo della Gītā, troveremo quindi Sanjaya che descrive al re cieco Dhritarashtra la situazione sul campo di battaglia. Verranno elencati i nomi dei più importanti guerrieri schierati e sarà descritto il grande turbamento d’animo che investì Arjuna per il fatto di dover combattere contro i suoi parenti e amici. In un tale stato di smarrimento egli chiese consiglio a Krishna su come comportarsi nella drammatica circostanza in cui si trovava.

Questa scena introduce perciò al secondo capitolo, dove saremo già nel vivo del mistico dialogo tra Krishna e Arjuna che avvenne nel bel mezzo del campo di battaglia.

Per il modo in cui la Bhagavad Gītā descrive la realtà spirituale e per il suo carattere iniziatico che la rende sempre nuova anche dopo averla letta più volte, essa viene catalogata tra le Upanishad, che sono le scritture sapienziali destinate agli studi superiori. Tuttavia essa è collocata all’interno del Mahābhārata, che sebbene sia un’opera mastodontica, secondo la visione del Vedanta era destinata all’istruzione dei ceti più popolari.

Ma è proprio questa la ragione che rende la Gītā una Scrittura Sacra particolarmente completa e accessibile: le altre Upanishad, infatti, considerano

83 molti argomenti come già acquisiti e catapultano subito lo studente sul piano trascendentale; perciò numerose di queste opere sono meno accessibili a un pubblico impreparato.

In ogni caso l’autorevolezza della Gītā è fuori discussione ed essa è riconosciuta da tutte le scuole tradizionali induiste come detentrice della Verità assoluta e di come poterla raggiungere; tutte affermano che, se davvero compreso, questo testo sacro può bastare anche da solo a guidare l’uomo verso il sommo Bene e la Comprensione ultima anche se poi si differenziano per quanto riguarda la sua interpretazione.

Infatti il divino Krishna, che nell’opera incarna il supremo Principio divino, può essere interpretato e concepito in maniera diversa: le scuole personaliste lo considerano come Dio, come l’Essere perfettissimo e onnipotente che nella Gītā parla alle anime condizionate, mentre altre scuole lo considerano come quell’Assoluto onnicomprensivo impersonale detto Brahman, che attraverso uno stratagemma parla a noi, o per meglio dire parla a Se stesso.

Quindi, nel corso della lettura, chi vorrà intendere il supremo Principio divino come Dio, l’Essere supremo, considererà le descrizione riferite al Brahman come la suprema Energia divina che si emana dall’Essere supremo e originale, e non lo intenderà come Fine ultimo a Se stesso.

Chi invece ha una comprensione impersonale e non dualistica del supremo Principio divino, intenderà il supremo Brahman come la Realtà assoluta e quando Krishna si esprimerà in prima persona dicendo Io o Me, intenderà questi pronomi come indicanti il supremo Brahman impersonale non differente da Sé, che attraverso Krishna si rispecchia e si descrive nella Gītā.

Se poi nel lettore non trova spazio alcuna concezione di Dio, si può leggere la

Gītā immaginando che Krishna rappresenti l’espressione dell’Infinito cosmico,

ciò che ci circonda con i suoi infiniti abissi spazio–temporali e le sue innumerevoli galassie; o ancora possiamo ascoltarlo come fosse una sorta di coscienza profonda che racconta a se stessa la propria storia infinita.

84 Di fatto la Gītā è incredibile proprio perché, a prescindere dalla concezione di vita di chi la legge e del modo in cui la si voglia comprendere, essa ha sempre e comunque qualcosa di molto interessante da comunicare.

Anche se volessimo leggerla da un punto di vista puramente razionale e antropologico, la Gītā rappresenterebbe infatti e comunque una conoscenza molto arricchente, perché senz’altro essa è tra le più ardue e complesse espressioni costruttive dell’intelletto umano mai prodotte dai nostri predecessori.

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5.2. Struttura della Gītā

La materia della Bhagavad Gītā è, abbiamo visto, estremamente profonda ed appassionante, come il pensiero di Šestov. Ed è in profonda consonanza con il lavoro ed il pensiero di Šestov, dal suo pensiero su Giobbe ed Abramo, alla sua meditazione sul peccato originale. Osserviamo in dettaglio come la materia viene distribuita.

Nel primo capitolo, infatti, che si apre sul campo di battaglia di Kurukshetra, gli eserciti sono schierati e pronti alla battaglia. Arjuna, il guerriero potente, scorge i suoi parenti, maestri ed amici nelle file dell’esercito opposto, pronti alla guerra e al sacrificio della vita. Sopraffatto dal dolore e compassione, Arjuna sente le forze che lo abbandonano; è confuso e non vuole più combattere.

Nel secondo, prima della battaglia, Arjuna si sottomette a Krishna e lo accetta come suo Maestro. Krishna inizia l’insegnamento spiegando ad Arjuna la differenza principale tra il corpo che è di materia e temporaneo e l’anima che è invece spirituale ed eterna. Krishna spiega anche la reincarnazione e le caratteristiche di una persona realizzata sul piano spirituale.

Nel terzo, dedicato al Karma Yoga, si spiega come in questo mondo ognuno deve impegnarsi in qualche attività. Ma è necessario sapere e capire quali siano le azioni giuste, perché il compimento delle azioni può determinare la liberazione dell’individuo dalle corde che lo legano a questo mondo, oppure può condannarlo a rimanere qui in eterno. Krishna spiega che agendo esclusivamente per il piacere di Dio, liberi dall’egoismo, ci si può liberare dalle leggi del Karma e raggiungere la conoscenza trascendentale del Supremo.

Il quarto capitolo è dedicato alla conoscenza trascendentale. La conoscenza spirituale dell’anima e di Dio e la loro relazione reciproca, liberano e purificano l’anima dell’individuo condizionato. In questo capitolo Krishna spiega la storia della Gītā dalle sue origini e spiega il motivo ed il significato delle sue periodiche

86 discese in questo mondo. Spiega anche il motivo per il quale è necessario avvicinarsi ad un Guru.

Il quinto affronta l’azione in coscienza di Krishna, che spiega come, anche se apparentemente impegnato in qualsiasi attività, ma rinunciando al frutto dell’azione, la persona saggia, purificata dal fuoco della conoscenza trascendentale, raggiunge il distacco, la tolleranza, la pace, la visione spirituale e la felicità.

Il sesto è sul Dhyana Yoga. Il metodo di meditazione meccanico che permette di gestire e la mente e i sensi è l’Ashtanga Yoga. Questo metodo fa concentrare la mente sul Paramatma, la forma del Signore situata nel cuore.

Il settimo parla della conoscenza dell’Assoluto Krishna; è la Causa suprema, la Verità suprema, la Forza che sostiene tutto quello che esiste, che sia materiale o spirituale. Le anime sagge si arrendono a Lui. Le anime empie invece, concentrano la loro mente su altri oggetti di adorazione.

L’ottavo mostra come raggiungere l’Assoluto. Se un individuo si ricorda di Krishna durante tutta la sua vita, e soprattutto nell’importante momento della morte, raggiungerà la sua Dimora suprema.

Il nono descrive la conoscenza più confidenziale. Krishna è il supremo Oggetto di adorazione. L’anima ha una relazione eterna con Lui che si instaura attraverso il servizio di devozione che gli viene offerto. Chi risveglia la propria devozione pura, torna da Krishna nella sua dimora spirituale.

Il decimo è descritto come il canto dell’opulenza dell’Assoluto .Ogni fenomeno straordinario di questo mondo materiale o del mondo spirituale, sono le manifestazioni parziali dell’opulenza e dell’energia divina di Krishna. Egli è il supremo Oggetto di adorazione per ogni essere vivente. E’ la Causa suprema di tutte le cause, ed è il Sostegno e l’Esistenza di ogni cosa.

L’undicesimo mostra la forma universale. In questo capitolo, infatti, Krishna si rivela ad Arjuna nella sua illimitata e spettacolare forma di universo cosmico.

87 Il dodicesimo è dedicato alla devozione. Coloro che seguono il sentiero del

Bhakti Yoga (puro servizio devozionale offerto a Krishna) sviluppano qualità

divine. Questa è la strada più elevata ed efficace per arrivare al puro amore per Krishna, che è la meta più elevata della nostra esistenza spirituale..

Il tredicesimo affronta la natura, il beneficiario, la coscienza. In questo canto si mostra come l’individuo che riesce a comprendere la differenza tra anima, corpo ed Anima suprema, che è situata al di là di entrambi, è destinata a raggiungere la liberazione da questo mondo materiale.

Il quattordicesimo descrive le tre influenze della natura materiale. Ogni anima incarnata è soggetta al controllo delle tre influenze della natura materiale: la virtù, la passione e l’ignoranza. In questo capitolo Krishna spiega le caratteristiche di queste tre influenze, e come agiscono su di noi. Spiega anche come è possibile non lasciarsi influenzare da esse, e spiega nei dettagli i sintomi di colui che raggiunge lo stato trascendentale.

Il quindicesimo mostra lo Yoga della Persona suprema. L’obiettivo supremo degli insegnamenti vedici mira alla comprensione che Krishna è Dio, la Persona suprema. L’obiettivo è anche quello di ottenere la liberazione dalla prigionia di questo mondo. Colui che riesce a comprendere la suprema Identità di Dio, automaticamente si arrende a Lui e gli rende omaggio e servizio con devozione.

Il sedicesimo narra la natura divina e la natura demoniaca. Tutti gli individui con caratteristiche demoniache, non seguono le regole. Coloro che sono caratterizzati da attributi demoniaci vivono a modo loro, senza seguire le regole delle Scritture Sacre, dei precetti. Vivendo a modo loro, sono costretti a rinascite inferiori e quindi dovranno sottostare ad ulteriori legami materiali che continueranno a tenerli legati a questo mondo. Gli individui che invece hanno caratteristiche

divine rispettano le Scritture e vivono in maniera regolata, raggiungendo così,

progressivamente, la perfezione spirituale.

Il diciassettesimo spiega le divisioni della fede. In corrispondenza alle tre influenze della natura materiale, esistono tre categorie di fede. Le azioni compiute

88 da chi ha una fede soggetta all’ignoranza e alla passione, produce risultati materiali momentanei. Invece, le azioni fatte sotto l’influenza della virtù e che seguono le Scritture Sacre, purificano il cuore e guidano verso la fede per Krishna.

Il diciottesimo illustra la perfetta rinuncia .In quest’ultimo capitolo, Krishna affronta e spiega ad Arjuna il significato di rinuncia e gli effetti delle tre influenze della natura sull’attività umana e sulla coscienza. Spiega inoltre la realizzazione del Brahman, e la conclusione della Gītā, che consiste nel seguente concetto principale: il sentiero più elevato da percorrere è quello dell’abbandono nell’amore incondizionato ed assoluto a Krishna.

Questo amore libera l’individuo da ogni colpa, porta alla realizzazione trascendentale e ci apre le porte della dimora spirituale ed eterna di Dio, Krishna, la Persona suprema.

Questa è solo la semplice indicazione dell’architettura, dell’ossatura della Gītā. Eppure vi si possono riscontrare infiniti contatti con la riflessione ed il percorso di Šestov.

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5.3. La Bhagavad Gītā e la filosofia

Šestov giunge filosoficamente all’India. Tutti i grandi pensatori e filosofi si sono interrogati da sempre su quali fossero le basi per/del comportamento etico e morale corretto. Ovviamente tutti i sistemi etici sono sempre stati fortemente influenzati dai valori etici insiti nella cultura e nella società di appartenenza di chi li enunciava. Quindi in realtà leggendo gli scritti etici dei vari pensatori, filosofi, scrittori, ecc , più che altro possiamo avere una idea dei valori comunque legati alla loro civiltà di appartenenza.

Aristotele4 ad esempio dice che ogni azione viene compiuta per un fine che appare buono e desiderabile a chi compie l’azione. Alcuni fini sono mezzi per fini superiori. Il fine sommo da perseguire e desiderabile di per se stesso è la felicità. La felicità secondo Aristotele è un piacere continuo e duraturo ed il piacere è più alto quanto più alta è l’azione che lo causa. Aristotele conclude poi che il compito proprio dell’uomo è la vita secondo ragione e che perciò il vivere secondo ragione è la fonte massima di felicità. Il piacere deriva quindi dalla vita virtuosa ed i beni possono rendere più facile o difficile il conseguimento della virtù ma la scelta di quest’ultima dipende solo dall’uomo che quindi è libero, non di determinare il proprio fine quanto di scegliere o meno di perseguirlo e scegliere quali mezzi adottare.

Questo esempio ci fa principalmente capire il ruolo fondamentale della ragione secondo Aristotele per il quale ogni altro valore era ad essa assoggettato. Solo per avere un esempio con il quale raffrontare Aristotele prendiamo invece il grande filosofo tedesco cristiano Dietrich Bonhoeffer per il quale l’etica cristiana, a differenza che per il razionalismo etico, il bene sommo è la volontà di Dio che si dà nella rivelazione di Cristo, la quale ha indubbiamente una maggiore vicinanza alla realtà di ogni idea o ideale razionale, poiché non è un’astrazione, ma il fondamento della realtà stessa.

90 In questi due esempi possiamo vedere come le basi dell’etica sono completamente differenti. L’interrogativo quindi rimane aperto anche se vagliassimo molti altri illustri filosofi e pensatori. Per quel che riguarda lo Yoga in senso più alto non vi sono precetti etici. Certo leggendo gli Yoga Sutra della tradizione indiana classica, ma analizzando approfonditamente questi precetti come gli altri contenuti in testi anche di molto antecedenti agli Yoga Sutra stessi, risulta chiaro che i principi etici secondo lo Yoga non vanno ricercati nei testi e presi dogmaticamente, ma vanno ricercati dentro di sé attraverso la meditazione. Più precisamente potremmo dire, in quanto la meditazione è in fondo solo un mezzo, attraverso il perfetto

allineamento del proprio essere con il momento presente.

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