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Una bottega per Jacopo da Fabriano

1.3 Il mercato del libro di lusso a Roma e la cultura degli studioli

1.3.2 Una bottega per Jacopo da Fabriano

Grazie all’immediato successo dei miniatori specializzati nella decorazione umanistica, che già avevano conquistato la corte di Niccolò V, in breve tempo il panorama romano venne sempre più dominato dalla moda dell’ornato all’antica, ponendo le premesse per la piena fioritura della produzione manoscritta rinascimentale degli anni sessanta.

Anche negli anni del regno di Callisto III continuavano quindi ad essere operativi in ambito curiale miniatori come Gioacchino e Andrea, ma così pure Jacopo da Fabriano, il cui esordio si lega al citato Vat. lat 1799, eseguito nel 1452 per Jean Jouffroy (fig. 23). Seguono a breve distanza due manoscritti da lui decorati per il curialista Gilforte Bonconti (o Guglielmo Forte dei Buonconti) di Pisa, decretorum doctor, dottore di diritto canonico, che entrato nell’amministrazione curiale nel 1448, divenne tesoriere generale di Pio II dal 1461 fino alla morte nel 1462.

Oltre ad un Livio, Historiae Romanae decas III (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, cod. 14, Hist. Prof. 63), Jacopo è autore di un ben noto De civitate dei di Sant’Agostino del 1456, il Reg. lat. 1882 (fig. 46-49).160 Nel monumentale volume di 453 fogli (mm 430 x 290) più volte compaiono gli stemmi Bonconti (alle cc. 9v, 20r, 37v, 49r, 55v, 174r, 189r, 191v, 208v, 304r, 413v), sostituiti alle carte 2r e 3r dal blasone cardinalizio di Francesco Todeschini Piccolomini, nipote di Pio II e futuro Pio III (1503). Sull’originario committente informano le annotazioni stesse del fabrianense a c. 170v (fig. 47) «HOC OPUS FECIT FIERI DOMINUS GILI.FORTIS DE BONCONTIBUS DE PISIS DECRETORUM DOCTOR».161 La sottoscrizione datata che testimonia il nome del

miniatore appare invece a c. 206r (fig. 48) «OPUS IACOBI DE FABRIANO MINIATORIS QUOD FACTUM FUIT FABRIANI A.D. M.CCCC.LVI»,162 dove la preziosa informazione topica ha permesso di ipotizzare che l’artista si fosse assentato dalla corte papale durante gli anni di Callisto III.

Se al maestro spettano i frontespizi a cc. 2r e 3r insieme alle iniziali maggiori poste in apertura dei capitoli (alle cc. 19r, 35r, 52v, 68v, 87r, 99r, 117r, 135v, 148r, 170v, 189r, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

160 Il manoscritto è segnalato da Alberto Serafini e De Marinis che riportano erroneamente la data 1466, v. A.

SERAFINI, Ricerche sulla miniatura umbra. Secoli XIV-XVI. I maestri urbinati e le influenze ferraresi

nell’Umbria, «L’Arte», 15 (1912), pp. 430-434, figg. 8-10; T.DE MARINIS, Un enlumineur ombrien du quinzième siècle, Jacopo da Fabriano, in Humanisme actif. Mélanges d’art et de littérature offerts à Julien Caen, II, Paris 1968, pp. 259-260; J.RUYSSCHAERT, Miniaturistes cit., pp. 247 nt. 11, 249-250.

161 Ancora, a c. 189: «ISTE LIBER EST DOMINI GILFORTIS DE BONCONTIBUS».

162 Il miniatore si firma inoltre sul frontespizio a c. 2r «OPUS IACOBI DE FABRIANO», entro un cartiglio

206r, 222r, 242r, 266v, 193v, 316r, 348v, 371v, 400r, 424r), almeno altre due mani concorrono al completamento del ricchissimo apparato decorativo, dotando quasi ogni foglio di un margine a bianchi girari abitato da animali e putti, spesso interrotto dall’affacciarsi di figure, in alternanza sviluppato lungo una barra in oro, oppure racchiuso entro listelli sempre in lamina.

Uno degli artefici si identifica in Giovanni da Milano,163 grazie alle firme ricorrenti negli ultimi fascicoli del codice (figg. 60-61). Il collaboratore, altrimenti sconosciuto, ribadisce infatti la paternità degli ornati a bianchi racemi celando spesso tra i tralci la sigla “I.O.” (cc. 362, 323v) in varie declinazioni: con la semplice I abbreviata con titulus (c. 330), inscrivendola entro la O a formare un monogramma (cc. 441v), a c. 414 tracciato in oro su di uno scudo blu retto da due putti entro paesaggio, o entro cartiglio colorato nelle varianti “I.O.N” a c. 432r e “I.O.FC” a c. 428v (c. 408r, “I.O.F.”), sciolte in “IOVANNES FECIT” a c. 372v, ancora abbreviata sullo scudo retto da un putto a c. 352r ed estesa a c. 440 in “DA MILANO.I.O.FE.”; mentre, infine, in una delle ultime pagine del volume, a c. 451r, il filatterio srotolato da due sgraziati putti sulla sommità del margine a viticci lascia intravedere tra le piegature nascoste la scritta che informa della conclusione dell’opera a Roma: «IO DA M(IL)ANO IN ROM(A) FE(CIT) AD D. OGRIFORRATO». A c. 334v il miniatore affida invece il proprio autoritratto, un icastico viso barbato visto in scorcio, accompagnato dal cartiglio d’identificazione «IO. FE. DA ML», e sembra si trattasse di un religioso dal momento che appare tonsurato (fig. 60).

Grazie all’uso di apporre sovente una sottoscrizione a riconoscimento delle sue realizzazioni,

l’opera di Jacopo è di fatto la prima della produzione manoscritta romana ad essere stata individuata dalla storiografia già dal preliminare, quanto ancora approssimativo, studio sulla miniatura umbra condotto da Alberto Serafini nel 1912.164 Proprio a partire dall’opinione dell’autore, «che Giacomo si incaricasse dell’amministrazione di un cenacolo di miniatori che lavoravano con lui a Roma», poi ribadita con convinzione da José Ruysschaert, si è radicata l’idea che il suo atelier dominasse il panorama romano della prima metà del settimo decennio. La lettura ormai ereditata è che «la bottega di Iacopo da Fabriano, in cui lavoravano oltre a Gioacchino de’ Gigantibus, altri miniatori di origine fiorentina, Andrea da Firenze e Giuliano Amedei, ricevette a più riprese somme per l’acquisto di materiale scrittorio o per l’esecuzione di opere non specificate» da parte del !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

163 F.PASUT, Giovanni da Milano, in DBMI, pp. 276-278.

papa,165 ma, come si vedrà, dal libro dei conti pontifici risulta che a ricevere compensi per procurare pergamena e colori siano parimenti anche Andrea da Firenze e Niccolò Polani. Questi artisti, e non solo Jacopo, sono infatti attestati dai pagamenti dei registri papali con lo stesso titolo di «miniatore di Sua Santità».

Presso la corte pontificia Jacopo è comunque menzionato dal 12 febbraio 1461 al 20 giugno 1463,166 ricordato inoltre per il ruolo di «maestro dello oriolo» che lo qualifica con certezza come appartenente alla familia pontificia. Lo conferma la sua presenza nell’elenco dei «Ministeria et Officia Domus Pontificalis Anno 1460» come «Jacobus de Fabriano super horologium».167

Al catalogo certo del miniatore si associano diversi manoscritti firmati abitualmente «OPUS IACOBI DE FABRIANO».168 Sempre allo stesso Gilforte Bonconti sono da riferirsi secondo Ruysschaert almeno altri due codici sottoscritti da Jacopo che, come nel caso del Reg. lat. 1882, recano oggi lo stemma del cardinale Francesco Todeschini- Piccolomini. Seguendo il destino della sua raccolta sono così confluiti nei fondi Vaticani il Chigi H.VIII.249,169 con le Orationes di Cicerone, verosimilmente proveniente dalla Libreria del Duomo di Siena, e lo Svetonio, Reg. lat. 1990 (fig. 57),170 acquisito dai teatini di San Silvestro di cui reca il timbro di possesso. Oltre al Sant’Agostino del 1456, tuttavia, solo il citato Tito Livio viennese mostra di conservare ancora lo stemma scaccato d’argento e di verde del tesoriere pontificio. Una conferma che almeno parte della biblioteca di Gilforte sia stata incamerata in quella del futuro Pio III viene invece, secondo lo studioso, dal Reg. lat. 1954 (fig. 85),171 un Cesare che reca nel frontespizio l’arma

Bonconti, ma che risulta essere stato postillato dallo stesso cardinale, mentre la decorazione a bianchi girari è stata attribuita da François Avril a Niccolò Polani.172

Individuando con chiarezza la varietà di abitudini lessicali adottate da Jacopo, Ruysschaert poté inoltre ricondurre senza incertezza al suo catalogo altri manoscritti non firmati, realizzati per papa Piccolomini, di cui recano le armi: il Vat. lat. 2051, uno Strabone, e il !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

165 S.MADDALO, «Quasi preclarissima supellectile» cit., pp. 19-20.

166 A.ROSSI, Spogli vaticani, «Giornale di erudizione artistica», 6 (1877), 5-6, pp. 129-144; E.MÜNTZ,P.

FABRE, La Bibliothèque cit., p. 123, n. 3 e pp. 129-131.

167 Cfr. G.MARINI, Degli archiatri pontifici, II, Roma 1784, p. 154. 168 V. il sintetico catalogo del miniatore a p. 277.

169 A.MARUCCHI, Stemmi cit., pp. 45-46, nr. 30; J.RUYSSCHAERT, Miniaturistes cit., p. 247, nt. 9; G.M.

FACHECHI, Jacopo da Fabriano miniatore di Sua Santità, Fabriano 1999, pp. 40-43. 170 G.M.FACHECHI, Jacopo cit., pp. 38-40.

171 J.RUYSSCHAERT, Miniaturistes cit., p. 249 nt. 23, p. 258, nt. 75.

172 Dix siècles d'enluminure italienne. VIᵉ – XVIᵉ siècles, catalogo della mostra (Paris, Galerie Mazarine, 8

Chigi J.VII.248 (fig. 58), l’Australis Historia di Pio II e i Chigiani J.VIII.283 e L.VI.205, frutto della collaborazione con Andrea da Firenze, cui spettano i frontespizi.173 Come

afferma Francesca Pasut: «sono codici che documentano la vasta diffusione di tipologie decorative elaborate tra Veneto ed Emilia e ben rappresentate dai manoscritti miniati per il principe di Cesena, Novello Malatesta, o per il cardinale Bessarione a Bologna», dove fu attivo frate Giovanni da Rimini «la cui opera mostra significative somiglianze con quella di Iacopo da Fabriano»: uno stretto legame già evidenziato Susy Marcon nell’esaminare la produzione del riminese per il Niceno.174 Sebbene la qualità pittorica e disegnativa non sia rimarchevole, i codici miniati da Jacopo si distinguono per estro inventivo, compiacendo i committenti nel dotare i libri di lussuose vesti ornamentali. Merito precipuo della produzione dell’artista è però l’aver concorso ad arricchire il panorama artistico della città introducendovi questa proposta formale alternativa alla tendenza canonica d’ispirazione fiorentina. Originando dall’ambiente ferrarese-romagnolo, lo stile di Jacopo si nutre infatti principalmente delle novità elaborate allo scriptorium di Cesena (cfr. figg. 76-77). Non lo dimostrano solamente dettagli lessicali minori, quali le chioccioline che caratterizzano il ductus dei suoi tralci viminei in risparmiato, bensì l’apparecchiatura dell’intera pagina di frontespizio, con l’uso congiunto di differenti formule decorative. Elementi tipici desunti dall’ambiente malatestiano sono ad esempio i cordoni di lauro adorni di perle colorate, il gusto per le iniziali con torciglioni in pietra dura, o l’inserto architettonico delle tabelle lapidee, che incorniciano i capilettera di Jacopo, racchiusi entro cornici decorate a dentelli o con modanature di varia fantasia. Il linguaggio formale del maestro rivela però la sua originalità mostrandosi in grado di rielaborare formule decorative di varia provenienza, tradotte in un linguaggio innovativo che sarà poi preso a modello per il gusto fondato da Pio II. Peculiarità del miniatore di Fabriano è infatti di avere sviluppato, già a queste date, le tipologie d’ornato poi in uso nel decennio successivo, esprimendosi con un linguaggio sorprendentemente vario, capace di alternare ben quattro distinti registri decorativi, spesso scelti specificatamente in considerazione della tipologia testuale di destinazione.

Nel poliedrico lessico ornamentale utilizzato dal miniatore, anche lo stesso motivo dei bianchi girari, animato da un repertorio di suggestione classica con serti variopinti, putti giocosi, animali e clipei dai soggetti all’antica, ha perso i connotati di una derivazione fiorentina, e alla semplice stilizzazione dei rameggi bidimensionali si sostituiscono racemi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

173 J.RUYSSCHAERT, Miniaturistes cit., p. 267; p. 248, nt. 16; p. 255, nt. 52 e p. 267 e pl. 7; p. 248, pl. 5. 174 S. MARCON, La miniatura nei manoscritti latini commissionati dal cardinal Bessarione, in Bessarione e

l’Umanesimo, catalogo della mostra (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, 27 aprile – 31 maggio 1994), a cura di G. Fiaccadori, Napoli 1994 (Saggi e ricerche, 1), pp. 171-194.

lumeggiati, muniti di collarini e terminazioni a chiocciola, svolti in chiave padana, ferrarese-riminese. Tale discendenza dell’opera di Jacopo è testimoniata però soprattutto dal ricorso al motivo del cappio geometrico policromo, in origine reintrodotto negli anni trenta in ambiente umanistico veneto, ad esempio nei manoscritti della cerchia dei due scribi-intellettuali Michele Salvatico e Andrea Contrario, prodotti per dotti bibliofili come Francesco Barbaro o Guarnerio d’Artegna.175 Il motivo dell’intreccio geometrico si era poi presto diffuso in area emiliana, con distinte declinazioni nelle corti dei Gonzaga a Mantova e degli Este a Ferrara, raggiungendo contemporaneamente la Cesena di Novello Malatesta. Jacopo sembra appunto risentire della particolare coniugazione dei prodotti di quest’ultimo centro, dove i cappi dai vivaci colori alternati vennero trattati come nastri elastici intrecciati a maglie larghe, o come motivi fitomorfi dalla connotazione vegetale e terminazioni floreali.

L’impiego congiunto dei due diversi motivi lessicali che caratterizzano il Reg. lat. 1882, lo si ritrova portato ai massimi livelli nella splendida veste decorativa del Vat. lat. 1816 (figg. 50-53)176 un Diodoro Siculo, Bibliotheca Historica, realizzato per Pio II con quattro fastosi frontespizi. Questi si aprono con scene animate da putti, che sembrano tratte dai rilievi scultorei antichi, quasi fossero dei motivi di sarcofagi bacchici, fino a rappresentare sullo sfondo il dettaglio paesaggistico di Roma, identificata dalle mura Aureliane, il Pantheon e Castel Sant’Angelo (c. 105r, fig. 52). Il fasto dell’esecuzione si spiega con il fatto che papa Piccolomini fu diretto promotore del recupero della traduzione dell’opera, iniziata per Niccolò V, ma rimasta interrotta per il sopraggiunto decesso nel 1453 di Iacopo da San Cassiano, l’umanista cremonese che ne fu interprete.177

In nessun caso comunque questo fenomeno del recupero dell’antico si manifesta tramite precise citazioni o da uno studio archeologico dei monumenti e delle vestigia classiche. Si tratta piuttosto ancora di un generico gusto meramente decorativo, che fu però assai apprezzato da Pio II, venendo di fatto ad informare, pur a seconda della sensibilità individuale, la produzione di quasi tutti i miniatori attivi per la sua corte.

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175 Per una disamina sul motivo ornamentale del “cappio annodato” v. G.MARIANI CANOVA, L’ornato

rinascimentale nei codici guarneriani, in La Guraneriana. I tesori di un’antica biblioteca, catalogo della mostra a cura di L. Casarsa et al., (San Daniele del Friuli, Palazzo ex Monte di Pietà, 10 giugno – 30 ottobre 1988), San Daniele del Friuli 1988, pp. 35-46.

176 Segnalato da Serfaini e De Marinis, cfr. G.M.FACHECHI, Jacopo cit., pp. 28-35; Vedere i classici, cit., cat.

105 pp. 398-401, e figg. 396-399, scheda di A.MANFREDI.

177 La traduzione rischiava peraltro di andare perduta come si evince dalla vicenda trasmessa nella lettera di

A questi motivi Jacopo alterna poi l’uso di un fregio a filigrane a fiori, foglie e fusaiole, tempestato di bolli d’oro, come nel Vat. lat. 493, c. 1r (fig. 56),178 che adotta però più

spesso in associazione ad un ulteriore linguaggio ornamentale di tipo tradizionale, il fregio vegetale a foglie d’acanto, miniato ad esempio nei due frontespizi del Chigi A.VIII.241, cc. 4r e 226v (fig. 54-55),179 commissionato da Pio II.180 Non è un caso che la scelta lessicale attardata sui modelli tardogotici riguardi in entrambi i casi opere di Sant’Agostino, dal momento che soprattutto per le opere di patristica si riservava ancora una distinzione stilistica in associazione all’adozione di una scrittura testuale rotunda.

Della stessa cultura artistica di matrice emiliana-romagnola partecipa anche il collaboratore di Jacopo che si firma ripetutamente a partire da c. 323v del Reg. lat. 1882 (fig. 60-61), tanto che la stretta somiglianza dei motivi adottati, rispetto ai modi propri del fabrianese, ha fatto supporre si trattasse di un semplice epigono di bottega. Giovanni da Milano rivela in realtà una distinta caratterizzazione dei tralci in risparmiato, che appaiono piuttosto morbidi e corposi, rilevati da naturalistiche ombreggiature. Sono però soprattutto le sgraziate figure dei pasciuti putti nudi a permettere di rilevare l’autografia per altri manoscritti della coeva produzione romana, come ad esempio un esemplare oggi conservato alla Bibliothèque nationale de France a Parigi, Latin 5786 (fig. 59),181 contenente l’Opera di Appiano Alessandrino, nella versione latina di Pietro Candido Decembrio, dove forse il frontespizio è realizzato in collaborazione per l’ornato con lo stesso Jacopo o è altrimenti conseguenza di un momento stilistico di particolare tangenza. Si tratta di un altro dei codici posseduti da Jean Jouffroy, forse da datare, ma cautamente, prima della nomina vescovile del 1453, dal momento che lo stemma nel frontespizio a c. 1r è privo della mitra.

Davvero affine è inoltre la decorazione di un Eusebio di Cesarea, De preparatione evangelica, nella traduzione di Giorgio Trapezunzio per Niccolò V, il ms. B V 11, della Biblioteca Durazzo di Genova, che è datato nel colophon a c. 154r al 1461 (fig. 62).182 Tra i fitti bianchi girari che ornano i quattro margini del frontespizio si aprono oculi che svelano i motivi sigla del miniatore: i tipici conigli e in particolare il leitmotiv del putto di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

178 Stemma Arcimboldi sovrammesso all’originale. Attribuzione in J.RUYSSCHAERT, Miniaturistes cit., p.

247, nt. 5; G.M.FACHECHI, Jacopo cit., pp. 43-44.

179 Attribuzione in T.DE MARINIS, Un enlumineur ombrien cit., pp. 259-260; J.RUYSSCHAERT, Miniaturistes

cit., p. 247, nt. 6; G.M.FACHECHI, Jacopo cit., pp. 35-38.

180 A c. 3v lo stemma del nipote Giacomo Piccolomini d’Aragona e l’ex-libris in memoria della sua

donazione alla Libreria del Duomo di Siena.

181 Le goût de la Renaissance cit., p. 122 e fig. 14, cat. 14 di M.-P.LAFFITTE e G.TOSCANO.

tergo a cavalcioni su di un cervo, curiosa invenzione apparsa ad esempio nel Reg. lat. 1882 a c. 362r, mentre nel manoscritto parigino l’erote veste un cappuccio con il palco di corna e sembra nell’atto di catturare un uccello di grandi dimensioni.

A dimostrazione di come in breve tempo si giunga ad una koinè stilistica dai caratteri condivisi, che rende spesso problematico il riconoscimento di paternità, si confronti ad esempio anche il Vat. lat. 344, un San Girolamo decorato da una delle tante anonime mani romane per Teodoro de’ Lellis, probabilmente prima della nomina vescovile del 1462. È comunque legittimo il dubbio di una possibile identità tra Giovanni da Milano, che come si evince dall’autoritratto era un consacrato, e il più noto fra Giovanni da Rimini,183

considerando la strettissima parentela del ductus dei bianchi girari, la comune formazione sulla miniatura malatestiana, nonché la stessa propensione a registrare sovente le proprie realizzazioni con un simile monogramma. Quest’ultimo è infatti identificato dalle sigle F.IO.F e F.Z.F. (“Frater Zuan Fecit”), utilizzate per sottoscrivere alcuni codici realizzati alla corte di Domenico Malatesta Novello (cfr. ad esempio Biblioteca Malatestiana, ms. S.XI.2, S.XIX.1), il fratello di Sigismondo signore di Rimini, che si fece committente di una considerevole produzione libraria da destinare all’allestimento di una biblioteca pubblica presso il convento di San Francesco a Cesena.184 A partire dal 1452 il miniatore riminese, che si qualifica invero per una certa pesantezza d’esecuzione, passò al servizio del Bessarione, all’epoca legato papale a Bologna tra 1450 e 1455. Qui, per il cardinal Niceno, Giovanni realizzò diversi codici studiati da Susy Marcon, in cui continuò a sviluppare il repertorio decorativo all’antica, aprendosi alle influenze della miniatura felsinea.185 Forse proprio al seguito del patrono, Giovanni giunse a Roma, dove è attestato

attivo per il cardinale Francesco della Rovere, futuro papa Sisto IV, decorando tre volumi del Commentarius Oxoniensis di Duns Scoto (Vat. lat. 884, libri I; Vat. lat. 886, libri II-III; Vat. lat. 888, libri VI; figg. 66-67).186 I volumi si presentano con caratteristiche gotiche nella tipologia della foglia d’acanto associata alla littera textualis del copista, il frate minore Giovanni de Monte S. Petri de Aleis che data i volumi tra gennaio del 1461 e il luglio del 1463. Il miniatore si firma nel secondo codice a c. 103v «Et frater Io. de Arimi(n)o mini(avit)» a seguire il colophon sottoscritto dallo scriba il 15 luglio 1463. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

183 S.NICOLINI, Giovanni da Rimini (alias Monogrammista F.IO.F.), frate, in DBMI, pp. 279-282. 184 Libraria domini. I manoscritti della Biblioteca Malatestiana, a cura di F. Lollini e P. Lucchi, Bologna

1995; G.MARIANI CANOVA, La Miniatura nella Biblioteca Malatestiana, ivi, pp. 155-177. 185 S. MARCON, La miniatura nei manoscritti latini cit.

186 Segnalati da M.LEVI D’ANCONA, Il cardinale Bessarione e due miniatori sconosciuti, in Miscellanea

Deve comunque notarsi come la tipologia dei girari in risparmiato adottata negli esemplari comunemente ricondotti dalla critica al nome dello stesso fra Giovanni da Rimini, subisca sensibili variazioni, passando dal gruppo di codici con tralci vicini ad esempio all’Eusebio marciano, Liber temporum Lat. 348 (=2019) (fig. 64), più ampi e dilatati nelle terminazioni ad imbuto sfrangiato, ai fitti viluppi del Lat. 40 (=1926) (fig. 65),187 un Lattanzio, De Divinis Institutionibus, che il miniatore firma nel frontespizio a Bologna nel 1454. È quest’ultima la tipologia in cui si riscontra una particolare tangenza con il motivo di rameggio utilizzato da Jacopo e Giovanni da Milano, ravvisabile ad esempio anche nel codice delle Historiae di Polibio, tradotte per Niccolò V dal segretario del Bessarione, Niccolò Perotti (Cesena, Biblioteca Malatestiana, S.XII.2; fig. 63).188 Come indica la duplice presenza di stemmi, si tratta della copia di dedica composta per Malatesta Novello, databile poco prima del 1454 e sottoscritta nel frontespizio miniato con la sigla F(rater).IO(hannes).F(ecit) apposta sul collare di un cerbiatto.189

L’evenienza che, al di là del ricorso a differenti toponimi, vi sia identità tra le due personalità, muterebbe invero la considerazione della “bottega” del Fabrianese, essendo Frate Giovanni una personalità artistica già ben affermata, che aveva prestato un servizio stabile e continuativo presso il cardinale Bessarione. Sebbene sia comunque difficile ammettere la coincidenza dei due omonimi miniatori, per chiarire ulteriormente i rapporti esistenti tra Jacopo ed eventuali aiuti si dovranno allora esaminare attentamente le singole opere, come ad esempio l’altro volume prodotto per Gilforte Bonconti, il Tito Livio di Vienna.190 Dalle riproduzioni pubblicate nel catalogo di Hermann si può forse infatti notare una dissonanza rispetto alle realizzazioni di Jacopo, che potrebbe comprovare un’ulteriore collaborazione di Giovani da Milano, intervenuto con i suoi caratteristici busti, conigli, cervi, vasi ad interrompe la trama dell’ornato, inserendo ancora una volta la sigla del putto