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CAPITOLO 4. ŠESTOV SULLA BILANCIA DI GIOBBE

4.2. Giobbe e Kierkegaard

E’ noto il fatto che Šestov inizia a leggere Kierkegaard su consiglio di Husserl: è il filosofo russo stesso a raccontarlo. Ciò che lo avvicina a Kierkegaard è la sua critica di Hegel e del razionalismo, e la sua analisi della figura di Abramo come uomo religioso, il cui affidarsi a Dio è totale. Šestov è molto colpito, anche, dall’analisi dell’esistenza fatta da Kierkegaard4. La sua adesione al cristianesimo appare come un motivo propulsore del suo pensiero. Egli, infatti, rivendica la singolarità dell’ esistenza (filosofo esistenzialista) individuale e il primato della fede. La sua filosofia è essenzialmente una ricerca vitale che investe direttamente l’esistenza umana. Secondo Kierkegaard, infatti, l’esistenza è il regno della libertà: l’uomo, con il suo libero arbitrio, è ciò che sceglie di essere, è quello che diventa. Ci sono tre alternative fondamentali nella vita umana: lo stadio estetico, quello etico e quello religioso. Tra uno stadio e l’altro vi è un salto e un abisso; ognuno di essi rappresenta un’alternativa che esclude l’altra. Una dicotomia senza sintesi.

Nello stadio estetico, l’esteta è colui che vuole vivere nell’attimo, cercando di coglierne la pienezza. Egli intende fare della sua vita un’opera d’arte, da cui sia bandita la noia, la tristezza, la monotonia. Godi la vita e vivi il tuo desiderio, dice l’estetica, che trova il suo modello nella figura del Don Giovanni (riflessioni contenute ne il Diario di un seduttore, che è uno dei capitoli di Aut–aut –Enten–

eller–, scritto nel 1843), il quale sa porre il suo godimento nella limitazione e

nell’intensità dell’appagamento. In questo stadio però non è possibile, secondo Kierkegaard, né scelta autentica né libertà: infatti l’esteta lascia alle circostanze decidere per lui. Inoltre l’ultimo sbocco della vita estetica è la disperazione. Essa sorge dall’aver voluto basare la vita solo su se stesso e non sugli altri e su Dio.

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Chiunque vive esteticamente è disperato, lo sappia o non lo sappia; anzi, forse più di ogni altro è disperato colui che non sente in sé nessuna disperazione.

Ma se la radice della disperazione sta nel volersi accettare dalle mani di Dio, allora è chiaro che l’esistenza autentica è quella disponibile all’amore di Dio, quella di colui che non crede più a se stesso ma soltanto a Dio.

Vi è poi lo stadio etico: esso implica una stabilità e una continuità che la vita estetica, come incessante ricerca della varietà, esclude da sé. Nella vita etica, l’uomo si sottopone ad una forma, si adegua all’universale e rinuncia ad essere l’eccezione. La vita etica è raffigurata dalla figura del marito (l’Assessore Guglielmo) e dall’elogio del matrimonio. E’ l’uomo che sceglie se stesso, che in questa scelta afferma la continuità della sua vita, l’impegno e non la fuga dalle responsabilità; in una parola, accetta la ripetizione. Essa è la possibilità di riconfermare il passato, accettando ogni volta e in modo nuovo di amare la stessa donna, di avere gli stessi amici, di esprimersi nella stessa professione. La

ripetizione indica la serietà della vita, è il coraggio etico della vita. Come uomo

etico, il marito ha il dovere di conformarsi alla legge morale che è universale, ma nello stesso tempo egli rischia di perdere nella anonimità e nella folla la sua personalità e la sua autonomia. Inoltre nello stadio etico ci si imbatte nella contraddizione del pentimento. Infatti, se l’uomo sceglie se stesso fino in fondo, trova, secondo Kierkegaard, la propria origine, cioè Dio, nel senso che c’è in noi un’ansia di infinito che non si lascia racchiudere nei limiti di marito e lavoratore. Ma poiché di fronte alla maestà divina l’unico sentimento che l’uomo può provare è quello della propria inadeguatezza morale, cioè della propria colpevolezza, l’esito finale della vita etica è appunto il pentimento. L’uomo etico viene così messo di fronte al peccato, il quale però non è più una categoria etica bensì religiosa. Col pentimento dunque si esce dalla sfera dell’etica per entrare in quella della religione, il che richiede il salto della fede, che è un salto ancora più radicale di quello che divideva l’ambito etico da quello estetico.

69 Lo stadio religioso, la fede, va al di là dello stesso ideale etico della vita. Il simbolo della fede è visto da Kierkegaard nella figura di Abramo (a cui Kierkegaard dedica l’opera Timore e tremore, sempre nel 1843), perché egli accetta il rischio della prova impostagli da Dio, accetta il rischio di porsi di fronte a Dio nel silenzio e nella solitudine, come un singolo di fronte all’Altissimo. La fede va al di là della stessa morale perché Dio ordina ad Abramo di sacrificargli il figlio, quindi di commettere un omicidio. Come poter accettare una simile prova? Ma la fede consiste proprio in quel rischio, nell’accettazione del paradosso e della prova. L’atto di fede implica una rottura recisa con la razionalità ed esige il passaggio, il salto, ad una sfera che è incommensurabile con la ragione naturale. L’oggetto della fede urta contro la ragione che pretende di spiegare e di esaurire tutto e non ammette nulla sopra di sé: per essa, che non vuole credere, l’oggetto della fede è un assurdo. Per il credente, che ammette la trascendenza ed è convinto che a Dio nulla è impossibile, esso è un paradosso. Il paradosso nella verità religiosa dipende dal fatto che essa è la verità così come lo è per Dio. Qui si usano una misura ed un criterio sovraumani, e rispetto a questo una sola situazione è possibile: quella della fede. Proprio per il paradosso come tale il credente è portato a credere, e non per una evidenza logica. Kierkegaard esprime questo con la formula: comprendere che non si può, né si deve comprendere. Lo scandalo è per Kierkegaard il momento cruciale nella prova della fede, il punto di resistenza e perciò il segno della trascendenza della verità cristiana di fronte alla ragione. Lo

scandalo indica il soccombere della ragione perché è il rifiuto di comprendere di non comprendere, giacché la ragione vuole solo comprendere. Per Kierkegaard

l’origine dello scandalo nasce dal fatto che l’uomo non si pone come singolo davanti a Dio, e cioè non accetta la misura di Dio. Quando ci poniamo davanti a Dio non c’è più spazio per finzioni, mascheramenti, illusioni; vi è innanzitutto la scoperta che c’è un’infinita, abissale differenza qualitativa tra Dio e l’uomo, e cioè che l’uomo non può assolutamente nulla, che è Dio a dare tutto. Ma oltre a questo si tratta, nel cristianesimo, di ammettere che Dio stesso si è messo in rapporto con l’uomo, che Dio è entrato nel tempo, che l’Eterno si è incarnato in un uomo, e questo dà scandalo! L’oggetto dello scandalo è proprio la figura di

70 Cristo, cioè è scandaloso credere che un uomo singolo sia Dio, che Gesù sia Dio. Le forme dello scandalo, a questo riguardo, sono per Kierkegaard, tre : considerare Gesù come un semplice uomo in conflitto con l’ordine stabilito (è lo

scandalo che Gesù provocò sui Farisei e gli scribi); oppure lo scandalo nel senso

dell’elevatezza: se è un uomo, non può essere Dio, anche se Lui agisce come se fosse Dio, dice di essere Dio (è lo scandalo dei nemici di Cristo); o ancora, lo

scandalo in direzione dell’umiliazione, che colui che pretende di essere Dio

appare come un uomo povero, sofferente, impotente (è tipico di coloro che hanno solo ammirazione per Cristo). Ora, la fede in Cristo è proprio superamento dello

scandalo ed accettazione del paradosso che è l’uomo–Dio; è accettazione del

fatto che la chiesa sia militante e non trionfante. E questo può essere fatto solo con una scelta di fede.

La scelta di fede, quindi l’accettazione del paradosso e il superamento dello

scandalo, può portare all’angoscia. Se l’esistenza è libertà, vuol dire che noi

abbiamo comunque sempre la possibilità di scegliere qualsiasi alternativa. L’angoscia è la coscienza della nostra terribile libertà: tutto ci è possibile, quindi possiamo anche perderci, andare incontro al disvalore, al nulla. L’angoscia è il puro sentimento del possibile; è il senso di quello che può accadere e che può essere molto più terribile della realtà. L’angoscia caratterizza la condizione umana: chi vive nel peccato è angosciato dalla possibilità del pentimento; chi è libero dal peccato, vive nell’angoscia di ricadervi. Ma l’importante è capire che l’angoscia forma: essa infatti distrugge tutti i limiti, tutte le nostre presunte certezze assolute, scoprendo tutte le loro illusioni.

Se l’angoscia è tipica dell’uomo nel suo rapportarsi col mondo, la disperazione è propria dell’uomo nel suo rapporto con se stesso. Abbiamo già visto, parlando dell’esteta, che cos’era la sua disperazione. Qui possiamo aggiungere che essa è l’incapacità di risolvere il rapporto con se stessi; è la colpa dell’uomo che non sa accettare se stesso nella sua profondità; è vivere, giorno dopo giorno, la propria incapacità di vivere, cioè è un eterno morire senza tuttavia morire fisicamente; essa è dunque la malattia mortale, non perché conduca alla morte dell’io, ma

71 perché è il vivere la morte dell’io. Il credente però possiede il contravveleno sicuro contro la disperazione: è la fede, il credere che a Dio tutto è possibile. La fede è l’eliminazione della disperazione, per cui l’uomo, pur orientandosi verso se stesso e volendo essere se stesso, non si illude della sua autosufficienza ma riconosce la sua dipendenza da Dio. La fede sostituisce alla disperazione la speranza e la fiducia in Dio. Ma porta l’uomo al di là della semplice razionalità: essa è, come sappiamo, paradosso e scandalo. Per questi concetti, Kierkegaard diventa uno dei pensatori principali di riferimento per Šestov. Scrive infatti Kierkegaard in Timore e Tremore6 :

Ci furono uomini grandi per la loro energia, per la saggezza, la speranza o l’amore. Ma Abramo fu il più grande di tutti: grande per l’energia la cui forza è debolezza, grande per la saggezza il cui segreto è follia, grande per la speranza la cui forma è demenza, grande per l’amore ch’è odio di se stesso. Fu per fede che Abramo lasciò il paese dei suoi padri e fu straniero in terra promessa. Lasciò una cosa, la sua ragione terrestre, e un’altra ne prese: la fede. Altrimenti, pensando all’assurdità del suo viaggio, non sarebbe partito. Fu per fede uno straniero in terra promessa ove nulla gli ricordava quel che egli amava, mentre la novità di tutte le cose gli poneva in cuore la tentazione d’un doloroso rimpianto[ ...]. Fu per fede che Abramo ricevette la promessa che tutte le nazioni della terra sarebbero state benedette nella sua posterità. Il tempo passava, la possibilità rimaneva, Abramo credeva. Il tempo passò, la speranza diventò assurda, Abramo credette. E’ pure esistito nel mondo colui che ebbe una speranza. Il tempo passò, la sera fu al suo declino, e quell’uomo non ebbe la viltà di rinnegare la sua speranza[...]. Poi conobbe la tristezza; e il dolore, invece di deluderlo come la vita, fece per lui tutto quel che poté e, nella sua dolcezza, gli dette il possesso della sua speranza ingannata. E’ umano conoscere la tristezza, umano condividere la pena di chi è afflitto, ma è cosa più grande credere, e più confortevole e benefica cosa contemplare chi crede. Abramo non ci ha lasciato lamentazioni. Non ha contato tristemente i giorni man mano che trascorrevano; non ha guardato Sara con occhio inquieto per vedere se gli anni incidevano rughe sul suo volto; non ha fermata la corsa del sole per impedire a Sara di invecchiare, e Sara fu schernita nel paese. Eppure era l’eletto di Dio e l’erede della promessa[...]. Non sarebbe forse stato meglio che egli non fosse stato l’eletto di Dio? Che cosa significa dunque essere l’eletto di Dio? Significa vedersi rifiutare nella primavera della vita quello che è il

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desiderio della giovinezza, per essere esaudito in vecchiaia dopo grandi difficoltà. Ma Abramo credette e serbò fermamente la promessa, cui avrebbe rinunciato se avesse dubitato. Avrebbe detto a Dio, allora: «Forse non è nella tua volontà che questo mio desiderio si realizzi. Rinuncio dunque al mio desiderio, all’unico mio desiderio, nel quale riponevo la mia felicità. La mia anima è onesta, e non nasconde nessun astio segreto per il tuo rifiuto». Non sarebbe stato dimenticato. Avrebbe salvato molti col suo esempio ma non sarebbe diventato il padre della fede, perché è grande cosa rinunciare al proprio desiderio più caro, ma è cosa più grande serbarlo dopo averlo abbandonato. Grande è cogliere l’eterno, ma è più grande cosa riavere il transeunte, dopo averne fatto rinuncia.

Giobbe è dunque per Šestov come Abramo, perché accetta e ama perfino quel che gli accade. E Cristo, con il suo sacrificio, che è il sacrificio di Dio stesso, prosegue sulla via di Abramo e Giobbe. Questa è la via religiosa che Kierkegaard e Šestov mostrano e discutono. Non è un caso infatti che il lungo studio che Šestov dedica a Kierkegaard si apre con una introduzione in cui l’autore mette a confronto il pensiero del filosofo danese con quello di Dostoevskij. E’ proprio l’immagine di quel Dio vivente di cui parla a lungo l’autore de L’idiota, dice Šestov, che si ritrova nel pensare intenso di Kierkegaard. E’ il Dio che entra nelle

carni. La ferita è dunque il segno della presenza di Dio. E’ dunque,

paradossalmente, un mondo in contraddizione, un mondo che non si può spiegare, un mondo che non si può capire in toto, che è segno della presenza di Dio, e non il contrario. Scrive infatti Šestov nell’introduzione intitolata Kierkegaard e

Dostoevskij7 :

Ed ecco che la filosofia esistenziale di Kierkegaard, come la filosofia di Dostoevskij, si decide a opporre alla verità speculativa la verità rivelata. Il peccato non si trova in ciò che uscì dalle mani del Creatore; il peccato, il vizio, la mancanza sono nel nostro ‘sapere’. Il primo uomo ebbe paura della libertà illimitata del Creatore, vi vide quell’‘arbitrario’ che per noi è tanto terribile, e cercò protezione presso il sapere che, come gli aveva suggerito il tentatore, lo avrebbe eguagliato a Dio, cioè lo avrebbe collocato insieme a Dio nella stessa dipendenza dalle verità eterne e increate, rivelando l’unità delle nature divina e umana. Questo ‘sapere’ appiattì, schiacciò la sua coscienza introducendola nell’orizzonte delle possibilità limitate che

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da allora in poi determinarono il suo destino, terreno ed eterno. Così la Scrittura descrive la ‘caduta dell’uomo’.

Proprio per questo il primo capitolo del libro è dedicato al rapporto fra Giobbe ed Hegel. L’obiettivo del pensiero di Hegel, il suo raggiungimento, è un mondo totalmente razionale, in cui ciò che esiste e ciò che si può comprendere coincidano totalmente. Questo non sarà mai possibile, è l’utopia del razionalismo, è una sorta di fine del mondo, secondo Šestov; e l’esperienza di Giobbe è lì a dimostrarlo. L’esperienza dell’esistenza è esperienza di sofferenza, sofferenza ineliminabile, che va accettata e presa su di sé. E’ questa esperienza che Šestov chiama, con Kierkegaard, la scheggia nelle carni. Credere a un tale Dio, ammette Šestov, può essere uno scandalo: un Dio per il quale la fede è sofferenza e non pacificazione, è battaglia delle anime – come diceva Plotino – e non serenità. Ma anche questo fa parte del mistero che sarà sciolto alla fine dei tempi. Voler sciogliere il mistero, voler capire, è compiere di nuovo la ribellione di Adamo ed Eva. Restare con Dio, non cogliere la mela, non assaggiarne, significa invece seguire la fede. Scrive infatti su questo tema Šestov8 :

E solo la fede che Kierkegaard, sempre conformemente alla Scrittura, intende come lotta disperata per il possibile, cioè – nel nostro linguaggio – per l’impossibile (dal momento che supera le evidenze), solo la fede può liberarci dall’immenso peso del peccato originale e permetterci di rialzarci, di risollevarci. La fede non è quindi fiducia in quello che ci è stato detto, ci è stato insegnato[…]. La fede è una nuova dimensione del pensiero, sconosciuta, estranea alla filosofia speculativa.

Del resto, la verità della fede non è per Kierkegaard una verità da dimostrare, ma è piuttosto una verità da testimoniare. Kierkegaard afferma, a questo proposito, che la soggettività, l’interiorità è la verità intendendo non certo che la verità è soggettiva o relativa, ma che la verità è tale quando è scelta e vissuta in prima persona, quando è una verità per me, per la quale io possa vivere e anche morire. E questa è proprio la verità quale mi viene dal cristianesimo: esistere vuol dire rapportarsi alla verità che è Cristo, vuol dire scegliere di vivere la fede,

74 testimoniando con la propria vita l’importanza della verità in cui si crede, contro ogni speculazione astratta, che non metta in questione il singolo, l’individuo.

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