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Superate senza non pochi problemi le minacce della Rivoluzione francese e le turbolenze napoleoniche, nei primi trent’anni del secolo la Gran Bretagna visse un periodo di grande espansione commerciale, industriale e demografica; essa non era altro che la continuazione e la cumulazione apparentemente inarrestabile di quei processi iniziati nel Settecento. I governi di questi decenni, quasi esclusivamente composti da Tories, in generale non ebbero e non vollero avere alcun ruolo preciso nell’industrializzazione, fedeli ad un laissez-faire che avrebbe caratterizzato la scuola di pensiero economica e l’economia politica della nazione per lunghi tratti dell’Ottocento. Se la teoria del liberalismo economico era già maggioritaria presso le classi dirigenti

42 Paul Langford, Il XVIII secolo 1688-1789, in Kenneth O. Morgan, a cura di, Storia

dell’Inghilterra. Da Cesare ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 2009, pp. 323-356. Per una visione completa di questo fondamentale periodo della storia britannica, cfr. Eric Hobsbawm, La rivoluzione industriale e l’Impero, Torino, Einaudi, 1972

britanniche già all’inizio dell’Ottocento, essa raggiunse il proprio culmine (e la propria rigidità ortodossa) alla metà del secolo; la gestione della Great Famine di metà anni Quaranta da parte del governo Russell ne è un chiaro esempio43. Nondimeno, per tutelare gli interessi della classe agraria che in gran parte popolava il Parlamento a Westminster, l’establishment era pronto anche a fare delle eccezioni; nel 1815 infatti furono approvate le Corn Laws, un atto protezionistico finalizzato a proteggere la produzione agricola nazionale.

Con la grande espansione delle attività commerciali, manifatturiere e portuali emerse ben presto una classe di imprenditori, banchieri, mercanti, industriali desiderosi di imporsi sulla scena politica, terreno fino ad allora riservato esclusivamente alla grande e tradizionale aristocrazia terriera, militare ed ecclesiastica. I protagonisti di quegli sviluppi che stavano costruendo e consolidando la supremazia britannica sul resto dell’Europa e del mondo erano esclusi dal processo decisionale. La minoranza whig, in difficoltà da decenni, seppe approfittare della situazione e si fece paladina in Parlamento di una riforma elettorale ormai ritenuta necessaria. Il problema principale non risiedeva nel criterio censitario, ma nella conformazione dei collegi elettorali, immutati dai tempi della Glorious Revolution ed incuranti dei grandi cambiamenti in atto da ormai un secolo. Si creavano così casi paradossali, con città al cuore dello sviluppo industriale come Manchester o Sheffield sottorappresentate o addirittura senza deputati a Westminster, perché zone scarsamente popolate o di marginale importanza all’epoca delle guerre civili. Al contrario, i centri rurali delle contee, gli antichi centri di potere degli shires, mantenevano il proprio numero di deputati, anche se ormai in declino o addirittura quasi disabitati. Erano i famosi rotten boroughs, i “borghi putridi”, poiché facilmente manovrabili dalle pratiche elettorali clientelari dei grandi proprietari terrieri44. I Whigs condussero la campagna riformatrice con grande

43 Eugenio F. Biagini, Storia dell’Irlanda dal 1845 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 19-

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44 Esistevano poi i pocket boroughs, dove un elettorato nemmeno troppo esiguo era però “nelle

tasche” dei grandi proprietari terrieri, veri e propri signori locali da cui tutti dipendevano, in un modo o nell’altro.

efficacia, sia fuori che dentro Westminster: oltre alle discussioni parlamentari, essi predisposero una campagna popolare e giornalistica molto efficace.

Il Great Reform Act fu approvato nel 1832, dopo l’inaspettato ritorno al potere dei Whigs nel 1830; il governo tory si era infatti dovuto dimettere per dissapori interni legati ad una legge sull’emancipazione politica degli irlandesi. La questione irlandese si dimostrò così l’ago della bilancia della politica inglese e questa scena si sarebbe ripetuta diverse volte nel corso dell’Ottocento. Più che sul piano prettamente numerico della rappresentanza politica (si passò ad un elettorato pari al 4% della popolazione), il Great Reform Act del 1832 è uno spartiacque della storia politica inglese per due motivi. Da una parte permise l’ingresso nella scena politica della nuova borghesia capitalistica industriale, dall’altra fu il primo di una serie di riforme che nel corso dell’Ottocento furono destinate ad allargare progressivamente l’elettorato. Proprio col 1830 si può datare la definitiva partenza del bipolarismo partitico britannico. Benché le differenze tra i due schieramenti esistessero da più di un secolo, fino agli anni Trenta tali difformità rimasero nebulose ed empiriche. I rappresentanti parlamentari appartenevano tutti alla stessa classe aristocratica, per cui non solo condividevano la stessa cultura, gli stessi usi e la stessa mentalità, ma pure in molti casi anche lo stesso sangue e le stesse famiglie. Con l’ingresso della nuova borghesia, pur in una conservazione degli equilibri e dell’ordine sociale che sarebbe giunto sino alla Prima Guerra Mondiale, le posizioni si fecero più definite e divisive, la lotta politica diventò più serrata; non si sarebbe più potuti tornare indietro45.

I grandi sviluppi industriali e commerciali che portarono la Gran Bretagna sulla vetta del mondo in pochi decenni ebbero però anche effetti negativi, un lato oscuro difficilmente trascurabile. Come già detto, la forte espansione industriale attirò verso le città una massa sempre più crescente di lavoratori che provenivano dalle campagne; tale afflusso, sia per mancanza di norme che per puro disinteresse, non fu mai seriamente regolamentato e

45 Alberto Mario Banti, L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche

controllato. Il processo fu tumultuoso, continuo ed allo stesso tempo ad ondate sempre più crescenti. Questi nuovi lavoratori avevano naturalmente bisogno di un alloggio ed allora proprietari terrieri ed imprenditori edili senza grandi remore civiche e morali favorirono e finanziarono la creazione di sterminati quartieri operai, con casermoni e case plurifamiliari furono costruite in gran velocità, senza badare troppo a standard sanitari e di sicurezza. Le città industriali crebbero così disordinatamente, attorniate da quelle enormi distese di slums così ben descritte da Dickens, dove le condizioni di vita furono da subito pessime, per scarsa igiene e focolai di epidemie, alta promiscuità, un’elevata criminalità ed una sicurezza sostanzialmente nulla. In questi quartieri infernali andarono a lavorare i nuovi operai, il nuovo ceto proletario già flagellato dalle condizioni proibitive dei luoghi di lavoro, con turni massacranti, garanzie nulle e livelli salariali infimi; le uniche via di fuga furono una prostituzione ed un alcolismo dilaganti. Le condizioni drammatiche dei quartieri operai ebbero una vasta risonanza, anche grazie all’operato delle congregazioni religiose, di grandi riformatori come Bentham e delle organizzazioni filantropiche che ormai da decenni erano un’istituzione nella vita sociale britannica, in nome di quell’idealismo morale vittoriano che pochi anni prima aveva fatto abolire la tratta degli schiavi e che combatteva aspramente per un mondo migliore e più attinente ai principi del cristianesimo. Una decisione a riguardo non era più rinviabile, anche nel timore che questi inferni terrestri potessero scoppiare e rivoltarsi da un momento all’altro.

Il Parlamento nel corso del ventennio successivo cercò di correre ai ripari, nonostante la ancora forte influenza dei modelli demografici ed economici maltusiani e muovendosi sempre dentro gli stretti schemi del liberalismo politico, per il quale l’intervento statale doveva essere ridotto al minimo non solo in economia, ma anche nella gestione centrale dello stato. In tale direzione andarono atti come il Factories Regulation Act del 1833, una regolamentazione degli orari e delle condizioni degli operai in fabbrica (specialmente rivolto ai bambini); il nuovo Factory Act del 1844, un’ulteriore riduzione degli orari di lavoro per donne e bambini ed un primo passo

legislativo per imporre standard di sicurezza; la legge del 1848 sull’istituzione di uffici di igiene locale. Altrettanto importanti furono le disposizioni per incentivare l’istruzione primaria, che furono al centro di una diatriba che arriverà sino alla fine del secolo tra i sostenitori di un’educazione maggiormente controllata dalla Chiesa anglicana (la posizione dei Tories) o da istituzioni laiche in mano alle amministrazioni locali (la posizione whig). Molto più controverso fu per esempio il Poor Law Emendament Act del 1834, quando il governo Grey (Whig), fedele all’ortodossia liberale, decise di sospendere il sistema di sussidi che dai tempi di Elisabetta I sosteneva il sistema assistenziale per i poveri ed i disoccupati e che ormai era un carico gravoso per le casse statali. Furono così trasformate le workhouses, le fabbriche ormai senza fondi gestite dalle parrocchie dove venivano riversati i disoccupati ed i più poveri , in terribili istituti di reclusione, ben peggiori delle carceri; essi furono così costretti a scegliere il libero mercato del lavoro, sicuramente meno infernale delle workhouses46.

Gli atti riformatori del Parlamento non poterono risolvere in toto la difficile situazione dei quartieri industriali. Anzi, tali pessime condizioni non poterono che peggiorare negli anni Quaranta, quando la Gran Bretagna visse per la prima volta dopo decenni una lunga fase di stallo economico, palpabili tensioni sociali e la terribile carestia irlandese. Divenne tremendamente evidente una realtà che fino ad allora era stata coperta dai successi espansivi della nazione: la Gran Bretagna era senza alcun dubbio il paese più industrializzato ed in crescita del mondo, ma era pure il paese delle disparità più evidenti e della povertà più estrema, come proprio allora facevano notare riformatori sociali ed autori come Dickens, Engels e Marx. I primi ad essere scontenti non potevano che essere gli operai, che proprio allora iniziarono a riunirsi in organizzazioni e sindacati autonomi, le Trade Unions, in cui riversare il proprio malcontento e la propria volontà politica di lottare per maggiori diritti e garanzie. Di quanto grande fosse il loro scontento ne fu una

46 Christopher Harvie, Rivoluzione e dominio della legge 1789-1851, in Kenneth O. Morgan, a

cura di, Storia dell’Inghilterra. Da Cesare ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 2009, pp. 357- 385

riprova il movimento cartista, nato nel 1838 e che per un decennio inquietò le notti dell’establishment. Un’associazione di operai londinesi redasse una breve e concisa Carta del popolo, ove in sei punti si chiedevano criteri di maggiori democraticità e trasparenza all’interno della politica inglese e che intendeva soprattutto offrire un programma politico per un movimento che voleva riunire l’intera classe operaia, totalmente esclusa dal Great Reform Act. Attorno alla Carta nacque un vasto seguito popolare che redasse petizioni per il Parlamento, oceaniche manifestazioni di piazza ed un’efficace moderna propaganda coi mezzi di informazione di allora. Il movimento si esaurì nel corso degli anni Quaranta senza ottenere alcun risultato dai governi che si succedettero e che non si risparmiarono dal ricorrere all’incarcerazione preventiva per reprimere la dirigenza del movimento. Tuttavia, il cartismo fu ugualmente molto importante per la storia britannica non solo per la nascita dell’attivismo politico operaio ma poiché dimostra soprattutto quanto negli anni Quaranta, quando in parallelo in Europa il malcontento si tramutò spesso in rivoluzione, il disagio sociale venisse incanalato sui binari della politica e della rappresentanza parlamentare senza ricorrere alla violenza, dimostrando ancora una volta di più la solidità del sistema47.

La grande esposizione universale al Crystal Palace del 1851, sponsorizzata dalla corte e dalla borghesia industriale, fu una celebrazione del predominio della Gran Bretagna sui mercati mondiali ed un inno al liberalismo, che proprio in quegli anni raggiunse il suo massimo apogeo. Allo stallo ed all’affaticamento degli anni Quaranta seguì un nuovo ciclo espansivo, trainato da una grande espansione dell’agricoltura, dell’industria (soprattutto dalla costruzione delle ferrovie) e dagli investimenti, con Londra capitale finanziaria del mondo. L’esposizione fu un enorme successo, con sei milioni di biglietti di ingresso venduti e folle di turisti, inglesi e stranieri, che si riversarono a Londra per l’occasione; per tanti sudditi della Corona fu quella la prima occasione per visitare la capitale del Regno e dell’Impero. Proprio nel

47 Edoardo Grendi, Le origini del movimento operaio inglese 1815-1848, Bari-Roma, Laterza,

1851 il censimento notificò due dati che colpirono l’immaginazione popolare e dell’establishment. Per la prima volta nella storia del Regno Unito gli abitanti dei centri urbani, anche di dimensione molto ridotta, superarono gli abitanti delle campagne; emerse inoltre che solo una parte della popolazione frequentava abitualmente le chiese, e gli anglicani ottennero una maggioranza molto risicata. La Gran Bretagna, sempre più urbanizzata e laica, industrializzata ed al centro delle maggiori dinamiche economiche mondiali, visse così un ventennio di forte sviluppo economico e sociale, con un benessere diffuso che incominciò a toccare le classi più povere, il proletariato urbano e la piccola borghesia, senza con questo eliminare le disparità e le tensioni che ogni tanto affiorarono, a seconda delle ondate espansive e depressive all’interno dello stesso ciclo economico. Alla guida del paese rimasero quasi ininterrottamente governi che ora iniziavano a definirsi liberali, composti da maggioranze favorevoli al bastione del liberoscambismo, ma divise in così tante fazioni (dai radicali ai seguaci del liberalismo, dai vecchi whig ai non conformisti) che i compromessi e gli equilibri risultarono spesso fragili e di breve durata, legati a trattative e patti personali. Il liberalismo politico ebbe i suoi anni d’oro proprio nel medio periodo vittoriano e fu alla base dei programmi non solo dei governi liberali che si succedettero, ma pure della minoranza conservatrice, che abbandonò definitivamente il sostengo del protezionismo. Essi non solo si fecero fautori del laissez-faire in economia, ma anche della netta divisione tra lo stato da una parte e la società dall’altro. Individualismo e fiducia in sé stessi, un maggior laicismo nella vita culturale e sociale, una fede nelle possibilità della scienza furono i cardini del liberalismo del periodo vittoriano. Il concetto di progresso e di fiducia nei mezzi propri e della propria civiltà si unirono, con l’uscita de L’origine della specie di Charles Darwin nel 1859, all’idea di evoluzione e furono alla base del positivismo, che da allora divenne l’humus culturale della borghesia e della società britannica48.

48 H.C.G. Matthew, L’età liberale 1851-1914, in Kenneth O. Morgan, a cura di, Storia

dell’Inghilterra. Da Cesare ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 2009, pp. 395-403. Per una visione completa sul significato di età vittoriana, cfr. Simon Heffer, High Minds. The Victorians and the Birth of Modern Britain, London, Windmill Books, 2013

In quegli anni emersero le due figure che con il loro dualismo avrebbero modificato per sempre la storia inglese, non solo nel campo della politica: Gladstone e Disraeli. Gladstone, nato a Liverpool nel 1809 in una famiglia di mercanti scozzesi, entrò in Parlamento nel 1832 nello schieramento tory- conservatore. Più volte ministro sotto i governi di Peel, in seguito alla scissione del 1846 conseguente all’abolizione delle Corn Laws seguì lo stesso Peel all’opposizione. Grande fautore del libero scambio e più volte Cancelliere dello Scacchiere (il ministro delle finanze inglese) negli anni Cinquanta e primi Sessanta, portò un austero ordine nel budget nazionale e si fece promotore di iniziative molto popolari, quali una generale riduzione delle tasse, sgravi fiscali per incentivare l’impresa privata, l’emancipazione della stampa popolare dalle cosiddette “tasse sulla conoscenza”, le tasse di bollo sui giornali ed i dazi sulla carta che impedivano una maggior diffusione della cultura e delle idee tra le masse popolari. Ben presto Gladstone diventò uno dei più autorevoli leader del partito liberale49.

Nato a Londra in una famiglia di benestanti ebrei sefarditi nel 1809, Disraeli, destinato dal padre ad una carriera legale, si dedicò al giornalismo ed alla scrittura, affiancando novelle e romanzi di successo a pamphlet politici; di tale esperienza avrebbe fatto tesoro in seguito, con un’abilità retorica pareggiata solo da Gladstone. Entrò a Westminster nel 1837 nelle file dei tory- conservatori, ma a differenza di Gladstone rimase un fervido protezionista anche dopo la scissione del 1846. Affinate le proprie capacità con vari incarichi ministeriali nei brevi governi tory degli anni Cinquanta, Disraeli diventò in breve tempo il principale leader dello schieramento conservatore.50

Non fu necessario molto tempo per arrivare al primo scontro tra questi due grandi personaggi della politica britannica. L’occasione si presentò alla metà degli anni Sessanta quando, anche sulla scia delle passate rivendicazioni

49 Per una visione completa della figura di Gladstone, vd. Eugenio F. Biagini, Glastone,

London, Palgrave MacMillan, 2000

50 Per una conoscenza monografica di Disrali, cfr. E. J. Feuchtwanger, Disraeli, Democracy

cartiste, si iniziò a discutere di una nuova legge elettorale che fosse rappresentativa dei grandi cambiamenti avvenuti negli ultimi trent’anni. Era molto complicato però trovare un compromesso tra le varie fazioni che costituivano la maggioranza di governo liberale, ognuna rappresentante delle proprie istanze e dei propri interessi. Divenne evidente quanto fosse difficile e precario governare il paese con un amalgama di liberali di centro, vecchi whig, radicali favorevoli all’ingresso degli operai, non conformisti, conservatori favorevoli al libero scambio, gruppi di deputati irlandesi. Le discussioni riguardo l’estensione della legge, da applicare con un abbassamento del censo richiesto, si unirono a dibattiti sulla nuova geografia delle circoscrizioni, bloccando così il Parlamento. Entrambi i partiti condussero un’accesa campagna a favore delle proprie (ed opposte) posizioni, con Gladstone e Disraeli che ne furono grandi attori. Nel frattempo vi furono grandi manifestazioni in tutto il paese, con scontri tra i comitati favorevoli e contrari alla nuova legge, con il solo risultato che il clima politico si infiammò, diventando in alcuni casi incontrollabile.

I dissidi interni al governo Russell furono tali da rendere necessarie le dimissioni nel 1866; arrivò così il turno di un governo di minoranza conservatore guidato da Lord Derby e con Disraeli alle Finanze. Questo governo, nel tentativo di rompere l’egemonia liberale,varò nel 1867 una seconda legge elettorale, nemmeno poi troppo distante dal progetto iniziale di Russell: furono abbassati i requisiti di censo, portando l’elettorato dal 4% all’8% della popolazione, e furono rimodellate le circoscrizioni elettorali, con un gerrymandering destinato a rafforzare e favorire le posizioni conservatrici. La mossa si rivelò però un azzardo, perché in occasione delle nuove elezioni del 1868 il partito vincitore fu proprio quello liberale, che poté costituire così un solido governo guidato da Gladstone51.

Proprio le elezioni del 1868 e l’estensione dell’elettorato comportarono per i due partiti una grande trasformazione, ovvero l’adozione di una struttura

51 E.J. Feuchtwanger, Democrazia ed Impero. L’Inghilterra tra il 1865 ed il 1914, Bologna, Il

permanente diffusa sul territorio, capace di mobilitare gli elettori in pianta stabile per raccoglierne il consenso ed il favore, che sostituisse i comitati elettorali che venivano a crearsi solo nel periodo delle elezioni. I primi a muoversi e a strutturarsi furono i conservatori, negli anni del governo Gladstone. Dalla predominante componente terriera e fondiaria, con pure elementi del mondo industriale e finanziario, i conservatori decisero di rivolgere le proprie attenzioni alla piccola borghesia ed agli artigiani delle contee rurali, tradizionali roccaforti conservatrici. L’organizzazione del Partito Conservatore, nato ufficialmente nel 1867 dall’unione delle varie associazioni conservatrici che fino ad allora erano state la base del partito tory (la Conservative National Union), fu affidata a John Gorst, un giovane avvocato pieno di idee ed inventiva entrato pochi anni prima in politica In pochi anni Gorst creò un sistema di organizzazione partitica strutturato in circoscrizioni, federazioni locali ed una burocrazia centrale di coordinamento. Il partito in questa maniera non solo si rafforzò nelle circoscrizioni di antica e fedele affiliazione, dove era già presente un embrionale establishment di coordinamento conservatore, ma arrivò pure laddove non era mai stato presente, raggiungendo così una copertura nazionale. I liberali si mossero relativamente più tardi, poiché la vasta eterogeneità delle loro coalizioni e la carismatica leadership di Gladstone riducevano la necessità e la volontà di una maggior organizzazione. La National Liberal Federation nacque ufficialmente nel 1877 e si dotò di una struttura centrale e locale molto simile a quella di Gorst; essi adottarono il cosiddetto “modello Birmingham”, ideato per vincere le locali elezioni per la carica di sindaco da un giovane Joseph Chamberlain, uno dei maggiori esponenti dell’ala radicale52.

Con il 1867 in Gran Bretagna si ebbe quindi l’inizio di una nuova era