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Britons rule the Waves?La Gran Bretagna, la Guerra Anglo-Boera e la Prospettiva Italiana (1899-1902)

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I- Land of Hope and Glory

1.1 Il Diamond Jubilee della Regina Vittoria

Il 22 giugno del 1897 l’Impero Britannico celebrò il proprio apogeo, lo zenit di un processo lungo ormai due secoli e che negli ultimi quindici anni aveva subito una vigorosa accelerata, con territori pari a ventiquattro volte la Gran Bretagna condotti sotto la sovranità della Corona. Un secolo iniziato sotto le minacce della potente scure napoleonica al di là della Manica, con Pitt il Giovane come Primo Ministro e Nelson difensore della patria, volgeva così al suo termine con una celebrazione ineguagliata nella Storia, come ebbe a scrivere la Regina Vittoria nel suo diario quella sera1.Quel giorno fu dedicato

ai festeggiamenti per il Giubileo di Diamante della sovrana, salita al trono nell’ormai lontano 1837, superando così il primato del nonno Giorgio III, fino ad allora il monarca che aveva regnato più a lungo nella storia britannica2. Ma in realtà, come già i testimoni di allora vollero far notare, in quella assolata mattina di giugno l’Impero Britannico celebrò sé stesso ed i risultati ottenuti trionfalmente in una lunga corsa attraverso il XIX secolo; per questa occasione, quasi una “festa in famiglia” come scrisse il Times, non fu invitato nessuno dei regnanti stranieri. Anni di un crescente, compiaciuto ed orgoglioso sentimento imperiale per cui la Gran Bretagna ed il suo Impero erano i garanti dell’ordine mondiale e l’unico esempio da seguire, il miglior risultato della storia umana, toccarono il loro apice. La Union Flag nel corso dei decenni passati aveva seguito in giro per il mondo generazioni di britannici, i quali, volontariamente o meno, diffusero così in tutto il globo non solo l’influenza politica e diplomatica della Gran Bretagna, ma anche gli usi, i costumi, i sistemi politici,

1 Carolly Erickson, La piccola regina. Vittoria ed il suo tempo, Milano, Mondadori, 2000, pp.

289-90

2 In realtà, la Regina Vittoria aveva superato come longevità Giorgio III nel settembre del

1896, ma su espresso desiderio della Sovrana i festeggiamenti furono rimandati per far coincidere lo storico risultato con l’altrettanto memorabile ricorrenza dei sessanta anni di regno sul trono britannico

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sociali, economici e valoriali di quella che possiamo chiamare civiltà britannica3 .

“On the morning of June 22, 1897, Queen Victoria of England went to telegraph room at Buckingham Palace, wearing a dress of black moirè with panels of pigeon grey, embroidered all over with silver roses, shamrocks and thistles. It was a few minutes after eleven o’clock. She pressed an electric button; an impulse was transmitted to the Central Telegraph Office in St Martin’s le Grand; in a matter of seconds her Jubilee message was on its way to every corner of her Empire (…) Yet the Queen’s message was simple- Thank my beloved people. May God Bless them”4.

Una grande e trionfale processione partì poco dopo da Buckingham Palace per arrivare alla Cattedrale di St Paul, dove avrebbe avuto luogo una solenne celebrazione; Londra in quelle ore sarebbe stata veramente il cuore dell’Impero. Le strade, i lampioni elettrici e a gas, i ricchi palazzi delle principali vie del centro londinese dove si sarebbe dipanato il corteo furono riccamente addobbate con festoni e ghirlande, ogni balcone e finestra ebbe la sua bandiera britannica. Grandi folle festanti, emozionate ed incuriosite iniziarono ad assieparsi lungo il percorso dal giorno prima, con milioni di sudditi inglesi e visitatori stranieri desiderosi di assistere ad un evento che già quel giorno si sapeva sarebbe passato alla Storia. Per la sfilata furono radunati quasi cinquantamila soldati, la più grande forza militare mai assemblatasi a Londra, in rappresentanza dell’Esercito imperiale e della Royal Navy. La parata militare, caldeggiata dal Primo Ministro Salisbury e soprattutto da Joseph Chamberlain, Ministro delle colonie, doveva essere una vetrina dell’Impero. Essa doveva infatti simboleggiare con orgoglio nazionalistico la potenza britannica, raggiunta dopo decenni di progresso, lotte e conquiste, il

3 Raymond F. Betts, L’alba illusoria. L’imperialismo europeo nell’Ottocento, Bologna, Il

Mulino, 2008, pp. 195-239

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risultato finale di una lunga marcia di cui i sudditi della Corona dovevano essere fieri, gratificati e consapevoli. Doveva essere però anche un monito, un richiamo alle Potenze straniere in ascesa in quegli anni, come a ricordare che la Gran Bretagna non si sarebbe mai arresa di fronte alla loro impetuosa avanzata. Un evento quindi che doveva essere patriottico, quasi riservato ed intimo, ma pure dalla vastissima risonanza mondiale, come in effetti ebbe con le decine di corrispondenti dei quotidiani di tutto il mondo e con le prime macchine da ripresa cinematografica. Per quel giorno, in un uso che si sarebbe ripetuto particolarmente tante volte nella storia inglese del Novecento, le industrie e gli artigiani fecero tesoro della ricorrenza, inondando le vie ed i negozi di ogni sorta di souvenir: tazze e piatti commemorativi, carte da gioco, foulard, bandierine, poster, medaglie.

“Carrozze di gala trasportavano gli undici primi ministri delle colonie del Canada, della Nuova Zelanda, della Colonia del Capo, del Natal, di Terranova e dei sei stati d’Australia. Nella parata figurava la cavalleria di ogni parte del globo: i Cape Mounted Rifles, gli Ussari canadesi nelle loro sgargianti giubbe rosse, i Lancieri del New South Wales, la Cavalleria leggera di Trinidad, i barbuti lancieri di Khapurthala, del Badnagar e degli altri stati indiani, tutti col capo avvolto in splendidi turbanti, gli zamptiè di Cipro, con tanto di fez infiocchettato su pony dalle nere criniere. Reggimenti di fanteria di colore, belli e terribili da contemplare, secondo le parole della stampa entusiasta, sfilavano lungo le vie in una fantasmagoria di uniformi variegate: la Polizia del Borneo, l’Artiglieria della Giamaica, la Reale polizia a cavallo della Nigeria, i giganteschi Sik dell’India, gli Houssas della Costa D’Oro, i cinesi di Hong Kong, i malesi di Singapore, i neri delle Indie Occidentali, delle Guiana e della Sierra Leone, i Maori della Nuova Zelanda; compagnia dopo compagnia sfilavano sotto gli occhi del popolo affascinato e sgomento dinanzi alla testimonianza del proprio potere”5.

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A guidare le truppe nella parata del Giubileo di Diamante furono posti due personaggi ormai entrati nella mistica dell’Imperialismo come Wolseley e Roberts, che per le loro azioni e per le narrazioni costruite intorno ad essi erano divenuti vere e proprie leggende, dei miti nazionali e patriottici, ben più dei personaggi della letteratura; sulle loro vite ed azioni si creò un vero e proprio mercato di stampe, quadri, riviste, letteratura popolare, oggettistica, canzoni e bric-a-brac. Le loro due vite, le loro due carriere, i loro trionfi furono i paradigmi della storia militare britannica ed imperiale del XIX secolo, un simbolo di cosa fosse stato e di cosa fosse l’Impero per i sudditi della Corona e per gli osservatori del mondo intero. Garnet Wolseley fu posizionato alla guida della British Army, e non poteva essere altrimenti. Commander-in-Chief dell’esercito britannico, Wolseley era nato a Dublino nel 1833, da una famiglia anglo-irlandese, fatto non irrilevante nella storia dell’esercito imperiale. I più validi generali della storia britannica provenivano infatti dall’isola di San Patrizio, l’Irlanda, da secoli terra dalla radicata tradizione militare. I continui scontri e le perpetue tensioni con la popolazione locale richiedevano un’accurata preparazione, una predisposizione all’esercizio delle armi e della ars bellica che si sarebbero rilevate decisive ed altamente performanti per le carriere delle future gerarchie militari britanniche. Profondamente religioso, arrogante, superbo, freddo, distaccato, rispettato ed allo stesso tempo temuto dai suoi uomini, metodico e preparato nei minimi dettagli, Wolseley fu il prototipo del soldato vittoriano. Rimasto orfano di padre in giovane età, entrò ben presto nell’esercito e nei successivi trent’anni scalò le gerarchie. Partecipò a molte delle campagne britanniche in giro per il mondo, in quegli impari e vittoriosi conflitti coloniali che caratterizzarono la storia militare inglese del XIX secolo, ad eccezione dei conflitti napoleonici e della spedizione in Crimea. Tenente nelle guerre birmane del 1852, capitano in Crimea due anni dopo, in azione in tutte le campagne di risposta alla grande rivolta indiana del 1857, represse le rivolte dei Feniani in Canada negli anni Sessanta6, condusse

6 Per una maggior completezza, cfr. Eugenio Biagini, Storia dell’Irlanda dal 1845 ad oggi,

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come generale le azioni di guerra contro gli Ashanti in Nigeria e gli Zulù in Sudafrica negli anni Settanta, diventando Pari del Regno per i suoi meriti bellici. Wolseley entrò definitivamente nella leggenda nel 1882, quando con una breve azione militare sconfisse le forze di Arabi Pascià in rivolta ed impose la presenza britannica in Egitto; fallì pochi anni dopo nel tentativo di recuperare Gordon imprigionato a Khartum dall’assedio delle truppe del Mahdi , e questo fu un grande peso per il resto della sua vita, la sua unica grande sconfitta7. Nel 1895, infine, fu nominato Comandante in Capo dell’Esercito Britannico, una posizione dalla quale cercò di avviare un processo di rinnovamento e di riforma delle forze armate, posizionando nei ruoli chiave della gerarchia uomini di sua fiducia, il cosiddetto “Wolseley Ring”. Egli godette di un’enorme fama popolare, spesso spropositata, e per confermare quanto detto poc’anzi sulla retorica creata attorno a questi personaggi, basti pensare che per il protagonista principale dell’opera The Pirate of Penzance del 1879 Gilbert&Sullivan si ispirarono proprio alla figura del Commander-in-Chief e nel linguaggio comune “Alla Wolseley” equivaleva a dire “Tutto perfetto, tutto bene”.

Alla parata del Diamond Jubilee le truppe coloniali nelle loro alte uniformi furono sicuramente quelle maggiormente al centro dell’attenzione degli spettatori (inglesi e non) per il sicuro esotismo, la carica di misterioso fascino e per il chiaro ed evidente simbolismo della loro presenza, che ben chiariva l’estensione, l’estrema poliedricità e la potenza dell’Impero britannico. Essi furono guidati tra le ali di folla per le vie di Londra da Frederick Roberts, in sella ad un possente Arabo grigio. Roberts era l’opposto esatto di Wolseley: quanto quest’ultimo era freddo, austero, rispettato ma temuto dai suoi soldati, tanto Roberts era amato dai suoi sottoposti e considerato un primus inter pares, gioviale e gentile coi suoi collaboratori. Se Wolseley fu un promotore dell’innovazione, con una forte volontà riformatrice delle forze armate inglesi, Roberts premeva per le vecchie tradizioni, gli usi ed

7 E. J. Feuchtwanger, Democrazia ed Impero. L’Inghilterra tra il 1865 ed il 1914, Bologna, Il

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i costumi tradizionali che avevano reso l’esercito britannico invincibile nei conflitti dei decenni passati. Era perciò inevitabile che l’esercito si dividesse in due scuole di pensiero di fronte a questi due grandi ed opposti personaggi, che si rispettavano professionalmente ma si detestavano profondamente sul piano personale8.

Proveniente da una famiglia anglo-irlandese dalla forte tradizione militare, nacque a Cawnpore in India nel 1832, dove il padre comandava un reggimento. Educato nelle prestigiose scuole di Eton e all’accademia di Sandhurst, entrò ben presto in servizio nelle fila della British East India Company, proprio in tempo per partecipare alle operazioni in opposizione alla rivolta indiana del 1857. Roberts scalò velocemente le gerarchie e nel 1878 guidò la spedizione di occupazione dell’Afghanistan, da decenni al centro delle tensioni tra Russia e Gran Bretagna, desiderosa di difendere le vaporose frontiere settentrionali del Raj indiano dall’espansionismo russo in Asia centrale. L’episodio per cui Roberts ottenne un’enorme popolarità presso le truppe stesse ed in patria fu la famosa marcia su Kandahar del 1880, quando con diecimila uomini partì da Kabul ed attraversò le temibili valli interne del paese per liberare la guarnigione inglese assediata dalle truppe afgane9. Egli diventò così “Lord Roberts of Kandahar”, un eroe nazionale, tanto che Kipling gli dedicò una poesia che ebbe subito vasta eco nei giornali, nelle scuole e nella cultura popolare britannica10. Infine, a suggello di un passaggio di testimone tra due grandi generazioni della storia militare britannica, al corteo presenziarono i sopravvissuti della battaglia di Balaclava, combattuta in Crimea nel lontano 1854, ormai entrata nella leggenda e nella mistica nazionalista ed imperiale del sacrificio per la patria11.

8 Jan Morris, Pax Britannica, cit., pp. 236-240

9 Peter Hopkirk, Il Grande Gioco, Milano, Adelphi, 2004, pp. 428-446

10 Jan Morris, Pax Britannica, cit., pp. 237. La poesia di Kipling fu intitolata Bobs: “There’s a

little red-faced man/Which is Bobs/Rides the tallest ‘orse ‘e’ can/Our Bobs/ If it bucks or kicks or rears/’E can sit for twenty years/ With a smile round both’is ears/ Can’t yer, Bobs?”

11 Per un’accurata visione degli episodi bellici, cfr. Cecil Woodham Smith, Balaclava. La

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Al seguito del maestoso corteo militare sfilarono quindi le carrozze aperte dove sedevano i membri della famiglia reale, gli alti dignitari stranieri, gli ambasciatori (dal Nunzio Apostolico del Vaticano al rappresentante del Celeste Impero cinese), i membri dell’aristocrazia britannica, europea ed imperiale, i principi indiani. Infine, trainata da quattro pariglie di cavalli color crema, arrivò la carrozza di Stato con a bordo la Regina Vittoria. Come scrisse il corrispondente de “La Nazione”, uno dei tanti quotidiani presenti al Giubileo

“Questa avanza tra un entusiasmo impossibile a descriversi. Migliaia e migliaia di fazzoletti si agitano a tutte le finestre, a tutti i balconi, a tutte le tribune. All’approssimarsi della Sovrana scoppiano formidabili urrah; il sole illumina l’indimenticabile spettacolo. La Regina siede nella vettura, avendo di fronte la Principessa di Galles, mentre alla destra della vettura reale cavalca il Principe di Galles (…) Al passaggio della Regina le musiche intuonarono l’inno nazionale che migliaia di voci accompagnavano, per ricominciare gli entusiastici urrah quando gli inni cessavano. La Regina teneva un ombrellino aperto, ciò che impedì a molti di vederla in volto. La Regina fu ricevuta al Temple Bar dal Lord Mayor e dagli sceriffi. Il Lord Mayor, indossando l’antico costume, le presentò la spada della città di Londra”12

Si arrivò infine verso mezzogiorno alla Cattedrale di St Paul dove, col religioso e partecipato silenzio della folla, fu celebrata una gran messa all’aperto, nel corso della quale venne intonato un Te Deum composto quarant’anni prima dal Principe Alberto, l’amato ed indimenticato consorte della sovrana; alla fine della celebrazione fu suonato invece l’inno nazionale, accompagnato dal canto di tutti i presenti13. La processione quindi, al suono delle campane a festa, tra le urla della folla e le musiche delle bande militari, si mise nuovamente sulla via del ritorno per Buckingham Palace, percorrendo a ritroso il tracciato della

12 Il Giubileo della Regina Vittoria, “La Nazione”, 23 giugno 1897

13 La Regina per l’età avanzata non godeva di buona salute e le sue condizioni fisiche erano

ormai precarie; poiché la scalinata della Cattedrale era troppo ripida si rifiutò di essere trasportata al suo interno con la portantina

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mattina tra due impressionanti ali di folla compatte e festanti. Nel pomeriggio i membri della House of Lords e della House of Commons a Westminster si recarono a Buckingham Palace per rendere alla regina un ulteriore omaggio del Parlamento, e quindi della Nazione in senso lato.

In quel giorno tutto il mondo sembrò rendere omaggio non solo ad una Sovrana che aveva impresso il suo marchio a tutto un secolo con i suoi sessanta anni di regno, ma alla Gran Bretagna nella sua interezza ed alla sua potenza. L’imperatore Francesco Giuseppe, che l’anno successivo avrebbe festeggiato i suoi cinquanta anni di regno sul trono asburgico, si recò personalmente all’ambasciata britannica a Vienna per porgere il proprio omaggio nella uniforme del suo reggimento inglese; nel 1896 infatti, in segno di amicizia tra le due famiglie imperiali regnanti, Francesco Giuseppe era stato nominato Colonnello del 1st King’s Dragoons Guards, un reparto di cavalleria. Il francese Le Figaro glorificò l’Impero Britannico, degno successore della civiltà romana; perfino il Kreuz Zeitung, il giornale di riferimento degli Junker prussiani, riconobbe la sua inattaccabile grandezza14. Il New York Times colse l’occasione del Giubileo per rinnovare e celebrare i rapporti ormai cordiali che univano Gran Bretagna e Stati Uniti, senza tralasciare un orgoglio darwiniano di stirpe e di superiorità razziale ben diffuso nella cultura americana del tempo, in una comunità di intenti, identità e cultura con la madrepatria aldilà dell’Atlantico:

“The occasion which a great nation takes of celebrating itself is not commonly an occasion for cementing its good relations with other nations, it evokes rather the jealous scrutiny than the cordial sympathy of other powers (…) But the Jubilee has had the effect of increasing the good-will between Great Britain and the United States. We are exempted from the unhappy necessity which prevails in Europe of seeing in every foreign nation a possible enemy (…) For the great achievements of Victoria’s reign are achievements of men of the blood and race which most of us inherit, of the speech that all of us speak. The

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achievements of the English-speaking race are our achievements, and we have a right to be proud of them in a sense in which we should have no share in the deeds of the Latin or the Slavonic nations. We are part, and a great part, of the Greater Britain which seems so plainly destined to dominate this planet and which has made such enormous advances toward its conquest within these last sixty years. An American in London could not have felt himself quiet a foreigner on Tuesday. Americans at home, reading of the celebration, felt that they had some share in it, and that in a true sense it celebrated themselves”15.

Se la cerimonia tenutasi a Londra il 22 giugno 1897 fu un evento per celebrare la Regina e l’Impero, un’orgogliosa vetrina dei risultati raggiunti, la vera e più spettacolare dimostrazione della potenza britannica fu la rassegna della Marina del sabato seguente (il 26 giugno) a Spithead, il braccio di mare che separa l’isola di Wight dal resto dell’Inghilterra in prossimità di Portsmouth. Sin dalla Battaglia di Agincourt del 1415 durante la Guerra dei Cent’anni diventò consuetudine organizzare in questo profondo canale ben difendibile da attacchi esterni la rassegna della Royal Navy; se prima gli intenti della sfilata erano fondamentalmente addestrativi ed organizzativi, poi nel corso del tempo essi diventarono prettamente dimostrativi e celebrativi. Lo scopo quindi della rivista di Spithead fu quello di dimostrare i muscoli ed impressionare non tanto l’establishment britannico, quanto i dignitari esteri. Era ormai un dato di fatto riconosciuto da tutti che nel corso dei secoli l’Impero Britannico fosse stato costruito, fosse cresciuto, si fosse esteso ed avesse acquistato senso e dignità soprattutto grazie alla forza della Royal Navy, ma in quella occasione Salisbury, Chamberlain e l’Ammiragliato vollero ribadire ancora una volta di più il concetto. Nelle tranquille acque del Solent furono così radunate 165 imbarcazioni, tra le quali 21 corazzate, 30 cacciatorpediniere e 53 incrociatori, la maggior parte delle quali erano state disegnate, progettate e costruite nei precedenti otto anni nei cantieri della Gran Bretagna e dell’Irlanda; la flotta appariva superba e magnificente nella sua staticità.

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Riccamente addobbate di festoni, corone, drappi e bandiere segnaletiche, le navi all’ancora rappresentavano l’eccellenza dell’ingegneria navale del tempo. Un periodo, quello di fine Ottocento, in cui erano ancora influenti i richiami alla tradizione velistica dei secoli passati, per cui le imbarcazioni oltre ad essere possenti ed imponenti erano anche eleganti e raffinate nelle loro linee costruttive, con ancora una grande presenza di legni, alberi maestri, intarsi raffinati, decorazioni e verniciature sgargianti affiancate all’acciaio e al ferro. Erano presenti anche venti navi estere, giunte nelle acque della Manica in rappresentanza delle loro nazioni per poter celebrare il Giubileo di Diamante, in segno di rispetto ed amicizia. Intervennero alla Fleet Review sia potenze navali ed industriali in impetuosa ascesa come il Giappone e gli Stati Uniti, che mandarono ciascuna una corrazzata, sia potenze regionali come l’Italia, che inviò la Lepanto della Regia Marina. La Germania fu invece rappresentata da una vecchia, malinconica e malconcia imbarcazione, con grande costernazione del Kaiser Guglielmo II. Solamente pochi anni dopo i grandi risultati dei piani di Tirpitz sulla nuova Marina imperiale tedesca avrebbero gettato la Gran Bretagna e l’Ammiragliato nella più grande inquietudine , con una crescita impetuosa del numero delle corazzate prodotte dai cantieri navali teutonici che sembrò mettere a repentaglio la sicurezza della Manica e del Mar del Nord, considerati dagli inglesi un loro naturale e protetto prolungamento marino16.

La Fleet Rewiev attirò un grande pubblico, con visitatori accorsi da ogni parte dell’Inghilterra per assistere a questo straordinario evento, che nelle giornate precedenti era stato ben reclamizzato nei quotidiani di tutto il paese; per sostenere l’eccezionale flusso di persone fu necessario organizzare dei treni speciali da Londra. A Portsmouth, in lineare continuità con quanto visto a Londra pochi giorni prima, furono radunate tutte le truppe coloniali del Diamond Jubilee, per offrire una seconda volta ai sudditi inglesi e agli ospiti forestieri lo spettacolo che aveva caratterizzato le strade della City. Piccoli

16 Margaret Macmillan, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, Milano, Rizzoli, 2013,

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piroscafi colmi di curiosi impazienti di assistere ad uno spettacolo che prometteva d’essere indimenticabile giunsero dalla Francia, aldilà della Manica, ed addirittura dall’Olanda e dalla Germania. Erano presenti oltre duecento giornalisti, britannici e stranieri, in modo tale da reclamizzare in tutto il mondo la vigorosa potenza della Royal Navy, proprio come nei piani di Salisbury e Chamberlain, i registi di questa storica e calcolata settimana dell’orgoglio e della Potenza britannica; per loro fu addirittura predisposta dall’Ammiragliato una speciale imbarcazione per avvicinarsi ai colossi ormeggiati nel canale del Solent. L’entusiasta cronaca del giornalista de La Nazione è un accurato ritratto della magnificenza della Fleet Rewiev a Spithead

“Lo spettacolo offerto da questo complesso di forze navali era magnifico, imponente. Le navi inglesi erano disposte su cinque linee contrassegnate dalle lettere B, C, D, F, G; le navi estere occupavano la prima linea contrassegnata dalla lettera A. Nella linea B erano ancorate trenta tra le navi più potenti della più recente costruzione componenti la squadra del Canale (…) Molti vapori, yachts, navi mercantili, imbarcazioni con la gran bandiera, gremiti di spettatori, assistevano al grandioso spettacolo dalle località loro assegnate (…) Il Principe di Galles ha passato la rivista, in rappresentanza della Regina, a bordo dello yacht reale Victoria and Albert su cui erano anche i principi stranieri. Lo yacht Victoria, fra le salve delle navi e le acclamazioni degli spettatori, passò attraverso le linee formate dalle navi inglesi e dalle navi estere, seguito dalla Enchantress, avente a bordo i lords dell’Ammiragliato, l’ Eldorado col corpo diplomatico e coi Ministri delle colonie inglesi, il Danubio con la Camera dei Lords, il Campania con la Camera dei Comuni, ed il Firequeen con l’ammiraglio in capo, Sir Nowell Salmon. Le navi salutavano con salve d’artiglieria lo yacht reale man mano che passava davanti alle linee, mentre gli equipaggi facevano un duplice urrah e le musiche tuonavano God Save The Queen (…) Terminata la rivista lo yacht reale, col Principe di Galles ed i principi stranieri, si ormeggiò tra le navi estere. Allora, ad un segnale dato dalla ammiraglia Renown, tutti gli equipaggi delle navi inglesi ed estere salutarono

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con un triplice urrah il Principe di Galles, mentre le musiche intuonavano il God Save The Queen e dalle banchine del porto, dai palchi delle navi mercantili e dalle imbarcazioni si acclamava entusiasticamente e si agitavano i fazzoletti”17

Al tramonto le imbarcazioni dei dignitari e dei giornalisti tornarono indietro illuminate da lampadine elettriche, mentre potenti fasci di luce illuminarono la flotta e le banchine delle due rive ancora assiepate di spettatori, in uno spettacolo che durò sino alla mezzanotte18.

Il Giubileo di Diamante non fu quindi un evento esclusivamente legato a Londra, il cuore del mondo e la capitale dell’Impero, simbolo essa stessa della sua potenza, della sua vastità, della sua magnificenza, della sua estrema varietà e della sua gloriosa tradizione. Le celebrazioni per un evento storico così memorabile e così altamente simbolico furono considerate necessarie e dovute in tutta la nazione, in un misto di fiero orgoglio ed alto senso del dovere che contagiò tutti, dalle piccole scuole di campagna ai consigli comunali delle grandi città industriali, dagli aristocratici club della caccia alle congregazioni religiose. Da un capo all’altro della Gran Bretagna, dai villaggi delle Highlands scozzesi ai porti della Cornovaglia, le amministrazioni locali organizzarono banchetti, cene di gala, serate danzanti, falò, fuochi d’artificio, fiere di paese. A Manchester, uno dei centri manifatturieri più importanti del paese, venne offerta una colazione speciale a centomila bambini, mentre a Londra la Principessa Alessandra organizzò banchetti conviviali aperti a tutti (ma rivolti soprattutto alle classi meno abbienti) in cui furono offerti roastbeef e birra19. Ancora più significativi ed importanti furono le cerimonie nell’Impero, che dovevano essere una esplicita e potente dichiarazione della capillare diffusione della Pax Britannica. In giro per il mondo i coloni di origine britannica, che fossero di recente o antica immigrazione, festeggiarono con una convinzione ed un’intensità pari ai londinesi che accorsero alla parata per le vie

17 La rivista a Portsmouth, “La Nazione”, 27 giugno 1897 18 Margaret Macmillan, 1914, cit., pp. 63

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della City ed alla messa in St. Paul. Essi si sentivano parte di un’unica realtà, di un’unica fratellanza, testimoni in tutto il globo della cultura inglese, con l’Impero patrimonio nazionale per le vecchie e future generazioni. Nelle canadesi Ottawa e Montreal, nella capitale estiva del Raj Simla ai piedi dell’Himalaya come nei vecchi centri della Compagnia delle Indie di Bombay, Madras e Calcutta, nella lontana e sperduta isola di Ascensione come nella fieramente irlandese Dublino, negli sperduti avamposti di Salisbury in Rhodesia e di Alice Springs in Australia, nel paradiso caraibico St.Lucia come nella caotica e decadente Alessandria d’Egitto furono pertanto organizzate parate militari, messe nelle chiese anglicane e non conformiste, banchetti conviviali e serate di gala tenutesi nel Palazzo del Governatore, balli nei clubs dell’establishment coloniale, adunate di bambini festanti con migliaia di Union Jack, regate navali, tornei di calcio, cricket e tennis, amnistie di prigionieri e carcerati, spettacoli nelle dancing hall, cori di God Save The Queen intonati in una moltitudine di lingue. In questa maniera, si volle affermare ed allo stesso tempo notificare come una realtà di fatto quella che Niall Ferguson ha definito “anglobalizzazione”, un’unica koinè imperiale che univa paesi, regni, culture e continenti opposti alla Gran Bretagna. Essi volevano consolidare in questo modo la lineare e storica continuità con gli imperi alessandrini ed augustei dell’età classica, dei quali si ritenevano gli unici legittimi discendenti20.

Nell’assolata estate del 1897 un Impero al suo apogeo e nella sua massima estensione celebrò sé stesso, la sua potenza ed i risultati raggiunti in un continuo progredire che aveva occupato due secoli, rendendo omaggio ad una sovrana che aveva e continuava imperturbabile a simboleggiare un’era che si voleva non finisse mai, in un Eden terrestre finalmente ritrovato e riconquistato. Ma i festeggiamenti lunghi settimane avevano anche un altro significato, ben diverso dal glorificare la grandezza di una nazione e di una civiltà come quella britannica che sembrava dominare e plasmare il mondo a propria immagine e somiglianza. Dietro quella perfetta facciata di potenza,

20 Niall Ferguson, Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, Milano,

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ricchezza e dominio, lo scopo recondito ed implicito del Diamond Jubilee fu molto più “soggettivo” ed “intimistico”: rassicurare sé stessi da una irrequietezza e da un’inquietudine che non si presentava dai tempi di Napoleone. Da qualche anno infatti all’orizzonte dell’eterna estate imperiale si stavano formando nubi preoccupanti, e pochi avveduti immaginarono che quelle si sarebbero trasformate ben presto in tempesta. Problematiche esterne, sulle quali la Gran Bretagna non poteva intervenire, si sommarono ad inaspettate tensioni interne all’Impero e a questioni nazionali, rimaste sottotraccia per un decennio, che emersero nella loro interezza negli anni Novanta. Nuove potenze in ascesa si stavano dimostrando rivali fortemente ostili in politica estera come in economia e nel mercato, dove i britannici avevano goduto di un secolare ed assoluto monopolio. Il controllo totale ed assoluto dei mari della Royal Navy, la vera forza dell’Impero, era sempre più minacciato dall’avanzata dei tedeschi, degli statunitensi e perfino dei giapponesi nel lontano Pacifico. Fermenti autonomistici e nazionalisti turbavano la tranquillità delle colonie e dei Dominion, progressivamente più irrequieti e desiderosi di una maggiore libertà decisionale.

In Canada le nutrite comunità francofone, tedesche e scandinave accolsero e parteciparono alle celebrazioni del Giubileo con estrema freddezza, in un lealismo che principalmente aveva le proprie basi sull’opportunità politica; l’Impero ed il controllo dell’elite britannica avevano sicuramente i suoi vantaggi, dalla sicurezza militare al benessere economico, ma l’autonomia culturale veniva difesa con fermezza, chiedendo sempre più spazio vitale21. In Irlanda il crescente nazionalismo, la militanza patriottica ed il revanscismo culturale degli isolani si palesarono nelle manifestazioni parallele organizzate nelle settimane del Giubileo. Da Galway a Dublino furono celebrate messe per San Patrizio e San Colombano, i santi evangelizzatori dell’Irlanda, commemorazioni delle vittime della Great Famine degli anni Quaranta, dibattiti politici sull’indipendenza e la Home Rule. La più grande dimostrazione di malessere fu la marcia dei nazionalisti a Dublino, che

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percorse le vie del centro cittadino con canti anglofobi in gaelico, tamburi, bastoni, drappi, raccogliendo lungo il percorso un gran numero di cittadini comuni; vi furono sassaiole, attacchi vandalici, scontri con la polizia e l’esercito, negozi devastati, l’assedio al Castello con le bandiere nere dei pirati e degli anarchici. I festeggiamenti per il Giubileo della Regina Vittoria, una sovrana a capo di una monarchia che consideravano nazione occupante, furono così offuscati da una clamorosa dimostrazione d’orgoglio patriottico. I nazionalisti, mostrando anche l’impreparazione degli inglesi nel fronteggiare la marcia di protesta, ottennero così il loro risultato, acquisendo sempre più consensi alla causa dell’indipendenza22. L’estate indiana del 1897 fu funestata da siccità, malattie ed alluvioni, ma la causa principale di preoccupazione per i britannici era la sempre più crescente e consapevole coscienza nazionalistica delle èlite colte indiane, poiché come sottolinea James:

“British India had never been a totalitarian state in which the government proscribed books, newspapers and foreign travel and banned political debate. If Indians were allowed free access to British political and philosophical writers, it was inevitable that they would apply what they read to their own country, and ask why they were excluded from those political rights which were their rulers’ birthright”23

Tra coloro che si accorsero in anticipo della burrasca in arrivo vi era Rudyard Kipling, il cantore dell’Impero al suo apice. Come Cervantes per il declino della Spagna imperiale e Roth per la scomparsa del mondo asburgico, nessun altro artista poté rappresentare quell’epoca della storia britannica con risultati migliori, diventando egli stesso il simbolo della cultura anglo-indiana e della koinè imperiale. Nato a Bombay nel 1865 da genitori inglesi, Kipling visse una gioventù da pendolare tra l’adorata India natia e l’Inghilterra, dove completò la sua istruzione; entrato così nel Civil Service indiano, la burocrazia

22 Jan Morris, Pax Britannica, cit., pp. 459-479

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imperiale del Raj, diventò anche il caporedattore di un giornale locale di Lahore. Ebbe così inizio la sua carriera giornalistica e narrativa, che ebbe il suo culmine di popolarità proprio nei tardi anni Novanta, in concomitanza col Giubileo della Regina Vittoria. A quella data tra i titoli di Kipling si potevano già annoverare capolavori come Il Libro della Giungla (1894), Capitani coraggiosi (1897), il racconto L’uomo che volle essere Re (1890) e poemi quali Mandalay (1890) e Gunga-Din (1890); nel 1899 Kipling avrebbe composto la celeberrima poesia Il fardello dell’uomo bianco, mentre nel 1901 avrebbe dato alle stampe probabilmente il miglior ritratto dell’imperialismo britannico in India, il romanzo Kim.

Nonostante la fama raggiunta in anni di intenso e vigoroso patriottismo, Kipling si fece cantore di un’idea di Impero molto personale e non troppo in linea con l’ortodossia del tempo. Esso infatti doveva strutturarsi come un grande ed unico governo mondiale, in una grande fratellanza dove ogni razza avrebbe mantenuto la propria dignità ed integrità. In questa grande struttura la guida sarebbe spettata alle Nazioni Bianche (ed alla Gran Bretagna in particolare) non per la superiorità razziale del darwinismo di fine secolo, ma per le indiscusse capacità amministrative, politiche, militari, logistiche e tecniche; nel disegno di Kipling ogni popolo avrebbe avuto il suo compito, in base alle proprie possibilità e capacità. L’autore anglo-indiano teorizzava quindi un imperialismo del tutto idealistico, in opposizione all’espansionismo militare e materialistico dei Kitchener, dei Chamberlain e dei Rhodes, che ebbero il proprio apogeo con le celebrazioni del Diamond Jubilee24.

Kipling partecipò sia alla parata londinese che alla rivista navale di Spithead, ma non si lasciò trasportare dall’entusiasmo frenetico ed incontrollabile che sembrò pervadere tutta la società britannica in quei giorni; al contrario, parve esserne intimorito25. Egli, come molti altri, conosceva la storia dei grandi imperi del passato, che dopo il loro apogeo avevano dovuto assistere e subire un inesorabile declino, per poi crollare definitivamente; così

24 Jan Morris, Pax Britannica, cit., pp. 347-351

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era sempre accaduto, dagli assiri ai romani, dai Moghul della natia India a Gengis Khan. Essere consci della transitorietà della Potenza inglese sembrava quasi impossibile e provocatorio in quegli anni, e l’Impero nella sua possanza dava l’impressione di poter durare in eterno, con la fiducia di un futuro certo e di un progresso in continuo divenire. In quelle giornate frenetiche ed irripetibili apparve così sul Times un poema di Kipling, Recessional, una preghiera di ammonimento sulla caducità della Storia, per non sottovalutare i rischi che già allora stavano incrinando le basi dell’Impero. La terza strofa era sicuramente la più significativa e fu quella che ebbe un maggior effetto presso i lettori, che finalmente iniziarono a riflettere e a prendere coscienza di quanto una minoranza di saggi, avveduti e prudenti (presenti sia nella popolazione che nei ministeri) stava cercando in ogni modo di portare alla ribalta nazionale

“Far-called our navies melt away; On dune and headland sinks the fire; Lo, all our pomp of yesterday Is one with Nineveh and Tyre Judge of the Nations, spare us yet, Lest we forget-lest we forget!”26

In una assolata settimana di giugno del 1897 l’Impero Britannico celebrò quindi sé stesso, con il proposito di dimostrare la propria forza unito ad un’ altrettanto decisa volontà di rincuorarsi, in previsione di tempi che si promettevano complicati e difficili, densi di insidie e scelte fondamentali. La lunga ed eterna estate che sembrava non dovesse finire mai si sarebbe bruscamente trasformata in un burrascoso autunno nel giro di pochi mesi, quando il “Secolo Inglese”, come già allora veniva definito, volgeva al termine.

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II-RULE BRITANNIA: 1800-1880

2.1 Il Secolo Inglese: i pilastri del grande sviluppo

La Storia a prima vista scorre lungo un percorso continuo e compatto, così come il tempo e gli anni che ne costituiscono la materia prima; una marcia progressiva che avanza per accumulazione verso il futuro. Questa rappresentazione dell’incedere delle epoche ha convissuto per secoli (ed in parte continua a farlo anche oggi) e per lunghi periodi è stata sopravanzata da una concezione circolare del tempo. Dai culti orfico - misterici della Grecia arcaica al romano Polibio, dalla filosofia indiana a Vico, il tempo era visto come un’unica sequenza che arrivata al suo termine tornava al punto di partenza, in un continuo prodursi e disfarsi delle ere storiche. Solo con il razionalismo del XVII secolo e l’Illuminismo si sarebbe definitivamente affermata la linearità della Storia27.

Ma essa non è un unicum, è segnata anche da cambiamenti, fratture, turning point che non a caso si meritano l’aggettivo “epocale”. La periodizzazione della Storia è sempre stato uno dei grandi temi più discussi del dibattito storiografico, sin dai tempi di Erodoto, ed è uno degli strumenti attraverso i quali si cerca (e si è cercato) di semplificare, ordinare e schematizzare, con spirito positivistico e scientifico, una realtà complessa, magmatica ed intricata. Si pensi per esempio ai tentativi rinascimentali di soddisfare una necessità, porre cioè una differenza tra l’antichità classica greca e romana, la loro età, così piena di innovazioni e scoperte, e quel grande lasso di tempo che si stagliava tra le due ere. Un’epoca così diversa ma anche così vicina, che non poteva essere considerata solo una parentesi temporale e che

27 Vico è principalmente conosciuto per la sua teoria dei “corsi e ricorsi”, una convenzione che

banalizza involontariamente la sua filosofia. La sua concezione di Storia è infatti ben più complessa, dal succedersi progressivo degli stadi della civiltà umana (in ciò si avvicina agli studiosi dell’Illuminismo) all’azione della Provvidenza. Per una maggior comprensione della filosofia vichiana e della sua opera principale la Scienza Nuova, cfr. Leonardo Amoroso, Introduzione alla Scienza Nuova di Vico, Pisa, Edizioni ETS, 2011

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iniziò ad essere definita Medioevo28. Con l’Illuminismo poi si iniziò ad identificare maggiormente una serie consequenziale di fasi del passato in cui era possibile delineare uno sviluppo della società umana; le dispute ed i lavori di Hobbes, Vico, Ferguson, Montesquieu ne sono gli esempi più lampanti29. Le discussioni sarebbero poi seguite nel corso del XIX secolo fino ad arrivare alla nostra contemporaneità, con le diverse scuole di pensiero contrapposte, sovrapposte e debitrici l’una dell’altra: dalla idealistica filosofia della storia hegeliana al positivismo di Comte, dalla dialettica marxista allo storicismo30.

Dividere il corso degli eventi in età e periodi è indubbiamente utile e propedeutico ad una più ampia cognizione, un miglior studio ed approfondimento della Storia. Dall’altro lato, è molto arduo tracciare con certezza queste suddivisioni; le epoche storiche non sono camere stagne, separate ed in parallelo tra loro, con una complessità degli eventi che travalica i limiti concordati e può durare centinaia di anni. Le età inoltre sono state per consuetudine divise in secoli ed i secoli stessi, oltre ad essere numerati, hanno guadagnato anche dei tratti distintivi e caratteristici: il Seicento dell’assolutismo, della rivoluzione scientifica e delle rivoluzioni inglesi; il Settecento dell’Illuminismo e delle rivoluzioni americana, francese ed industriale; l’Ottocento delle Nazioni e della borghesia; il Novecento delle dittature e della globalizzazione. Queste divisioni non possono però limitare le complessità dell’incedere storico, né descriverne appieno l’interezza, riducendosi molto frequentemente ad essere una pura convenzionalità; ciononostante, la loro valenza chiarificatrice al primo approccio e al primo contatto è di grande rilevanza.

A complicare il quadro terminologico di una disciplina intrinsecamente labirintica e sfavorevole a rigide catalogazioni si sono poi aggiunte nello sviluppo della storiografia nuove periodizzazioni, definite dai grandi

28 Per approfondire il tema della periodizzazione storica, cfr. Jacques Le Goff, Il tempo

continuo della Storia, Bari-Roma, Laterza, 2014

29 Sergio Landucci, I filosofi ed i selvaggi, Torino, Einaudi, 2014, pp. 101-351

30 Per una visione accurata e completa di quella che è una importante ed autonoma disciplina

di studio, cfr. Giuseppe Cambiano, Massimo Mori, Storia della filosofia contemporanea, Bari-Roma, Laterza, 2014

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protagonisti (l’età di Pericle, di Napoleone, di Carlo Magno), dalla categoria generazionale (la generazione del Sessantotto, la classe del ’99), dalla divisione per decenni, quest’ultima di derivazione anglosassone. I secoli, come era successo per le età, furono nuovamente frazionati in sottogruppi (Anni Trenta, Anni Settanta); analogamente, anche i singoli decenni acquisirono caratterizzazioni ed attributi (gli Anni Venti - gli anni del Jazz e della Crisi; gli anni Ottanta - gli anni del riflusso e dell’edonismo). In tutta la casistica delle cesure hanno un’influenza molto importante le diverse tradizioni culturali e nazionali (per cui ogni stato potenzialmente ha una propria cronologia storica e le proprie periodizzazioni) ed ultimo, ma non per importanza, il ruolo dello storico, il cui lavoro influenza più di ogni altra cosa la visione dei fatti storici31. Le singole impostazioni teoriche, metodologiche e programmatiche dello studioso, lo stile, i differenti punti di vista, le influenze coeve, il difficile compito del dovere esporre i fatti senza giudicare, i numerosi ambiti della ricerca nella loro particolarità e nella loro complementarietà interdisciplinare, rendono ancora più ricca ed articolata l’eterogeneità della Storia, non riconducibile ad un’unica visione totalizzante32.

Nel lento percorso dei secoli differenti popoli, nazioni e stati hanno raggiunto una predominanza tale nel campo culturale, politico, economico e militare da caratterizzare egemonicamente un’epoca intera, segnandone per sempre gli eventi. Al declino ed alla rovina di una potenza, si ergeva con immediato vigore un astro nascente, un successore che ne occupava il posto, con una ciclicità inesorabile ed improcrastinabile. Specialmente negli ambiti pertinenti della storia politica, militare e delle relazioni internazionali, è frequente perciò suddividere i secoli del passato secondo lo schema circolare della transizione di potenza; anche in questo caso non mancano ovviamente, per le difficoltà sopra descritte, le differenti opinioni. Il Siglo de Oro spagnolo

31 Krzysztof Pomian, Periodizzazione, in Enciclopedia Einaudi, 10° volume, Einaudi, Torino,

1980, pp. 603-650

32 Per il ruolo dello storico, cfr. il fondamentale Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere

di storico, Torino, Einaudi, 2009 e Fernand Braudel, Storia, misura del mondo, Bologna, Il Mulino, 2002

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per molti studiosi comprende tutto l’arco temporale che dalla scoperta dell’America arriva al tardo Seicento; per il XVII secolo esistono però anche le definizioni alternative di “Secolo Francese” e “Secolo Olandese”, per la preminenza dell’assolutismo francese e della globale espansione fiamminga33. Nel 1941 in un articolo di Life l’editore Henry Luce intitolava il XX come il secolo americano, ma il Novecento è anche chiamato il secolo delle ideologie o, per citare Hobsbawm, il secolo breve34.

L’Ottocento è riconosciuto con una unanimità di giudizio pressoché totale come il secolo inglese, tant’è che le altre definizioni (senz’altro corrette, come il secolo delle nazioni e dei nazionalismi) sono divenute complementari. Superate le turbolenze rivoluzionarie del tardo Settecento, nonostante la perdita delle colonie americane, e le sfide della potenza napoleonica, la Gran Bretagna visse nell’Ottocento un lungo periodo di riforme politiche e sociali, di una crescita demografica ed economica tali da consegnarle un’assoluta supremazia, intaccata solo a partire dagli anni Ottanta da potenze in ascesa come la Germania guglielmina, gli Stati Uniti, il Giappone. Sarebbe nato così un Impero che alla data fatidica del 1897 si sarebbe esteso su un quarto del globo e della popolazione mondiale, con i mari e gli oceani sotto il controllo della Royal Navy, in una tale condizione di prosperità e sicurezza da considerarsi inattaccabile, la fase finale della storia umana. Tale supremazia non era frutto del caso, ma aveva basi solide e lontane, che affondavano le proprie radici a partire dal tardo XVII secolo, per poi definitivamente esplicitarsi nel Settecento. I due grandi motori del successo britannico furono una solidità politica ed una portentosa crescita economica che si sarebbero dimostrate molto solide e consolidate nel tempo, non frutto di eventi occasionali o congiunturali. Se lo sviluppo economico avrebbe comportato uno stato di benessere, potenza e ricchezza mai raggiunti prima, la pace e l’equilibrio interni al paese sarebbero stati garantiti dalla stabilità politica. Quest’ultima da

33 Sul “Secolo Olandese”, cfr. Timothy Brook, Il cappello di Vermeer. Il Seicento e la nascita

del mondo globalizzato, Torino, Einaudi, 2015. Sul “Secolo francese” e l’assolutismo, vd. Peter Robert Campbell, Luigi XIV e la Francia del suo tempo, Bologna, Il Mulino, 1997

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una parte riuscì ad incanalare nelle dinamiche politiche e parlamentari le inquietudini ed i malesseri che in Europa avrebbero invece causato le rivoluzioni che caratterizzarono il XIX secolo, dall’altra si fece promotrice di riforme e rinnovamento, un volano per la modernità ed il progresso del paese.

Dopo la Glorious Revolution del 1689, che aveva posto fine ai tentativi assolutistici degli Stuart e a lunghi decenni di guerre civili, la Gran Bretagna visse prima di tutto una lunga fase di stabilità politica35. Furono anni in cui, limitati fortemente i poteri del sovrano, crebbero esponenzialmente il ruolo legislativo del Parlamento e, in seconda fase, del Gabinetto di Governo: era definitivamente nata la monarchia parlamentare. Il primo Parlamento inglese si riunì nel 1265 sotto Enrico III, nel pieno delle contese feudali che una quarantina d’anni prima avevano avuto come conseguenza la Magna Charta Libertatum. Queste lotte intestine tra monarchia ed aristocrazia terriera, religiosa e militare del regno caratterizzarono tutto il medioevo inglese, alla ricerca l’una di un continuo controllo, l’altra di una maggiore autonomia governativa e di un contenimento dei poteri del monarca, che non si volevano assoluti. La carica innovativa di questa riunione non stava tanto negli argomenti trattai (che erano i soliti, cioè tassazione, rivendicazioni di autonomia) né nel fatto stesso di essersi riuniti, poiché già nei regni sassoni dell’alto medioevo era consuetudine riunire periodicamente i sovrani, i suoi feudatari ed i dignitari del regno; erano i Witenagemote, letteralmente la “Assemblea degli uomini saggi”. La vera novità del 1265 fu il fatto che per la prima volta nella storia inglese furono chiamati a far parte del Parlamento due cavalieri per ogni contea e due borghesi per ogni borough, le città mercantili, portuali e religiose dotate di una regolare franchigia. Si era sostanzialmente ai primordi delle attuali circoscrizioni elettorali, che così sarebbero andate avanti per secoli. Come sostiene Torre,

35 John Morrill, Gli Stuart (1603-1689), in Kenneth O. Morgan, a cura di, Storia

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“Il sovrano, con il concedere alle città le libertà feudali e le relative franchigie, che contemplavano anche l’esercizio di diritti elettorali, tentava di quadrare il cerchio di quella politica di indebolimento dell’aristocrazia feudale che, per altri versi, si andava proficuamente realizzando attraverso il consolidamento degli apparati giudiziari: così come l’espansione della common law, imponendo la giustizia centralizzata del re, sottraeva spazio vitale alla giurisdizione signorile, anche il conferimento alle città di statuti autonomi, o royal charters, si realizzava a spese del potere esercitato dai baroni sul territorio. Dall’altro alto, i magnati del regno sia laici che ecclesiastici, agevolando la partecipazione di borghesi in parlamento, se ne guadagnavano il supporto (…) A prima vista, il vantaggio era generale. Il re, concedendo privilegi e rappresentanza ai boroughs ed organizzando un analogo sistema per le contee, rafforzava i poteri di prerogativa e la sua autonomia rispetto alla piramide feudale (…) Dall’altra parte i magnati associavano a sé nuovi interlocutori nella rivendicazione e nel consolidamento delle loro libertà e reclutavano nuovi alleati (…) A trarre da tutto ciò maggiori e non effimeri vantaggi sarebbe stata in realtà la borghesia, il cui status in qualche maniera si costituzionalizzava”36

Il Parlamento si strutturò così negli anni come un organo con compiti consultivi e rappresentativi, perché con lo sviluppo della Common Law e del sistema delle Corti di giustizia cessò di erogare la giustizia, un antico uso che aveva ereditato dalle assemblee sassoni. La centralità dell’assemblea di Westminster fu però posta nel fondamentale ambito finanziario: nel 1297, ai tempi del sovrano Edoardo I, fu infatti stabilito per volontà regia il fondamentale principio del no taxation without representation, che legittimava definitivamente il rapporto instauratosi tra la Corona e la potestà del parlamento. I sovrani cercarono comunque di tenere sotto controllo il Parlamento, mentre quest’ultimo cercò di guadagnare sempre più spazio d’azione, basandosi sia sulla mai sopita volontà autonomistica della nobiltà quanto sullo sviluppo crescente della borghesia cittadina, mercantile ed agraria.

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Le continue tensioni sarebbero poi sfociate nelle guerre civili del XVII secolo, quando la decisione di Carlo I di privare l’assemblea di Westminster della giurisdizione sulla ship money nel 1636 fece saltare gli equilibri ormai precari, in una resa dei conti finale contro i tentativi apertamente assolutistici degli Stuart. La Rivoluzione inglese fu anche questo, una lotta per la piena e definitiva legittimazione del Parlamento, dei suoi doveri e dei suoi diritti. Westminster ottenne così la potestà legislativa e ben presto i suoi membri, specialmente alla Camera dei Comuni, si sarebbero divisi in due fazioni, rappresentanti a grandi linee due concezioni diverse della realtà inglese che si proponevano di guidare. Da una parte si posero i Tories, sostenitori della Chiesa anglicana, dei privilegi delle èlite terriere e delle prerogative del sovrano; dall’altra si individuarono i Whigs, eredi del puritanesimo radicale della guerra civile, sostenitori delle chiese non conformiste, degli interessi dei mercanti, della borghesia, dei commercianti e soprattutto difensori integerrimi della supremazia parlamentare instaurata dopo decenni di lotte e sacrifici. Da queste due fazioni sarebbero poi nati i due partiti politici che avrebbero guidato la Gran Bretgna per più di un secolo, i Conservatori ed i Liberali37.

Nei decenni successivi alla Glorious Revolution la stabilità politica britannica ebbe la sua seconda solida base in un’istituzione che proprio in quegli anni si sarebbe articolata fino a diventare il principale motore della politica inglese, ovvero il Gabinetto di Governo. Se fino agli anni della guerra civile non esistette mai la necessità né la volontà di un organo di governo autonomo dalla volontà regia, i sovrani inglesi comunque ebbero abitudinariamente al loro fianco un consiglio ristretto di uomini fidati e scelti, il Privy Council, ovviamente fuori dal controllo del Parlamento. Durante gli anni degli Stuart tale consiglio avrebbe guadagnato una fama estremamente negativa presso i dignitari di Westminster, che vi vedevano gli estremi di un conciliabolo assolutista intenzionato ad influenzare il sovrano nel limitare ancora di più l’attività parlamentare. Con la fine della guerra civile il Parlamento volle istituzionalizzare una situazione fino ad allora ambigua e

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dipendente dalle volontà dei sovrani, per cui il Gabinetto di governo, a cui fu affidato il potere esecutivo, avrebbe avuto bisogno del sostegno parlamentare per poter operare: si instaurò così tra i due poteri un nesso di reciproca collaborazione e controllo, simbolicamente identificato dal voto di fiducia38.

Tra questi segretari e ministri sarebbe poi emerso nel corso dei decenni la figura del Primo Ministro, anche a causa degli Hannover, la nuova dinastia regnante; poco interessati alle pratiche di governo, essi avrebbero favorito l’eclisse definitiva della conduzione monarchica degli affari di stato. La figura del Primo Ministro come guida autorevole del governo si affermò con Robert Walpole, che grazie alle proprie abilità personali e ad una grande influenza su entrambi i rami del Parlamento (anche grazie alla corruzione) governò per venti anni nella prima metà del XVIII secolo. La vera svolta avvenne nel 1782, in piena crisi americana, quando il Governo di lord North dovette rassegnare le dimissioni, ormai privo dell’appoggio parlamentare. Era nato così il moderno sistema di Gabinetto, non più basato esclusivamente sulla personalità carismatica del Primo Ministro, ma su una collegialità politicamente definita, in continuità con le maggioranze che venivano a crearsi nel Parlamento. Nel corso dei decenni il Governo avrebbe aumentato il proprio raggio d’azione, non più solo esecutivo, ma pure propositivo nella legislazione. Il Governo, in sostanza, si poneva alla guida della politica del paese, diventandone così il primo attore. Già nella seconda metà del XIX secolo, quando cioè veniva affermandosi l’alternanza del bipolarismo tra i Conservatori di Disraeli ed i Liberali di Gladstone, costituzionalisti come Bagehot segnalarono il tramonto della supremazia parlamentare nella gerarchia dei poteri che si era creata con la seicentesca Glorious Revolution. Pur non ponendosi mai in una posizione antitetica ed opposta all’assemblea di Westminster, con la quale si costruì al contrario un rapporto rispettoso delle convenzioni, degli equilibri e dei rispettivi compiti e diritti, partiva così quella progressiva ascesa dell’esecutivo,

38 Paul Langford, Il XVIII secolo 1688-1789, in Kenneth O. Morgan, a cura di, Storia

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un rafforzamento dei poteri della premiership che sarebbe arrivata da Lloyd George a Churchill, dalla Thatcher a Blair, fino ai giorni nostri39.

La supremazia della Gran Bretagna nel corso dell’Ottocento non sarebbe stata tale se ad una stabilità politica interna non si fosse associata una portentosa crescita economica, avviatasi nel tardo XVII secolo. Alcuni tratti di sviluppo economico furono comuni a tutto il continente europeo, ma in Gran Bretagna trovarono un terreno d’eccezione, ancora più fertile e ricettivo. Prima di tutto subì una vigorosa accelerata il commercio transoceanico, che dette vita al primo sistema economico globalizzato. Regni (Portogallo, Spagna, Venezia) e potenti famiglie (Medici, Fugger), legate ai tradizionali mercati medievali e continentali, iniziarono il loro declino o caddero ben presto in una malinconica disgrazia, superate dalla ritrovata centralità continentale della Francia assolutista e soprattutto dalle forze fresche ed innovative di due nazioni affacciatesi da poco sul proscenio internazionale come l’Olanda e la Gran Bretagna. Se all’inizio i britannici dovettero faticare per raggiungere una posizione paritaria con gli olandesi, anche a causa del travagliato Seicento inglese, al passar del secolo essi passarono in una posizione di vantaggio che avrebbero dovuto abbandonare solo alle porte del Primo conflitto mondiale. Il sistema del potere anglo-olandese si basò sicuramente su un innato spirito di iniziativa mercantile, sulla sete di guadagno e di espansione, ma soprattutto sulla loro avanguardistica ingegneria navale, che dotò i due paesi di possenti flotte militari e commerciali; flotte sempre più consistenti solcarono i mari e gli oceani di tutto il mondo in rotte che sarebbero durate fino ad oggi. Il commercio trasse beneficio dall’enorme afflusso di beni di lusso che iniziarono ad essere riversati in Europa, soprattutto verso le classi aristocratiche ed alto borghesi che proprio allora dettero vita alla prima società del consumo, in un continuo tentativo di esibire il proprio sfarzo, il proprio benessere, il proprio status, nuovo o antico che fosse: porcellane, sete e tessuti pregiati, bevande esotiche come caffè e the superarono ben presto l’antico commercio delle spezie. Se questi ultimi circuiti economici furono da subito monopolizzati dalle

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grandi Compagnie delle Indie, altrettanto redditizio e fiorente fu il mercato che venne a crearsi con le colonie e soprattutto nell’Atlantico, dove gli inglesi ottennero velocemente una posizione di vantaggio indiscusso. Furono britannici infatti i mercati, i finanziatori, i marinai, i commercianti all’ingrosso e al dettaglio, gli armatori che controllarono quello che poi sarebbe stato definito il commercio triangolare: navi cariche di merci, tessuti, chincaglierie, armi ed alcolici si dirigevano verso le coste dell’Africa per la compravendita di schiavi, destinati alle piantagioni del Brasile, della Virginia o dei Caraibi, dove venivano acquistati quei beni (caffè, tabacco, cacao, cotone, zucchero) destinati ai mercati europei, da dove il circolo sarebbe poi ripartito40.

Il progressivo dominio dei mari si accompagnò a dinamiche interne altrettanto importanti che crearono tra loro interrelazioni fondamentali per il successo inglese. In quei decenni si assistette infatti nelle campagne inglesi ad una vera e propria rivoluzione, dovuta al sistema delle enclosures, una pratica già in atto da quasi un secolo ma che in quegli anni ebbe un vero e proprio boom. Fino ad allora al fianco delle brughiere brulle come quelle delle Highlands ed alle grandi proprietà dell’aristocrazia si affiancava una piccola proprietà terriera, con terreni dispersi in piccoli segmenti e spesso con più padroni. Per coltivare tali appezzamenti era necessario un minimo di accordo tra le tutte le parti, per cui per i contadini più intraprendenti e con maggior spirito di iniziativa introdurre innovazioni era un atto dalla difficoltà proibitiva; ciò valeva anche per le terre comuni di derivazione medievale. Nel Settecento, anche grazie all’azione del Parlamento e dei grandi proprietari terrieri, le campagne inglesi subirono una netta trasformazione, con l’introduzione obbligatoria delle enclosures, ovvero delle recinzioni. Le proprietà più piccole furono accorpate ed in generale tutti gli appezzamenti agricoli furono ridistribuiti in unità più compatte, favorendo una maggior organizzazione ed un ordine logico delle campagne inglesi. Non solo, furono favorite le rotazioni pluriennali e l’introduzione in rotazione dei foraggi che da una parte erano utili per il pascolo, dall’altra rendevano molto più fertili i terreni trasmettendo nel

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terreno l’azoto presente nell’atmosfera. L’introduzione di tale nuovo sistema di rotazione, detto “Sistema di Norfolk”, comportò un enorme aumento della produttività agricola inglese, che raggiunse livelli strepitosi per l’epoca. Tali aumenti delle rese permisero una crescita del reddito agricolo, che in parte poteva essere così destinato al risparmio o per altri beni di consumo che proprio allora iniziarono ad invadere il mercato inglese, ma comportarono soprattutto una maggior facilità di acquisto di prodotti alimentari, in una fase di sempre più forte crescita della domanda. Proprio in quegli anni si assistette infatti in Europa ed in Gran Bretagna ad un aumento della popolazione, in alcuni casi anche vertiginoso, ma a differenza dei secoli precedenti il boom demografico europeo fu affiancato da una netta diminuzione della mortalità, soprattutto infantile. Sparirono inoltre malattie che avevano tempestato per secoli l’Europa e le isole britanniche, così come gli embrionali successi della medicina, soprattutto nell’incentivazione di una miglior igiene, iniziarono ad avere i primi risultati. I miglioramenti delle condizioni di vita dipesero quindi dalle trasformazioni nell’agricoltura e nel commercio, ma è pure vero che le grandi rivoluzioni agricole e mercantili in atto non poterono che favorire una crescita demografica. Non può quindi passare inosservato quanto i motivi del successo britannico avessero come base l’innervazione e l’interdipendenza tra tutte queste dinamiche, che finirono con l’agevolarsi vicendevolmente41.

Nel Settecento furono infine posti i semi di quel gran sviluppo tecnico, tecnologico ed industriale che nel XIX secolo avrebbero reso la Gran Bretagna la fucina del mondo. Il paese visse in questi decenni una serie di grandi trasformazioni che avrebbero mutato non solo i processi di produzione, ma pure un profondo ed irreversibile mutamento dei consumi e della società; tali metamorfosi sarebbero passate alla storia col nome di Rivoluzione Industriale. A fare da traino a questo nuovo mondo fu un settore basilare per l’economia inglese sin dai tempi della Guerra dei Cent’anni, ovvero il tessile. Il medievale e tradizionale commercio delle lane in quegli anni fu affiancato e poi progressivamente superato da una domanda in continua espansione, sia in

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patria sia nelle colonie, dei più economici tessuti in cotone, che fino ad allora provenivano quasi totalmente dall’India. L’idea di produrre in Gran Bretagna tessuti in cotone da riversare nel mercato interno e poi imperiale che fossero concorrenziali con i calicò del Raj spinse gli imprenditori inglesi a muoversi in tale direzione. La domanda in continua espansione, requisito necessario affinché gli imprenditori, i finanziatori ed i mercanti si ponessero il problema e fornissero i capitali, si unì poi a fattori tecnici assai favorevoli.

Innanzitutto il costo della materia prima, molto basso e di facile reperimento, sia per il dominio inglese nei mari e nei commerci transoceanici, sia per le piantagioni americane e coloniali che iniziarono allora a produrre a pieno ritmo. E’ ancora una volta evidente quanto le cause del progresso britannico fossero intrecciate tra loro in un sistema interrelato, perché una maggior richiesta di cotone non solo favorì la nascita di una prima industrializzazione, ma rafforzò pure la potenza navale, irrobustì i monopoli commerciali, fece incrementare la produzione agricola. La spinta propulsiva fu però quella delle innovazioni tecniche che in quegli anni si susseguirono per opera di inventori ed abili artigiani, influenzati dalla divulgazione degli insegnamenti e delle scoperte scientifiche del Seicento e del Settecento inglese; il settore più interessato fu ovviamente quello dei telai, che iniziarono ad essere meccanizzati. Tali invenzioni non furono casuali, ma destinate ad un preciso scopo del processo lavorativo e frutto di studi lunghi anche decenni, ispirati non solo alle nuove frontiere della scienza e della tecnologia, ma basati pure su ciò che già si conosceva; i primi telai meccanizzati usarono infatti l’energia idrica, che da secoli azionava i mulini e le cateratte idrauliche.

In parallelo ebbe inizio una sequenza di innovazioni nel settore siderurgico che avrebbero avuto un lungo percorso nell’Ottocento, nella seconda fase della Rivoluzione Industriale. Il paese, ricco di materiale ferroso e giacimenti carboniferi, aveva una tradizione secolare nella produzione di ghisa e ferro, sin dai tempi dei Romani e dei Celti, ma col Settecento si assistette anche in questo caso ad un’autentica rivoluzione delle conoscenze e delle procedure fino ad allora applicate. Con lo sviluppo di nuovi altiforni e

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laminatoi, con nuovi metodi nella catena produttiva e l’introduzione del coke, un carbone raffinato dalle impurità, si iniziarono ad ottenere una ghisa ed un ferro non solo di migliore qualità, ma pure a minor costo. L’industria siderurgica grazie a queste novità crebbe rapidamente e la Gran Bretagna, da paese importatore qual era, si trasformò nel primo paese esportatore, capace di rifornire i mercati internazionali di ferro e ghisa, nelle quantità necessarie non solo per l’uso prettamente industriale, ma pure per i numerosi impieghi militari (fucili, cannoni), civili (ponti, strutture portanti) e prettamente consumistici, come gli utensili domestici.

L’immagine simbolo di questa nuova era tecnologica ed industriale che avrebbe reso la Gran Bretagna la fucina del mondo fu la macchina a vapore di Watt del 1782, la prima a poter produrre energia artificialmente. Negli anni successivi essa venne applicata ai telai ed ai filatoi, riuniti in grande numero in un unico stabile per centralizzare e velocizzare con efficienza la produzione. Nascevano così le moderne fabbriche, che iniziarono ad accogliere grandi masse di lavoratori, provenienti soprattutto dalle campagne razionalizzate dalle enclosures. I vecchi centri degli shires del Regno Unito per secoli al centro della vita politica, culturale, religiosa ed economica delle campagne come York, Lincoln, Peterborough, Durham entrarono in una malinconica ed irrefrenabile crisi; il circuito dell’economia artigianale e la civiltà agraria che avevano caratterizzato per secoli la storia delle contee inglesi avviarono il loro declino, in un processo che nell’Ottocento avrebbe toccato in generale tutta l’Europa, anche se con tempistiche ben diverse tra una nazione e l’altra.

I borghi che ospitavano le industrie crebbero enormemente, quando non nacquero nuove città attorno agli opifici, in uno sviluppo che molto spesso fu incontrollato e bulimico. Basti pensare ai casi di Manchester, Liverpool, Sheffield, Glasgow, Leeds, Coventry, Newcastle, Middlesbrough, Birmingham, tutte al centro di aree carbonifere e vicine ai corsi d’acqua o al mare. Nel tardo Settecento e poi nei primi decenni del XIX secolo vennero quindi a crearsi quei distretti industriali che con alterne vicende furono il nerbo industriale del paese fino agli anni della Thatcher e che ai giorni nostri in

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