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Breaking Point: la Guerra Anglo-Boera 5.1 Il conflitto e la prospettiva italiana

4.2 “Paint the map red!”: Cecil Rhodes, gli anni Novanta ed il precipitare della cris

V. Breaking Point: la Guerra Anglo-Boera 5.1 Il conflitto e la prospettiva italiana

Fu chiaro da subito che la guerra anglo-boera avrebbe avuto un finale scontato, anche nelle disastrose visioni dei più pessimisti o dei contrari al conflitto. Il possente e secolare impero britannico avrebbe sfidato in terra d’Africa due piccole repubbliche autarchiche e conservatrici, salite alla ribalta mondiale negli ultimi quindici anni per la scoperta dell’oro e dei diamanti. Le immense risorse, le capacità tattiche e logistiche, l’abitudine alla vittoria, la possanza e la fiducia di un Impero che aveva da poco festeggiato il suo zenit al Diamond Jubilee del 1897 non potevano che far pendere la bilancia della vittoria in favore di Londra e dei britannici, per cui, come abbiamo visto, la campagna sudafricana fu interpretata dalla maggioranza dell’opinione pubblica e dell’establishment come una veloce campagna coloniale, una nuova ed avventurosa spedizione destinata ad entrare nei libri di Henty ed ad aggiungere nuovi territori rossi nei mappamondi e nelle cartine di tutte le scuole dell’Impero, sulle scatole dei biscotti, sui pacchetti dello zucchero e sulle bottiglie del whiskey. Evidentemente, pochi si volevano ricordare della batosta subita a Majuba nel 1881 o comunque si era certi che gli errori di allora non sarebbero stati ripetuti. Finché questa hybris imperiale rimaneva appannaggio dell’opinione pubblica e dei giornali ancora infervorati dal Diamond Jubilee e dalla vittoria ad Omdurman nel 1898, ciò poteva essere accettabile. Ma, come abbiamo visto, la fiducia e la sfrontatezza avevano superato le prudenze di Salisbury e di Hicks, conquistando l’establishment militare ed il Gabinetto soprattutto per opera del governatore Milner e dell’indefesso Chamberlain, sicuro di poter lavare l’onta del fallito Jameson Raid con un’operazione che sarebbe durata poche settimane. Solo in pochi si accorsero del pericolo

incombente, come il generale Buller per esempio, ma furono trascurati o dipinti come delle Cassandre pessimiste238.

Ad ogni buon conto, se il favorevole risultato del conflitto sembrava già certo in partenza, quello che stupì del conflitto fu il suo inaspettato decorso, perché la “guerricciola” prevista da Wolseley si sarebbe conclusa solamente nel 1902, dopo una spesa di quasi trecento milioni di sterline, l’impiego di quasi mezzo milione di uomini nel corso dei quasi tre anni di conflitto, con cinquantamila membri della Royal Army e delle truppe provenienti da tutto il Commonwealth da conteggiare come caduti sul campo o feriti, con una Colonia del Capo da rifondare con l’annessione dei nuovi territori boeri, disastrati dagli anni di guerra e con una popolazione fieramente ostile. Sembrava che la guerra nel Transvaal costituisse una delle tante puntate della gloriosa storia imperiale britannica in Africa, ma questa volta le truppe di Sua Maestà non avrebbero dovuto affrontare zulù o dervisci. I boeri, i discendenti dei coloni olandesi del Seicento, si sarebbero dimostrati avversari degni e parigrado, uno scontro tra due famiglie della civiltà europea che allora dominava il mondo, un tipo di conflitto al quale i britannici non erano più abituati dai tempi della Crimea o di Napoleone. Come per il Vietnam di Johnson e Nixon e l’Iraq di Bush e Blair, gli alti costi umani ed economici del conflitto anglo-boero causarono profondi scontri e divisioni interne ed esterne. Se però l’opinione pubblica britannica seppe ricompattarsi dopo i primi mesi disastrosi del conflitto, rilegando ad un’esigua e minoritaria posizione gli oppositori della guerra, il conflitto sudafricano suscitò vivo interesse e viva discussione in tutto il mondo, dove la Gran Bretagna trovò ben pochi alleati. Tutti i giornali delle maggiori potenze europee seguirono con i propri inviati le vicende del conflitto, con editoriali e dichiarazioni nettamente ostili alla Gran Bretagna, nella speranza che il Golia inglese soccombesse al Davide boero. Non solo, nacquero comitati pubblici, furono organizzate sfilate e cortei di protesta, raccolte di fondi per le truppe e gli sfollati delle due repubbliche, richieste di un arbitrato internazionale che portasse la pace ed al contempo

punisse severamente la prepotenza inglese, rea di aver attaccato due piccoli ed indipendenti stati pacifici. Tra le grandi nazioni non si unirono al generale coro di riprovazione nei confronti di Londra l’Austria – Ungheria, il Belgio e l’Italia, le quali se non offrirono un dichiarato appoggio mantennero almeno una cordiale neutralità ed un’implicita approvazione, in perfetta linearità coi giochi d’equilibrio della diplomazia europea del tempo. Il Belgio, nonostante la forte influenza della robusta componente socialista presente nell’opinione pubblica contraria di principio al conflitto, si dimostrò neutrale, sia per convenienza che per convinzione. Il Belgio era nato negli anni Trenta del XIX secolo soprattutto grazie alla copertura diplomatica della Gran Bretagna, con il grande sovrano Leopoldo I che era stato uno dei più grandi confidenti della giovane nipote, la regina Vittoria. Non solo, tra i due paesi esistevano fitti rapporti economici, consolidatisi nel corso dei decenni passati; una piccola nazione che in proporzione seppe riprodurre sul continente i grandi risultati della Rivoluzione industriale raggiunti dalla Gran Bretagna, nel bene dello sviluppo e della crescita industriale come nel male della povertà e delle disuguaglianze del proletariato. La vicinanza geografica, gli stretti rapporti economici e politico-diplomatici, la volontà di non intromettersi negli affari coloniali delle altre potenze per tutelare il Congo consigliarono quindi a Bruxelles di mantenere una cordiale neutralità239. Tra Gran Bretagna ed Impero Asburgico esisteva da decenni un clima di diplomatica cordialità, basata soprattutto sul rispetto del comune secolare istituto monarchico e sulla ricerca dell’equilibrio europeo, il punto nevralgico della politica estera asburgica ma pure britannica. Quasi in parallelo con la storia della Regina Vittoria, Francesco Giuseppe aveva festeggiato nel 1898 i suoi cinquanta anni di regno sul trono asburgico e nel 1896, in segno di amicizia tra le due famiglie imperiali regnanti, Francesco Giuseppe era stato nominato Colonnello del 1st King’s Dragoon Guards, un reparto di cavalleria240. Non solo, una delle mete

239 Per una analisi generale della rilevanza internazionale del conflitto sudafricano, cfr. K.M.

Wilson (a cura di), The International Impact of the Boer War, Chesham, Acumen Publishing Ltd., 2001

preferite della Imperatrice Elisabetta era l’Irlanda, dove la triste e popolare Sissi poteva coltivare per lunghi mesi una delle sue più grandi passioni, l’equitazione. Come sostiene Macmillan,

“Con il passare degli anni l’intesa tra l’Austria – Ungheria e la Gran Bretagna si era fatta più intima e cordiale di quella con la Francia. Anche la Gran Bretagna aveva i suoi radicali, ma a Vienna veniva percepita come una società più stabile e conservatrice di quella francese. Non per nulla la politica e le massime cariche amministrative erano saldamente nelle mani dell’aristocrazia , come si conveniva (…) Tra le altre cose la Gran Bretagna e l’Austria – Ungheria non avevano dispute coloniali in sospeso, e quindi nessun conflitto di interessi minacciava di frapporsi tra Londra e Vienna. Perfino nel Mediterraneo, dove entrambi mantenevano una forte presenza navale, gli obiettivi erano tendenzialmente compatibili: si trattava di mantenere il più possibile invariata la situazione e di stroncare sul nascere le nuove velleità, soprattutto sulla sponda orientale. In quell’area la Gran Bretagna e l’Austria - Ungheria fungevano ciascuna a modo suo da contrappeso contro la Russia. Ai tempi della guerra boera Vienna fu una delle poche capitali a esprimere solidarietà a Londra. Dans cette guerre je suis complètement Anglais, confidò nel 1900 Francesco Giuseppe all’ambasciatore britannico, procurando di farsi sentire dai diplomatici francesi e russi”241

Nel ristretto numero degli stati che non si unirono all’ondata di proteste ed indignazioni nei confronti della Gran Bretagna vi era infine l’Italia, una media potenza mediterranea alla ricerca di una prestigiosa collocazione internazionale. Nel corso degli anni l’Italia aveva avuto una politica estera paradossalmente molto più attiva ed intensa della Gran Bretagna e ciò era dimostrato dalla sua partecipazione alla Triplice Intesa con la Germania guglielmina e con l’Impero Asburgico, l’eterno nemico del Risorgimento. L’alleanza era nata negli anni immediatamente successivi al Congresso di

Berlino del 1878 tra i due paesi di lingua tedesca, in quella che nei decenni successivi il cancelliere tedesco Bulow avrebbe definito con una metafora wagneriana il “Patto Nibelungo”242. A queste due nazioni si era unita nel 1882 l’Italia, timorosa di rimanere isolata in un contesto internazionale che si faceva sempre più competitivo. Non solo, nel 1881 la Francia aveva velocemente occupato la vicina Tunisia, un territorio sul quale il governo italiano aveva concentrato le proprie attenzioni da qualche tempo anche in virtù di una cospicua presenza di italiani e di molti interessi economici, non solo quindi per mero espansionismo243. L’affronto francese portò quindi l’Italia nell’orbita tedesca e Bismarck acconsentì di buon grado ad un accordo con la nazione mediterranea, proseguendo l’antico progetto di un accerchiamento diplomatico di una Francia sempre più isolata e quindi alla mercé della Germania. Nacque così un patto difensivo, ratificato e rinnovato a scadenze regolare fino alla Prima Guerra Mondiale, dove le naturali ed inevitabile diffidenze dell’Austria - Ungheria per l’antico rivale furono moderate ed in parte appianate dalle garanzie della Germania, che ovviamente ricopriva il ruolo di guida all’interno dell’alleanza. Se l’alleanza con l’Italia era vista con diffidenza e preoccupazione nei salotti e negli uffici ministeriali di Vienna, pure in Italia l’adesione alla Triplice Alleanza non godeva di un consenso totale. Tale sentimento ondivago rispecchiava una divisione culturale all’interno dell’establishment nazionale, una frattura che nei giorni affannosi del 1915 sarebbe divenuta chiara ed evidente. Se una parte degli ambienti della Corte e delle èlite culturali, economiche, industriali, militari del paese vedevano nella Germania di Bismarck un modello da seguire ed imitare, esisteva anche una cospicua parte della classe dirigente che guardava alla consorella latina francese ed alla liberale Gran Bretagna come nazioni guida da prendere ad esempio. Tale suddivisione sul modello di stato da seguire dimostra quanto le strutture civili e politiche dell’Italia fossero ancora giovani e fragili, in cerca di una difficile definizione per consolidarsi. Negli ultimi anni del XIX secolo ne

242 Margaret Macmillan, 1914, cit., pp. 258-292.