I proventi sui quali possono contare i governanti spagnoli a Finale sono le entrate camerali, derivanti da imposte e da beni demaniali (appartenenti cioè alla Camera del Marchesato) che vengono appaltati nel corso di pubbliche aste tenute alla presenza dell‟avvocato fiscale e del tesoriere. Questi introiti dovrebbero confluire nelle casse dell‟erario milanese, ma molto spesso vengono utilizzati per il mantenimento della guarnigione finalese e per la costruzione delle opere difensive. Fra le uscite della Camera si registrano invece i compensi di tutti quegli uomini che gestiscono le «imprese» legate al presidio: «munizionieri», «tappieri» (cioè responsabili delle «tappe» militari), traghettatori di soldati; gente che approfitta delle occasioni messe a disposizione dagli spagnoli per operare proficui investimenti.
Tutto sommato, la situazione finanziaria1 ereditata dai marchesi Del Carretto è piuttosto solida, specie se messa a confronto con quella dei territori confinanti sottoposti alla giurisdizione della Repubblica genovese: non si riscuotono molte gabelle (se non una sulla carne e sul vino2, un‟altra sul pedaggio3, e una decima sul pescato nelle spiagge di Varigotti e della Marina4), ma all‟attivo ci sono i livelli di biada e vino corrisposti dalle «compagne»5, i fitti di prati, pascoli, boschi e «possessioni» varie sparse per tutto il Marchesato e nelle adiacenti comunità delle Langhe6, e soprattutto quelli dei numerosi mulini da grano e da olio, delle cartiere, delle ferriere e delle fabbriche di polvere da sparo: impianti il cui buon funzionamento viene costantemente controllato, perché oltre a garantire un gettito sicuro e anche abbastanza rilevante alle casse spagnole, costituiscono le basi della ricchezza manifatturiera locale, e stimolano la formazione di importanti circuiti commerciali.
Per tutto il Seicento la tassazione sui generi di consumo è mantenuta su livelli abbastanza modesti – il che spiega la notevole fioritura mercantile. Chi introduce vino dall‟esterno paga 4 soldi «moneta di Genova» per ogni scandaglio, chi invece lo vende in loco deve sottostare a una
1 Per maggiori dettagli sull‟argomento si veda la relazione del Governatore Cattaneo De Marini (G. ASSERETO-
G. BUONGIOVANNI, Sotto il felice e dolce dominio cit., pp. 91-144).
2 Pare che la gabella del vino e della carne sia stata imposta nel 1351 per l‟armamento di una galea contro i
veneziani, «nemici del marchese e de finaresi» (AST, Paesi, Genova, Riviera di ponente, categoria XII, mazzo 2). Nel 1640 la gabella porta nelle casse della Camera 6.577:18:6 lire (ASG, Archivio segreto, 286); mentre nel 1714, appena arrivati nel Marchesato, i genovesi vengono a sapere da persone «molto pratiche e informate» che «al presente la gabella del vino sia capace di rendere annue lire 6.500 e quella della carne lire 2.000» (ASG, Marchesato del Finale, 24).
3 Nella sua relazione sulle rendite del Marchesato di Finale del settembre 1648, lo stapoliere del sale Carlo Gritta
precisa che «il peaggio si scuode a denari sei per cantaro sopra li risi e castagne, il resto a denari nove per balla» (ASG,
Marchesato del Finale, 42. La relazione è priva di data, ma allegata ad una lettera scritta da Finale il 14 settembre).
All‟inizio del 1714, il Governatore Cattaneo De Marini spiega che «tutti li colli che vengono da Livorno, di Francia e da Genova come da altre parti per il Piemonte, e quelli che dal Piemonte vengono al Finale per Livorno o altre parti tutti pagano il pedaggio in raggione d‟un denaro per rubbo» (il documento è del 14 gennaio, per cui è antecedente all‟imposizione delle nuove misure doganali da parte della Casa di San Giorgio - che sono del luglio di quell‟anno - e ricalca verosimilmente la situazione del secolo precedente). Dal pagamento del balzello risulterebbero esenti quelli «di Savona, d‟Albenga, del Marchesato di Ceva e di Saluzzo». Alcuni dati sulle cifre d‟appalto: nel 1604 la gabella è deliberata per 35 ducatoni annui, l‟anno successivo per 46 (ASG, Marchesato del Finale, 40), e nel 1629 il tesoriere riceve dall‟appaltatore della gabella 32 scudi (ASG, Marchesato del Finale, 57).
4 Si riscuote anche una gabella «a raggione di denari due per ogni canna da tela che si estrae dal Marchesato», e
da cui si ricavano al massimo 50 lire all‟anno (nel 1640 l‟introito che ne deriva è precisamente di lire 50:17:6. ASG,
Archivio segreto, 286). Fino al 1630 viene appaltata a parte, poi per qualche anno insieme al pedaggio, e nel 1647
finisce per confluire nell‟«impresa generale» (di cui si dirà più avanti in questo capitolo).
5 Si tratta di «stara 24» di biada e «scandagli quattro» di vino (ASG, Archivio segreto, 256). Per «compagne» si
intendono qui le comunità locali tenute a pagamenti in natura – o più raramente in denaro – sul raccolto delle terre loro concesse a coltura. Si veda in proposito G. ASSERETO-G. BONGIOVANNI, Sotto il felice cit., p. 91
6 Gli introiti camerali delle Langhe sono solitamente appaltati “per zone”: nel febbraio 1648 i «beni» di Carcare
sono affittati per un anno per 477 ducatoni, quelli di Calizzano per 230 ducatoni e quelli di Bormida, Osiglia e Massimino per 160 (ASM, Feudi Imperiali, 283). Sullo «stato camerale delle Langhe» si veda G. ASSERETO–G. BONGIOVANNI, op. cit., pp. 125-128.
contribuzione di «amole nove per ogni scandaglio», pari a circa un settimo del ricavato7. Sulla carne la gabella ammonta a 3 denari per ogni rubbo nei confronti di chi importa nel Marchesato «carni morte», e a un solo denaro per ogni libbra per i rivenditori finalesi8. Alla Marina e a Varigotti si paga la decima sulla pesca, mentre a Carcare e a Calizzano dal 1638 viene applicato un pedaggio alle mercanzie che transitano verso le regioni settentrionali, di pari valore a quello «che si paga per il dazio di Altare»9 (tributo che solleva grandi e reiterate proteste da parte dei sudditi finalesi, ma che in realtà colpisce più le piccole transazioni quotidiane di chi vive di stenti che non i grossi commercianti del Borgo e della Marina).
Se le entrate fiscali non sono di grosso aiuto per alleviare il passivo di bilancio, e non gravano in maniera eccessiva sulle attività economiche dei finalesi, rappresentano invece un affare vantaggioso per chi ne appalta la riscossione, di solito persone benestanti appartenenti alle principali famiglie del Marchesato. Nell‟ottobre 1653 la gabella della carne e del vino è riscossa in Finale da Pietro Burlo, un imprenditore della Marina parente stretto di alcuni ricchi mercanti e armatori, e da Giovanni Stefano Bucelli, appartenente a una famiglia di giureconsulti, sempre della Marina10; nei nove anni precedenti l‟appalto è stato assunto da Giovanni Battista Perelli, altro facoltoso personaggio della Finale spagnola11; e fra il 1668 e il 1673 da Giovanni Francesco Bado, che in quegli anni investe di frequente nei maggiori affari camerali12. Ma è anche vero che non sempre la gabella riscuote l‟interesse degli imprenditori locali: nel 1629, dopo anni di scarsi introiti, si decide addirittura di rifiutare l‟unica offerta pervenuta dall‟apertura dell‟asta per l‟eccessivo ribasso del prezzo, e si fissano pene più severe per chi froda la gabella stessa, in modo da renderla più appetibile agli eventuali appaltatori13. Le stesse disposizioni devono essere ribadite nel 1648, a causa del ripetersi «da qualche tempo in qua di molti danni e abusi […] in danno e pregiudicio della Regia Camera», segno che i problemi non sono stati risolti.
Di entità più modesta rispetto alla gabella della carne e del vino è la decima dei pesci, sia in termini di introito per l‟erario che di guadagni per i concessionari. E così a tassare i pescatori di Varigotti nel 1661 troviamo i fratelli Domenico e Stefano Rossi14, che non sono proprio dei maggiorenti, mentre tre anni più tardi la decima della Marina viene appaltata a Geronimo Bentio e Bernardo Valgelata15, figure anch‟esse di secondo piano – almeno all‟interno della cerchia degli
7 Uno scandaglio corrisponde a circa 70 litri.; un‟amola a 0,88 litri. Altre unità di misure per il vino sono la
mezzarola, pari a circa 150 litri, e il barile di 90 amole, che corrisponde appunto a 79,5 litri.
8 Libbra e rubbo sono multipli della oncia, che corrisponde a grammi 26,47. La prima è pari a 12 once, il secondo
a 300 (o a 25 libbre). I dati sull‟ammontare delle gabelle si possono ritrovare in ASG, Archivio segreto, 287.
9 Sul dazio di Carcare e Calizzano vedi il capitolo alle pp. 102-116.
10 ASS, Notai distrettuali, 1702. Le cifre d‟appalto sono altalenanti: all‟inizio del secolo (1604) la gabella è
deliberata per 940 ducatoni (ASG, Marchesato del Finale, 51); nel 1628 il tesoriere Geronimo de Torres riceve per il fitto dell‟anno appena trascorso 1.650 scudi (ASG, Marchesato del Finale, 56); e nel 1637 l‟appalto finisce al capitan Pier Vincenzo Massa in società con Lorenzo Raimondi, che si obbligano a pagare 835 ducatoni.
11 La gabella è concessa al Perelli a partire dal 1° gennaio 1642 fino al 31 dicembre 1650 «per ducatoni ottomila
trecento a loro valuta per tutti li suddetti nove anni netti in Camera da pagarsi di sei in sei mesi». E inoltre, sempre per 9 anni, il Perelli si aggiudica la gabella del pedaggio e quella della canna «in ragione di ducatoni trent‟otto l‟anno» (ASM,
Feudi Imperiali, 278).
12 ASM, Feudi Imperiali, 274. In quegli stessi anni il Bado ottiene anche la concessione della gabella della canna
e dei frantoi del Marchesato. L‟appalto di tutti questi «effetti» gli costa 8.400 lire moneta di Milano ogni anno.
13 ASCF, Camera, 16. Le nuove disposizioni prevedono che le denunce debbano essere fatte «al termine di 24
ore […] sotto pena di venticinque scudi»; che «nessuno ardisca […] tirare o far tirare vino di notte passate le 24 hore» senza permesso del gabellotto; che «i mulattieri denuncieranno e pagheranno subbito ch‟haveranno scaricato esso vino»; «che niuno si metta a vendere vino a minuto senza licenza del detto gabellotto», e che la stessa cosa valga per chiunque «ardisca d‟amazare qualsivoglia sorte di carne».
14 ASS, Notai distrettuali, 1711. La concessione viene fatta per tre anni per un fitto annuo di 460 ducatoni
d‟argento.
15 ASS, Notai distrettuali, 1714. In questo caso l‟appalto ha durata quadriennale e il canone annuo da
corrispondere ammonta a 18 doppie della stampa d‟Italia. La decima dei pesci della Marina ha un prezzo d‟incanto sempre inferiore a quella di Varigotti. Gli introiti per la Camera sono infatti molto differenti: nel 1640 le entrate procedenti dal pescato della Marina sono calcolate in lire 824:5:6, quelle di Varigotti in lire 1.438:17:8 (ASG, Archivio
imprenditori camerali. In ballo non ci sono grosse somme, e così talvolta i colleghi gabellotti litigano anche aspramente per definire le loro zone di competenza: come nel 1637, quando di fronte al fiscale si presentano i due titolari della decima - Andrea Siccardo della Marina e Agostino Palatio di Varigotti – per contendersi la tassa sul pescato di «alcuni giorni adietro» dei patroni Giulio e Giovanni Bergallo16. Ma a far vita dura sono soprattutto gli esattori, quelli che si trovano a riscuotere sulle spiagge la percentuale dovuta dai pescatori: nel gennaio 1696 il subconduttore della decima dei pesci della Marina Battista Bergallo si lamenta con l‟avvocato fiscale per la «poca regola che si ritrova nelli patroni delle reti che sono obbligati pagar la decima», e chiede che «i detti patroni non ardiscano distraere ne allienare niuna sorte de pesci se prima non averanno pagata la decima spettante alla Regia Camera»17. In ogni caso, l‟attività della pesca conosce un sensibile incremento nel corso del secolo: come conferma una relazione camerale del 1678, se ancora negli anni Quaranta «sì in questa Marina che nel luogo di Varigotti di questa giurisdizione […] non v‟erano solo dieci reti da pescar pesci nel mare e da 40 barche da pescar anchiode [acciughe] e sardelle, […] hora si vedono accresciute, cioè le reti al numero di 22 et le barche a più di cento»18:
ragion per cui anche i margini di guadagno degli impresari della decima devono essersi fatti più interessanti.
Un balzello ancor più allettante è il «Real» dazio esatto a Carcare e a Calizzano, che permette infatti ad alcuni notabili di accumulare consistenti fortune. Che sia un buon affare lo si capisce dall‟andamento dei prezzi di appalto e dalle somme che entrano in cassa nel corso degli anni. Nel settembre 1647 la riscossione del dazio è concessa per 6 anni a Domenico Benvenuto per il fitto annuo di 7.202 lire moneta di Milano19. Il 25 agosto del 1653 Battista Bonora della villa di Monticello si porta dal cancelliere camerale e si offre di riscuotere i dazi - sempre per i successivi sei anni - in cambio del versamento di un canone di 8.800 lire. Circa quindici anni dopo – nel settembre 1667 - l‟asta si svolge a Milano presso il Magistrato Ordinario e alla fine la spunta Carlo Mantegazza, che migliora di 200 lire la già rilevante offerta di tal Francesco Doglio di gestire l‟esazione dei dazi «per anni otto […] con pagare ogn‟anno in Camera lire dieci milla duecento moneta di Milano»20. E sul finire del secolo le quotazioni dei dazi di Carcare e Calizzano continuano a essere in rialzo: la quota promessa da Antonio Bonfiglio a nome di Giovanni Geronimo Rovida nel 1699 è pari a 10.500 lire21. D‟altronde i movimenti di merci lungo quella strada sono molto intensi: non a caso fin dal 1649 il balzello attira l‟attenzione dell‟impresario «della condotta delle mercanzie et grani di Piemonte a Savona» Giovanni Alberto Del Bono, naturalmente interessato a controllare il flusso di merci passanti per le due comunità delle Langhe22.
Nella sua relazione del 1648 per la Casa di San Giorgio lo stapoliere del sale Carlo Gritta assicura che i margini di profitto sono notevoli: «il dacio che si scuote ne‟ luoghi di Calisano e
ne ottiene la concessione per 5 anni in cambio di un fitto annuo pari a «ducatoni cento cinquanta, che a lire 7 cadauno sono 1.050» (ASM, Feudi Imperiali, 274). Sul finire del secolo a Finale il ducatone «corre» a lire 6, soldi 3 e denari 6 (ASG, Archivio segreto, 286).
16 È l‟8 marzo: secondo la ricostruzione del Siccardo, i due «andorno con le loro reti a pescare in una cala
sottoposta alla decima di detta Marina nominata l‟Orinella; e convenendo ad essi patroni pagar detta decima per aver preso in quella alquanti pesci al detto impresario della Marina, è uscito fuori Agostino Palatio impresario della decima di Varigotti pretendendo scuoder lui detta decima, con dire che detta cala sia sottoposta alla sua giurisdizione» (ASCF,
Camera, 12).
17 ASCF, Camera, 44. 18 ASCF, Camera, 69.
19 ASS, Notai distrettuali, 1702.
20 ASS, Notai distrettuali, 1717. Il Mantegazza si rivela in realtà solo un prestanome. Poco tempo dopo compare
infatti davanti al fiscale il finalese Giovanni Battista Ruffini asserendo che «non ostante si veda fatta la deliberatione di detta impresa in nome et a favore del detto Carlo Mantegazza, non vi ha questo che il puro e mero nome».
21 ASG, Archivio segreto, 286.
22 ASM, Feudi Imperiali, 278. Il fiscale Maraviglia relaziona al Magistrato Ordinario sulla questione l‟8 aprile,
consigliandogli di accettare la proposta dell‟impresario Del Bono, perché «lo ridurrà [il dazio] a soldi venti per soma, né altri mulattieri che vanno a Savona lo potranno inganare, sì che il dacio si andarà confirmando et pigliando credito».
Carcare è affittato a ducatoni 100 il mese, e ne rende quasi 200»23. Francesco Maria Firpo, un informatore dei genovesi, scrivendo nel 1713 dalla vicina comunità di Loano sulla base delle notizie raccolte da mulattieri piemontesi e finalesi, si dice sicuro che il Rovida, grazie al dazio, «dal niente n‟ha accumulato un pingue patrimonio»24. E un‟altra gestione positiva è sicuramente quella di
Giovanni Battista Ruffini e del suo socio Lorenzo Raimondi, impresari generali del dazio di Carcare e Calizzano dal 1653 al 166725 (il primo lo sarà ancora, ma da solo, fino al 1675): in allegato a un memoriale presentato al Magistrato Ordinario gli uomini di Cairo «esibiscono […] lettere […] scritte da Lorenzo Raimondo impresario del dacio a Filippo Bolla suo daciero, […] nelle quali lo avisa a tener ben segreta la rendita del dacio, atteso che in Finale correva voce che se ne cavassero de boni utili, il che non voleva si sapesse»26.
Così come il dazio delle Langhe, anche l‟«impresa generale» gode di ottima salute per tutto il tempo di permanenza degli spagnoli. Istituita nel 1647, comprende l‟esazione dei tributi indiretti (escluso quello riscosso a Carcare e a Calizzano di cui si è appena parlato), la conduzione dei mulini, degli altri opifici demaniali e di tutti i fondi di proprietà camerale. Dopo una prima fase di assestamento, col passare dei decenni i contratti di concessione lievitano: l‟impresa rende 31.000 lire moneta di Milano fra il 1678 e il 1686; 32.425 lire fra il 1687 e il 1695, e 32.500 fra il 1696 e il 170427. La progressione non si arresta con l‟aprirsi del nuovo secolo: il 17 dicembre 1704 l‟impresario milanese Giovanni Battista Ponti si accorda con la Camera per un canone annuo di 34.500 lire28. Ma con l‟arrivo dei genovesi le quotazioni dell‟affare scendono: il 7 maggio 1714 l‟impresa generale è affittata per tre anni a Francesco Maria Bellussi per 19.500 lire29.
Seppur con ruoli e percentuali d‟investimento diversi, nell‟impresa ritroviamo implicati un po‟ tutti i principali esponenti dell‟élite del Borgo e della Marina, richiamati dalle molteplici possibilità di lauti e rapidi profitti. Esemplare è la vicenda dell‟appalto avvenuto alla presenza del tesoriere Garcia de Isturiz e del fiscale Torres alla fine del 1667. Il 14 dicembre un tale Giovanni Battista Ferro manifesta l‟intenzione di assumere l‟intera responsabilità dell‟impresa generale per dieci anni, «con pagare quatro milla cinquecento scudi moneta di Milano netti in Camera» (corrispondenti a circa 27.000 lire)30. E presenta sicurtà di 2.000 scudi di Camera «nella persona del Signor capitano Giovanni Tomaso Aicardo», che in realtà è il vero titolare dell‟impresa – e al quale il Ferro «rinuncia» la concessione poco più di un mese dopo. Sennonché lo stesso Aicardo, nel marzo 1669, chiede che «si inserisca presso dell‟instromento» una «scrittura» che attesti la sua partecipazione all‟affare insieme a Giovanni Battista Ruffini e capitan Giovanni Andrea Perelli; e che fissi la divisione «per terzo» di utili e spese. A loro volta, i soci Ruffini e Perelli precisano che «nelle suddette loro portioni vi partecipano et hanno per loro compagni in detta impresa li Signori capitan
23 ASG, Marchesato del Finale, 42.
24 ASG, Marchesato del Finale, 22. La lettera del Firpo è del 25 novembre. In realtà, proprio in quegli anni per il
Rovida iniziano a presentarsi i primi problemi: il 19 luglio 1714 il Governatore Cattaneo De Marini informa il governo che «per parte di questo impresario del dazio Giovanni Geronimo Rovida mi è stato esposto esser notabilmente minorato l‟introito d‟una tale impresa, a causa delle nuove imposizioni della Casa Illustrissima di S. Giorgio» (ASG,
Marchesato del Finale, 24).
25 Al termine della prima locazione, nel 1659, i due imprenditori prolungano il loro rapporto con la Camera per i
successivi otto anni in cambio di un canone annuo di 8.800 lire, servendosi di un prestanome milanese, Giovanni Battista Monti (ASS, Notai distrettuali, 1705).
26 ASM, Feudi Imperiali, 280. In una di queste lettere il Raimondi riferisce al Bolla: «dalle Carcare viene scritto
ogni giorno al Signor fiscale che quello dazio rende delle migliaia di lire al mese». È probabilmente anche in virtù dei primi guadagni nelle Langhe che Lorenzo - insieme al Ruffini - nel 1657 può attendere all‟«impresa generale di tutti li redditi ed entrate» della Camera; e accordare alla Camera un prestito di 4.000 scudi «da lire cinque e mezza l‟uno moneta di Milano» (ASS, Notai distrettuali, 1711).
27 ASG, Archivio segreto, 286. 28 ASM, Feudi Imperiali, 262. 29 ASG, Marchesato del Finale, 90.
30 Dopo l‟oblazione del Ferro vengono esposte le cedole per l‟incanto dell‟impresa anche a Milano, ma non
interviene nessun‟altra offerta. In ogni caso, nella speranza di migliorare le offerte degli impresari, la Camera provvede sempre a bandire le aste anche nella capitale del Ducato.
Michele Massa, capitan Damiano Cappellino, Giovanni Francesco Bado e Giovanni Domenico Rovida»31. Insomma, una società di ampie dimensioni.
Sono questi i vertici del gruppo dirigente finalese del Seicento, i maggiori imprenditori della comunità: li ritroviamo in tutti gli affari camerali, nei banchi del Consiglio generale del Marchesato, nelle maggiori transazioni commerciali; a Milano e a Madrid, ma anche a Genova e nelle altre piazze del Mediterraneo. È un‟élite “trasversale”, nel senso che comprende individui del Borgo e della Marina, perché quando si tratta di «negozi» la provenienza passa in secondo piano32; élite i cui membri, commercianti abituati a fare di conto e a gestire somme ingenti, di fronte alla possibilità di curare tutti gli interessi finanziari della Camera nel Marchesato, costituiscono una sorta di cartello affaristico per realizzare il maggior guadagno possibile. Proprio qui sta la peculiarità di questa cerchia di maggiorenti: se analogamente ai loro “colleghi” notabili delle comunità del Dominio genovese coniugano una solida base patrimoniale con il successo imprenditoriale legato al controllo delle attività economiche locali (manifatture e commerci), e con un‟autorità pubblica che deriva dall‟esercizio delle cariche istituzionali locali (consiglieri, procuratori, estimatori, stanzieri, ufficiali di sanità ecc.)33, di fronte all‟opportunità di trasformarsi in finanzieri dimenticano le rivalità di quartiere e mettono in piedi proficue imprese collettive. A somiglianza di quanto accade a Milano,