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Il Titano stanco Presagi, complessità ed inquietudini della tarda età vittoriana(1880-1902)

III- BRITANNIA RULE THE WAVES?

3.1 Il Titano stanco Presagi, complessità ed inquietudini della tarda età vittoriana(1880-1902)

Il Diamond Jubilee del 22 giugno 1897 fu per la Gran Bretagna l’occasione per celebrare di fronte al mondo e al proprio popolo i grandiosi risultati raggiunti dal paese durante il lungo regno della Regina Vittoria, ella stessa simbolo di un’epoca durante la quale venne formandosi quella civiltà anglosassone (la anglobalizzazione di Ferguson) che nel bene e nel male avrebbe influenzato e forgiato la storia non solo britannica, ma pure europea e globale. Eppure quella dorata settimana estiva si pose alla conclusione di un quindicennio turbolento e colmo di grandi cambiamenti. Gli anni Ottanta e Novanta segnarono una discontinuità nella continuità del prospero Ottocento inglese; alcuni tratti fondamentali della vita politica, economica e sociale britannica sarebbero stati radicalmente modificati, all’ingresso di quel Novecento atteso con fiducia ed apprensione. La politica interna ed imperiale si aggrovigliarono indissolubilmente, grandi trasformazioni industriali e sociali sembrarono far vacillare la fiducia vittoriana, una fiducia ed un equilibrio che erano stati alla base della grande espansione dell’Impero britannico in ogni sua sfaccettatura. L’anno chiave per l’inizio di queste turbolenze è il 1873, storicamente segnato come l’avvio della Grande Depressione che coinvolse l’intera Europa nel trentennio finale del XIX secolo. Un rallentamento economico e finanziario che colpì soprattutto l’agricoltura, uno dei settori tradizionalmente portanti delle economie continentali ed anche di quella britannica, soprattutto grazie all’ingresso nei mercati internazionali dei prodotti statunitensi e latinoamericani, più competitivi ed economici sia per quantità che qualità. Il ristagno dell’attività commerciale e dei profitti non costituivano in sé dei fenomeni nuovi, poiché periodiche crisi aveva colpito i sistemi economici europei, anche nei precedenti anni di espansione e benessere. Ciò che

rappresentò un elemento di novità fu la durata di tale depressione. Essa durò sostanzialmente un decennio, ma ebbe pesanti strascichi anche negli anni successivi con il definitivo ingresso degli Stati Uniti nei circuiti economici di un mercato che era effettivamente diventato globale.

La Grande Depressione si inseriva però in un momento di grandi cambiamenti ed innovazioni che dettero un grande slancio alle produzioni industriali, modificando per sempre l’economia e ponendo definitivamente fine alla grande civiltà agricola che aveva caratterizzato l’Europa fin dal Medioevo e che già con la rivoluzione industriale tardosettecentesca aveva subito un primo colpo fatale. Pur ponendosi nella scia di progresso iniziata nel XVIII secolo, tale fase ebbe caratteri indiscutibilmente propri. Le innovazioni non provennero più dagli stessi imprenditori o da studiosi dilettanti, ma da scienziati ed inventori di professione, soprattutto in settori produttivi nuovi o che non avevano avuto ruolo e spazio negli anni della Prima Rivoluzione Industriale, come nella chimica, nell’elettricità e nell’acciaio. Tale fase di progresso economico perse il carattere quasi esclusivamente britannico, perché le innovazioni arrivarono anche da paesi quali Francia, Stati Uniti, Germania e Svezia, che ben presto sarebbero scesi in competizione con il Regno Unito, l’antica maestra che aveva diffuso il know how dell’industrializzazione nel mondo attraverso i suoi tecnici ed i suoi insegnamenti. Furono proprio quegli gli anni in cui si assistette ad un autentico boom della produzione dell’acciaio, soprattutto nelle fabbriche e nelle miniere di una nazione quale la Germania, che si era costituita da poco, ma che da subito dimostrò di essere una potenza continentale. L’acciaio un metallo duro, estremamente robusto ed allo stesso tempo facilmente lavorabile avrebbe ben presto soppiantato per qualità e quantità il ferro e la ghisa, due dei settori trainanti della siderurgia inglese. I risultati più significativi si ebbero nel nuovo settore della chimica, che da subito dimostrò di essere una possibile “miniera” di innovazioni dai molteplici utilizzi, dalle vernici ai coloranti, dalle fibre alle medicine, dalla dinamite dello svedese Nobel alla gomma dello scozzese Dunlop. Le macchine a vapore videro la loro supremazia attaccata dai grandi sviluppi del motore a scoppio,

dell’elettricità, dalla meccanica di precisione e degli usi del petrolio, in una rivoluzione del campo energetico del tutto paragonabile al settecentesco vapore di Watt, che aveva fatto le fortune della Gran Bretagna69.

L’incapacità dell’economia di riprendersi e di adeguarsi alle continue novità fu per la politica e l’establishment britannico un campanello d’allarme, anche se non del tutto inatteso. Da anni si temeva e si prevedeva che l’eccezionale vantaggio industriale e tecnico della Gran Bretagna non potesse durare in eterno e che fosse ormai questione di tempo. Nella lunga fase espansiva iniziata alla metà del Settecento il paese aveva costruito e progressivamente rafforzato la propria leadership economica e commerciale su due settori che a partire dagli anni settanta dell’Ottocento iniziarono ad essere considerati tradizionali, quando non maturi e superati dall’innovazione, quali il tessile e la siderurgia. La Gran Bretagna della tarda età vittoriana, fino ad allora così sicura e fiduciosa dei propri mezzi e del proprio benessere, fu colta impreparata dai continui progressi scientifici che sembravano fiorire quotidianamente nei laboratori e negli opifici d’Europa. Probabilmente fin troppo legata alla solidità del proprio mercato imperiale (un vero e proprio “bene rifugio”), in quegli anni cruciali dove tutte le dinamiche economiche subirono un’accelerata improvvisa, tardò nell’avviare i processi di innovazione e di ricerca nei nuovi settori trainanti dell’economia, così come non seppe riorganizzare nei tempi rapidi richiesti dalle circostanze il proprio apparato produttivo e manageriale, ancorato alle vecchie e comode certezze. Sembrò mancare quello spirito innovativo, spregiudicato ed imprenditoriale che seppe fare le fortune dei Krupp, dei Carnegie, dei Thyssen, dei Rockfeller, dei Dupont. Cresciuta esponenzialmente in un contesto di enorme vantaggio tecnico ed economico privo di forti concorrenti, la Gran Bretagna vide crescere attorno a sé nuove potenze economiche quali gli Stati Uniti, la Germania e la Francia, trovandosi così nella inusuale ed improvvisa posizione di dover rincorrere gli avversari, per di più trinceratisi dietro un regime di dazi doganali, richiesti dalle lobbies economiche e dagli establishment locali per irrobustire e

proteggere dalla concorrenza estera i mercati nazionali in espansione. La Grande Depressione e la parallela industrializzazione delle nuove potenze decretarono così la progressiva fine all’era del liberalismo economico, del quale la Gran Bretagna, la patria di Smith, Cobden e Bentham, rimase l’ultimo fiero baluardo. Un’altra manifestazione della fine del dominio assoluto britannico dei mercati fu la progressiva tendenza delle esportazioni a crescere meno rapidamente che in passato, coprendo così una quota inferiore delle importazioni, che iniziarono invece ad aumentare, soprattutto nei nuovi ed innovativi settori “scoperti” dove il paese doveva subire il predominio estero. La Gran Bretagna in quei pochi anni cessò di essere così l’unica “officina del mondo”, un titolo del quale si fregiava ormai da un secolo 70.

La Gran Bretagna riuscì ad assorbire le turbolenze della Grande Depressione grazie al sostegno del vasto mercato imperiale e grazie alla crescente terziarizzazione dell’economia britannica. Grazie ai successi del passato, gli investimenti oltremare continuarono la loro crescita costante, rendendo la City di Londra il cuore della finanza internazionale, un ruolo che avrebbe mantenuto fino alla fine della Prima Guerra Mondiale. Con il mercato nazionale ormai saturo, l’avanzata delle potenze economiche straniere, i profitti degli investimenti esteri divennero in breve tempo la miglior alternativa per i capitalisti e gli imprenditori britannici. Preferire un settore di sicura rendita come gli investimenti causò però un ulteriore ritardo nell’innovazione dell’industria britannica, per gli alti e svantaggiosi costi della ristrutturazione manageriale e materiale del reparto produttivo. Era quasi un segno dell’ormai affievolito spirito imprenditoriale nazionale, satollo dei decenni di monopolio globale ed incapace di rinnovarsi, adagiatosi sui propri allori e sulle proprie certezze. La depressione economica che colpì il Regno Unito i quei decenni fu comunque relativa, poiché il paese nel secolo precedente aveva raggiunto una posizione tale da non poter far nemmeno immaginare un tracollo; più che di crisi si dovrebbe parlare di un rallentamento. Ovviamente fu un campanello d’allarme, poiché la supremazia britannica vide anno per anno la costante

avanzata delle altre potenze economiche in sviluppo che si accaparrarono costantemente sempre più porzioni e quote di mercato fino ad allora in mano a Londra. La Gran Bretagna aveva raggiunto in un secolo la sua totale posizione di dominio, ma in quegli ultimi decenni frenetici del XIX secolo, dove tutto subì un’accelerata improvvisa, vide avvicinarsi pericolosamente le forze avversarie; il monopolio non era più sicuro come un tempo. Il settore veramente colpito dalle nuove dinamiche economiche fu l’agricoltura, dove non diminuirono solo la porzione di terre coltivate, ma pure i salari agricoli, le rendite, i profitti, il valore stesso della terra. Iniziò allora il lento declino di quella aristocrazia fondiaria che sin dal Seicento aveva guidato le scelte e creato le fortune del paese, come principale nerbo dell’establishment britannico e del Partito Conservatore in particolare. Nei decenni della tarda età vittoriana l’aristocrazia fondiaria vide le proprie certezze messe in dubbio per la prima volta dai venti nuovi della politica e della nuova società che si andava creando nel paese. Una maggiore alfabetizzazione conseguente alle riforme sull’istruzione degli anni sessanta, un calo di un altro straordinario veicolo di controllo sociale come la religiosità della società, il progressivo peso dei partiti politici con un conseguente calo della tradizionale deferenza che fino ad allora aveva indirizzato la politica nelle contee del Regno, furono tutti segnali di una lenta ed inarrestabile erosione del potere nobiliare. Un declino che ovviamente non fu immediato, ma lungo un quarantennio, che divenne inesorabile ed irrimediabile negli anni della Prima Guerra Mondiale e dei difficili anni Venti. Nella tarda età vittoriana iniziarono a mostrarsi le prime importanti crepe, un segno che i tempi immutabili del potere patrizio stavano cambiando. Sempre più famiglie dal glorioso ed antico lignaggio furono costrette a vendere le secolari proprietà, sia per spese scellerate sia per un’incapacità di analisi politica ed economica della realtà circostante. Nobili casati, alla guida del paese dai tempi normanni, sparirono dalla circolazione, altre ancora seppero resistere alle sfide della modernità. Fiducia nella tradizione, investimenti fallimentari e l’illusione dell’eternità delle rendite agricole furono componenti importanti di questo declino. Iniziarono allora i matrimoni d’interesse con gli

ereditieri e le ereditiere delle fortune commerciali statunitensi, così tanto discussi nell’alta società londinese. Molti membri delle casate si costruirono una nuova vita negli apparati governativi delle colonie, altri ancora si dedicarono alla politica dalle poltrone (peraltro ereditarie) fino ad allora poco frequentate della Camera dei Lord. Non pochi seppero integrarsi nelle nuove attività industriali e commerciali o investirono nell’ammodernamento delle proprie terre, altri ancora affrontarono scelleratamente la propria caduta con spese folli e vite decadenti. Per far fronte al progressivo declino economico e politico, l’alta società britannica dovette giocoforza aprire le proprie porte alle nuove componenti emergenti della società, quella borghesia delle professioni, industriale e finanziaria che iniziava ad acquisire sempre più peso politico a Westminster. Educati nelle migliori università del paese e nelle riformate public schools, essi infusero una nuova linfa vitale ad un’aristocrazia sempre più affaticata e dispnoica, ricevendo in cambio titoli nobiliari, terreni ed una nuova considerazione sociale. Il colpo di grazia all’influenza della classe sociale che più di tutte aveva influenzato ed indirizzato la politica britannica fu il lungo braccio di ferro condotto col Primo Ministro Asquith degli anni tra il 1908 ed il 1910 che, anche grazie al sostegno di Re Giorgio V, avrebbe condotto al varo del Parliament Act del 1911, una legge che riduceva il potere di veto dei Lords ed affermava implicitamente la supremazia della Camera dei Comuni all’interno di Westminster71.

La fase depressiva partita negli anni Settanta ebbe però due grandi conseguenze, l’inizio della riflessione sul liberalismo classico e la nascita di un movimento operaio nazionale. L’effetto della depressione e dell’inaspettata reazione di stupore che essa provocò mise in discussione le grandi ortodossie economiche, politiche e sociali che avevano guidato la nazione per decenni. Il prestigio incontestato della scienza naturale e del positivismo di Spencer, Comte e Darwin fecero pensare che il metodo scientifico potesse essere applicato anche allo studio della società e alla risoluzione dei suoi problemi, in

71 Per un eccellente ritratto del lungo declino dell’aristocrazia britannica, cfr. David Cannadine,

una via indirizzata al progresso. Economisti accademici come Marshall e storici dell’economia come Cunningham iniziarono a mettere in discussione e a rivisitare le classiche dottrine economiche di Smith, Ricardo, Mill, criticando concetti chiavi del liberalismo inglese come la libertà dei mercati e la concorrenza perfetta. Davanti alla crisi ed ai regimi protezionistici delle altre potenze, si invocò un’interpretazione storica e pragmatica dei fenomeni economici, dove l’intervento dello Stato non doveva più essere un tabù, ma un volano per il progresso economico e sociale delle industrie, del paese intero. Venne meno in sostanza quella fiducia ferrea nell’individualismo e nell’assenza di interventismo statale che erano stati alla base del liberalismo inglese per decenni. Così come il governo centrale si era occupata dell’educazione e dell’istruzione, lo Stato avrebbe dovuto varare politiche sociali di sostengo alle fasce più povere della popolazione, colpite dai flagelli dell’analfabetismo, della povertà, della disoccupazione, della prostituzione, della mancanza di prospettive. I drammi degli slums dickensiani non erano cambiati dagli anni quaranta, anzi, con la continua industrializzazione ed urbanizzazione erano in certi casi peggiorati, con anche l’arrivo dell’immigrazione continentali che creò ancora più miseria e dissapori. Nacquero allora i fenomeni di razzismo, xenofobia ed antisemitismo nei confronti degli stranieri che caratterizzarono per almeno un ventennio la vita dei quartieri operai, dove i lavoratori inglesi si sentirono minacciati dalla loro concorrenza; basti pensare all’odio nei confronti dei polacchi scappati dai pogrom zaristi dell’East End londinese o le vere e proprie ribellioni anti- irlandesi in Scozia o a Liverpool. Le condizioni di vita dei quartieri operai salirono più che mai alla ribalta, coi giornali ed i periodici che si occupavano costantemente del problema. Come da inveterata tradizione britannica, si creò una rete di associazioni filantropiche e caritatevoli finanziate dalle borghesie imprenditoriali, con comitati di quartiere gestiti da funzionari pagati e dalla presenza sul territorio continua e quotidiana. Le descrizioni scandalistiche e scabrose degli slums e dei caseggiati popolari provocarono roboanti discussioni in Parlamento, tant’è che nel 1884 fu creata su iniziativa del conservatore

Salisbury una Royal Commission interparlamentare, i cui risultati furono alla base di una riforma sociale approvata dai conservatori nel 1885, che se migliorò la situazione abitativa non riuscì però a risolvere le croniche deficienze e le decennali problematiche dei quartieri operai 72.

Nell’ultimo ventennio vittoriano, all’ascesa inarrestabile delle borghesie e al lento declino dell’aristocrazia terriera si accompagnò un nuova vitalità operaia e proletaria, così come era già successo nei lontani anni quaranta, in concomitanza di un’altra fase depressiva in economia. Spentasi la fiamma cartista, il frastagliato mondo radicale, sindacalista, operaio e socialista si era acquietato nei decenni di espansione economica ed avevano in Gladstone e nel suo Partito Liberale il punto di riferimento delle proprie istanze in Parlamento. Quando però sopraggiunsero le difficoltà economiche e le depressioni degli anni Settanta ed Ottanta la situazione cambiò, anche se a piccoli passi. Il socialismo britannico ebbe infatti origine radicale, intellettuale e borghese e si fondò sulla ricca critica sociale dei testi di Dickens, Morris, Ruskin che avevano accompagnato lo sviluppo del paese nel corso dei decenni. In questi scritti erano presenti una forte critica alla moderna società industriale, visioni di una società più giusta che spesso sfociavano in una fuga verso un’utopia immaginaria o verso una nostalgia, mai del tutto scomparsa, per una mitica ed idealizzata Inghilterra rurale del passato. La prima organizzazione che si fece portavoce di istanze radicali, socialiste e cartiste fu la Democratic Federation, fondata nel 1881 da Henry Hyndman. Esponente di una ricca famiglia di piantatori delle Indie Occidentali, con studi ad Eton e Cambridge, Hyndman era un esponente del radicalismo inglese in polemica col Partito Liberale, considerato troppo borghese e favorevole al capitalismo. Lacerata da divisioni interne e priva di una base operaia e sindacale, la Democratic Federation di Hyndman (divenuta Social-Democratic Federation) ebbe il merito di inserire la corrente marxista nel bagaglio delle possibilità ideologiche della sinistra britannica. Nel 1884 comparve invece sulla scena politica inglese un’altra associazione che avrebbe avuto ben altro successo e che avrebbe influenzato la

politica nazionale, ovvero la Società Fabiana. Ebbe origine dallo stesso ambiente intellettuale e radicale imbevuto di aspirazioni ad una nuova società che si staccasse dai modelli borghesi e seguisse una maggior eguaglianza; tra i suoi membri più celebri si possono ricordare i coniugi Webb, Bernard Show, Virginia Woolf. Partiti dall’analisi del marxismo, i fabiani, che avevano preso il loro nome dal console romano Quinto Fabio Massimo il “Temporeggiatore”, si rivolsero ad un credo riformista fondato sullo studio, l’analisi e la risoluzione delle questioni sociali, in una originalissima unione di fede nella scienza, evangelismo ed idealismo etico. I fabiani non fecero affidamento sulla classe operaia o sul sindacalismo delle Trade Unions, ma preferirono strutturarsi come gruppo di pressione politico su obiettivi immediati e pratici, in modo tale da realizzare un programma riformistico graduale e “minimo”, per utilizzare la differenziazione delineata dal socialdemocratico tedesco Kautsky e dall’italiano Turati. Per i fabiani infatti la costruzione di una società socialista, più equa, solidale e giusta doveva rimanere all’interno di una cornice parlamentare e costituzionale, per cui gli eccessi rivoluzionari degli estremisti e degli anarchici erano solo d’intralcio al progetto riformatore. Per tutti gli anni settanta ed ottanta il socialismo come forza politica rimase quindi ai margini della realtà politica britannica, costituendo una forma di critica sociale che per la sua natura fortemente borghese, elitaria ed intellettuale non riuscì ad avere un seguito nel mondo operaio e sindacale londinese e nazionale73.

Negli anni di espansione economica, ma pure in quelli di depressione e disoccupazioni, i lavoratori, gli agricoltori e gli operai vissero invero una condizione di relativa prosperità economica. Se nei decenni alla metà del secolo un certo benessere fu conseguente alla continua espansione dei mercati britannici, negli anni di crisi indubbiamente aumentarono la disoccupazione e le tensioni sociali, ma i salari reali degli occupati crebbero quasi del cinquanta per cento. Per la prima volta nel secolo, un numero non indifferente di persone poté disporre di denaro (anche se non molto) per cose che non fossero

73 Edoardo Grendi, L’avvento del laburismo. Il movimento operaio inglese dal 1880 al 1920,

essenziali come il vestiario, l’abitazione e l’alimentazione, indirizzandosi verso beni assolutamente voluttuari o di consumo durevole. Una maggiore retribuzione incontrò così l’altra tendenza scaturita dalla Grande Depressione, ovvero il calo dei prezzi dei beni di prima necessità, sia per l’inondazione delle più economiche merci straniere sia per la volontà britannica di battere proprio la concorrenza straniera calmierando ancora di più i costi. Se si aggiunge la crescente disponibilità economica delle borghesie, stiamo delineando quello che in pochi anni sarebbe diventato un mercato di massa. Ovviamente, non tutta la classe operaia godette della situazione testé citata, anzi, venne delineandosi una gerarchia nella stessa classe lavoratrice. Charles Booth, eminente sociologo ed intellettuale, brillante membro del Reform Club, iniziò alla fine degli anni ottanta un’indagine sociale che poi prese il nome di Life and