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Finale nel «sistema imperiale» spagnolo 1 : governo, giustizia e amministrazione del Marchesato

La Monarchia spagnola in età moderna non è uno Stato territorialmente omogeneo, ma si compone di una serie di «corone» (quella principale di Castiglia, quella d‟Aragona, quella dei Paesi Bassi, quella di Milano ecc.), ciascuna delle quali comprende vari domini, fra loro distanti e diversi per tradizioni, istituzioni e caratteristiche socio-economiche2. Per cui possiamo parlare di impero solo nel senso di una potenza che a un certo punto assume particolare rilievo storico e politico per l‟ampiezza dei suoi possedimenti, per le forze di cui dispone, per la preponderanza in un determinato ambito geografico; ma il termine non va inteso in senso istituzionalmente definito3. Sul variegato complesso dei suoi domini, a seconda dei casi, la dinastia regnante iberica vanta un titolo ereditario o altro legittimamente acquisito titolo di possesso; in ogni caso, sono tutti patrimonio del re. È lui a costituire il trait d‟union tra i paesi della Monarchia, in quanto rappresenta in ciascuno di essi il potere legittimo indiscusso, e in quanto forma l‟elemento comune di maggior rilievo. La legittimità del possesso rende i sovrani i «signori naturali» del paese e crea con i sudditi un altrettanto naturale rapporto di solidarietà morale, che impegna quest‟ultimi a inderogabili doveri di fedeltà, lealtà e sostegno4. Certo, ai fini dell‟esercizio di governo non basta: occorre presenza fisica e coordinamento fra il centro e la periferia dei domini. Così, fin dall‟inizio, la Monarchia si attiva per creare appositi strumenti di controllo, sia interni che esterni alle amministrazioni, e per respingere le eventuali spinte autonomistiche: si costituiscono organismi intermedi con competenze territoriali (i Consejos, tra cui quello d‟Italia5); si inviano uomini di fiducia nei posti chiave dei governi locali; si seleziona la classe dirigente; ci si procura amicizie, protezioni “interne”, vantaggi

1 Nel suo saggio sull‟Italia dei viceré, Aurelio Musi precisa che il concetto di sistema deve essere inteso come

«schema di rappresentazione di una particolare formazione politica sovrastatale e a scala mondiale», appunto la Spagna del Cinquecento e del Seicento.

2 Come nota uno scrittore politico spagnolo coevo, Solorzano Pereira, il monarca deve reggere tutti i suoi domini

come se fosse sovrano solamente di ciascuno di loro (citazione tratta da J. H. ELLIOT, The Revolt of the Catalans. A

Study in the Decline of Spain, Cambridge, Cambridge University Press, 1963, p. 8). Corretta anche l‟analisi del ministro

di Filippo II don Bernardino de Mendoza, che negli anni Ottanta del Cinquecento paragona la Monarchia agli ordini religiosi, federazioni molto estese geograficamente ma slegate, comprendenti «nazioni» e «province» indipendenti (G. PARKER, Un solo re, un solo impero cit., p. 82).

3 A. MUSI, L‟Italia dei viceré cit., p. 25. Mi pare utile, in proposito, riprendere anche le parole di Federico

Chabod, secondo il quale l‟«impero spagnolo» si rivelerebbe «dal punto di vista amministrativo non già un‟unità indifferenziata, un blocco monolitico, sì un coacervo niente affatto organico di stati e popoli: simile, dunque, non ad uno stato unitario, ma ad una federazione di paesi, o più esattamente ancora, ad un‟unione personale nell‟unico sovrano» (Storia di Milano nell‟epoca di Carlo V cit., p. 414). Efficace pure la definizione di Arturo Pacini: «un‟aggregazione di unità politiche, legate o meno da vincoli di natura giuridica, con più o meno accentuate specializzazioni funzionali, gestita da élite internazionali in rapporto a finalità di tipo egemonico all‟interno di grandi aree geopolitiche» (La Repubblica di Genova nel secolo XVI, in D. PUNCUH (a cura di), Storia di Genova.

Mediterraneo, Europa, Atlantico cit., p. 350).

4 G. GALASSO, Il sistema imperiale spagnolo cit., pp. 18-19; ID., Introduzione a A. MUSI (a cura di), Nel

sistema imperiale. L‟Italia spagnola cit., p. 34.

5 «Con i Consigli era come se il sovrano fosse personalmente presente in ognuno dei suoi domini» (J.H.

ELLIOT, La Spagna imperiale (1469-1716) cit., p. 197). Sul Consiglio d‟Italia rinvio ai classici lavori di O. GIARDINA, Il Supremo Consiglio d‟Italia, in «Atti della Real Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo», XIX, 1934, pp. 1-190, e di F. RUIZ MARTIN, Notas sobre el Consejo de Italia, in «Revista de Archivos Bibliotecas y Museos», 54, 1948, pp. 315-322; e all‟innovativo contributo di M. RIVERO RODRIGUEZ, El Consejo de Italia y el

gobierno de los dominios italianos de la Monarquía hispana durante el reinado de Felipe II (1556-1598), tesi di

dottorato, Universidad Autónoma de Madrid, 1991. Una panoramica breve ma chiara sui Consigli del re in G. PARKER, Un solo re cit., pp. 40-41; e in E. NERI, Uomini d‟affari e di governo tra Genova e Madrid cit., pp. 38-40.

e favori d‟ogni tipo; si prova cioè a tessere una tela politica particolare in relazione alla vita e ai problemi dei singoli possedimenti6.

Sul piano della legittimità istituzionale non vi sono differenze fra i vari domini del sistema imperiale. E non c‟è neppure una gerarchia che ne renda alcuni dipendenti da altri. Tuttavia, il re non è egualmente re in ognuno dei suoi domini: il contenuto della sovranità cambia a seconda delle situazioni locali, dei poteri appannaggio del sovrano e dei diritti riconosciuti ai sudditi (privilegi, immunità, giurisdizioni). Se la piena personalità giuridica li rende tutti uguali, il grado e la modalità di dipendenza dal centro madrileno rendono ogni dominio degli spagnoli un unicum all‟interno di un insieme estremamente complesso. E sebbene nella realtà delle cose vi sia una chiara interdipendenza fra le diverse parti, e nei piani degli spagnoli ognuna rivesta una funzione specifica – tanto che si è parlato per l‟Italia di un vero e proprio «sottosistema»7 - non ci sono i presupposti per studiare progetti di uniformazione istituzionale, e Madrid sul piano amministrativo deve vedersela con tanti casi differenti, ognuno dei quali richiede un trattamento particolare8. Finale è uno di questi.

Occupato militarmente nel 1571 (e poi definitivamente nel 1602), il Marchesato viene affidato - sostanzialmente per una questione di vicinanza territoriale - alle magistrature di governo dello Stato di Milano, e da subito posto alle dipendenze del «Governatore e capitano generale» del Ducato, che esercita la sua giurisdizione in materia giudiziaria e militare, e del Magistrato Ordinario, che amministra l‟Hacienda. Ma sulla questione dell‟unione del feudo finalese allo Stato di Milano inizialmente si gioca una partita delicata: se infatti la «congregación del Estado», per evitare di sobbarcarsi il mantenimento del nuovo presidio, sostiene che «quel Marchesato [è] totalmente separato dal nostro territorio»9, il Consiglio d‟Italia afferma al contrario che in seguito all‟investitura imperiale il piccolo Marchesato finalese «restaba expresamente agregado y unido al Estado de Milan por su conservación dàndole puerta al mar»10. La collocazione istituzionale dello «Stato di Finale» è però già archiviata dal «real titulo» concesso da Filippo III nel 1604 a don Pedro de Toledo, che lo nomina «Governador, Castillano y Alcaide al uso de Spaña», sancendo di fatto l‟aggregazione diretta del feudo alla Corona di Castiglia11. Di lì in avanti tutti i maggiori organi di governo del Ducato si allineano alla decisione centrale. Agli inizi del secolo il Gran Cancelliere precisa che il suo collega Governatore «comanda nel Finale e presiede non come Governatore di Milano, ma come capitano generale, non essendo il Finale incorporato allo Stato di Milano, come non sogetto ad alcun tribunale di esso»; e aggiunge che «il Marchesato di Finale non soggiace agli ordini di Milano», e che «le costituzioni di Milano non hanno luogo in Finale»12. Allo stesso modo, il 2 marzo 1619 l‟Ordinario milanese ammonisce che «il Governatore di Milano habbia di commandare a quello del Finale come capitano generale, et non come Governatore, escludendo gli dispachi de tribunali, come di luogo separato dallo Stato»13. Ma proprio in quell‟anno la presunta

6 G. GALASSO, Il sistema imperiale cit., p. 30. Si veda in merito anche F. TOMAS VALIENTE, El gobierno de

la Monarquía y la administración de los reinos, in Historia de España, diretta da R. MENENDEZ PIDAL, vol. XXV,

Madrid, Espasa-Calpe,1982.

7 A. MUSI, L‟Italia nel sistema imperiale cit., pp. 59 e 66; G. GALASSO, Milano spagnola nella prospettiva

napoletana, in ID. Alla periferia dell‟impero cit., p. 308. Della profonda connessione politico-strategica tra i diversi

territori della Monarchia parla anche G. PARKER, The Army of Flanders cit., pp. 127-131.

8 Questo non esclude tuttavia l‟assunzione consapevole di un approccio tendenzialmente sistemico, consapevole

delle profonde interconnessioni esistenti fra le diverse componenti dell‟impero, nonché fra queste ultime e altri territori non asburgici, e la diffusione di una certa idea di strategia, frutto di una riflessione teorica, ma anche e soprattutto di una sempre più ricca esperienza operativa (M. RIZZO, Porte, chiavi e bastioni cit., p. 485). Sulla capacità della corte di concepire e porre in atto una grande strategia per l‟impero vedi G. PARKER, The Grand Strategy of Philip II, New Haven and London, Yale University Press, 1998, passim.

9 Archivio storico del Comune di Milano, Dicasteri, cartella 158. La citazione è tratta da A. ÁLVAREZ-

OSSORIO ALVARIŇO, Corte y Provincia en la Monarquía Católica cit., p. 314.

10 Ibidem.

11 R. MUSSO, Al uso y fueros de Spaña cit., pp. 184-185. 12 ASCF, Marchesato, 7.

autonomia finalese viene drasticamente ridimensionata dall‟investitura dell‟imperatore Mattia al re Filippo III, che dispone esplicitamente l‟unione del «feudum Finariense com Mediolanense»14. E da quel momento tutte le direttive di corte per il Marchesato sono spedite alla capitale del Ducato, che gestisce il presidio finalese per conto del re come se fosse una enclave dello Stato15. Da parte loro, i

finalesi sono invece molto attenti a rivendicare il loro status di terra separata, anche per una questione di convenienza economica: in un memoriale presentato al Governatore di Finale il 2 dicembre 1638 si afferma che «il dare i due terzi di paga a gli officiali conforme lo stilo del Stato di Milano […] è impossibile al povero et estenuato paese, non essendo né ragionevole né giusto regolare questo sterile e montuoso angolo di terra con Stato tanto opulento e fertile com‟è [quel] di Milano, dal quale è separato». Mentre in altre occasioni prevale l‟aspetto giurisdizionale, altrettanto fondamentale: quando il notaio Giovanni Vincenzo Piaggia viene «carcerato nelle carceri del capitano di giustizia» di Milano «per il delitto da esso commesso qua in Finale», i membri del Consiglio generale nominano un procuratore (il dottor Giovanni Cristoforo Benenati) per lamentarsi della «novità molto pregiudiciale al nostro Marchesato, quale totalmente resta segregato dal Stato

di Milano», per cui «né il capitano di giustizia di detta città [di Milano] né altri giudici e magistrati

vi hanno giurisdizione»16.

Al di là dell‟incerta collocazione giuridica dello Stato finalese, l‟effettivo controllo del presidio passa presto in buona sostanza nelle mani di Milano. Questo per due motivi molto semplici: intanto perché Finale è stato occupato con l‟unico scopo di dare uno sbocco marittimo alla Lombardia e di completare la «strada spagnola» che collega la Catalogna al cuore dell‟Europa; e poi perché gli alti costi della guarnigione li copre in gran parte proprio la tesoreria milanese. Fin dal suo passaggio nelle mani dei re Cattolici, il Marchesato è insomma legato alla capitale del Ducato da un cordone ombelicale troppo forte perché possa far valere il suo status di territorio separato alle dipendenze dirette della Corona di Castiglia. In pratica, il piccolo e singolare dominio finalese gode sulla carta di un‟autonomia che effettivamente non possiede o non è in grado di esercitare.

In ogni caso, i sudditi del Marchesato cercano di approfittare della situazione di ambiguità istituzionale, e in più di un‟occasione reagiscono con fermezza di fronte ai tentativi delle autorità milanesi di imporre i loro dettami deliberativi. A metà del secolo (4 maggio 1651), all‟arrivo da Milano di due gride, i sindaci si oppongono e rispondono al Governatore che, per quanto pronti a «eseguire tutti li ordini e comandi di Sua Eccellenza», non sono disposti a rinunciare ai propri privilegi istituzionali:

Questo Marchesato [è] separato dal Stato di Milano, come per ordini del re nostro Signore […]; che per questo [gli ordini] si prendono separatamente dal Stato di Milano, et l‟Eccellenze delli Signori Governatori che per tempo sono stati di Milano hanno sempre con ordini particolari provveduto al buon governo di questi popoli senza sottometterli alle gride fatte in Milano, conoscendo che questo angusto et povero paese circondato all‟intorno de Stati de Principi diversi non convengono ne riescono utili ne opportuni tutti li ordini e gride necessarie al Stato di Milano, ampio et numeroso di città17.

14 Alcuni mesi prima il duca di Feria Governatore di Milano aveva trasferito nelle proprie mani ampie

prerogative in materia giudiziaria, e aveva ordinato che tutta la gestione finanziaria del Marchesato venisse assunta dal Magistrato Ordinario (G. ASSERETO-G. BONGIOVANNI, Sotto il felice e dolce dominio cit., p. 14). Sulla delicata questione dell‟unione del Finale al Ducato milanese si veda anche R. MUSSO, Finale e lo Stato di Milano cit., pp. 141- 144, e A. TALLONE, Diritti e pretese sul Marchesato del Finale al principio del secolo XVIII, in «Bollettino storico- bibliografico subalpino», I, 1896, pp. 173-182.

15 Nel corso di una seduta del Consiglio di Stato del gennaio 1637 si afferma chiaramente che «el Final esta

subordinado a la justicia y gobierno de Milàn», e anche se «tiene su Governador particular» non ha la capacità e i mezzi per amministrasi da sé: «si lo separan [dal Ducato milanese] queda cortado de la rayz y los ramos sin vigor» (AGS,

Estado, Pequeños Estados de Italia, 3839).

16 ASCF, Marchesato, 16. Il «raccorso» è necessario «imperoché non seguendo […] facilmente tutti li altri offici

et magistrati di Milano procurarian sottoporre questo Marchesato alla di loro giurisdizione». I corsivi sono nostri.

Per lo stesso motivo, all‟inizio del Settecento i rappresentanti del Finale si rifiutano persino di prestare giuramento al neo-sovrano Filippo V. È il 12 gennaio 1702 quando il «Presidente e questore delle Regie Ducali entrate straordinarie dello Stato di Milano» comunica al Consiglio del Marchesato che «con decreto particolare de 4 del corrente» il Governatore ha prescritto di «assicurarsi [che] tutti li feudatari tanto sottoposti quanto aderenti a questo Stato e li possessori de beni feudali habbino prestato il dovuto giuramento di fedeltà et omaggio verso la Maestà del nuovo re e Signor nostro Filippo Quinto». L‟ordinanza è estesa a tutto il Dominio del Ducato, e così anche al «Marchesato del Finale, Lunigiana, Val di Magra ed ogni altra parte dipendente da questo Stato, compresi anche quelli feudatari che in dette Province delle Langhe e Lunigiana hanno tenuto e tengono aderenze antiche e moderne con lo Stato di Milano e vivono sotto la Reale protezione e difesa di Sua Maestà». Non appena informati della nuova direttiva, i membri dell‟assemblea rispondono indignati che si tratta di «una novità mai più praticata in questo Marchesato, mentre il Magistrato Straordinario non ha alcuna giurisdizione in questa provincia come totalmente

indipendente dallo Stato di Milano; e se il Magistrato Ordinario l‟essercita non è già come tale ma

come speciale delegato di Sua Maestà»; e naturalmente contestano la legittimità della grida18. Non si tratta solo di diatribe formali. I finalesi sanno bene quanto sia importante continuare a reggersi con le proprie leggi, e sentono come indebite invadenze i tentativi milanesi di applicare le normative centrali anche nel Marchesato. E così, per tutto il secolo, sarà un continuo andirivieni di memoriali e procuratori per assicurarsi il rispetto degli statuti e dei privilegi locali. Già nel 1584 l‟imperatore Rodolfo aveva assicurato che «li popoli finaresi possino perseverare nella libertà e privileggio che si ritrovano»; e alla presa di possesso del presidio Pedro de Toledo aveva promesso ai nuovi sudditi che saranno «concervados y mantenidos como se havian hallado», e che «se les guardiaran sus consuetudes, franquezas y ymunidades como en tiempo de la Maestà Cesarea»19. Da parte loro, all‟«atto del giuramento di fedeltà alla Maestà del re Filippo III», gli uomini del Marchesato richiedono «che le siano confirmati tutti i Capitoli, Statuti, ordinamenti di detto luogo», e che «in quanto all‟administratione di giustizia s‟habbia di osservar[li] […], et ove manchino s‟habbi da ricorrere alla lege comune»20. E l‟impegno sarà sottoscritto da Madrid nel 1622 (22 novembre), 1668 (7 aprile), 1699 (1° dicembre) e 1709 (20 agosto).

In effetti, i monarchi spagnoli da Carlo V in poi si impegnano a rispettare e conservare l‟identità dei loro possedimenti italiani21. La concezione di fondo su cui si basa l‟esistenza stessa del sistema di potere asburgico riposa sul rispetto dell‟individualità politica e giuridica delle diverse membra dell‟impero; per cui il concetto di sovranità che ispira la corte comporta l‟accettazione delle leggi e dei privilegi locali nel quadro di una continuità di fondo fra il governo centrale e la precedente vita autonoma di ciascun dominio22. D‟altronde lo stesso Botero, nella sua Ragion di

Stato, sostiene che «non è cosa più odiosa ne‟ governi che l‟alterare le cose alle quali l‟antichità

havea acquistato riputazione»23. E la propensione dei sovrani asburgici a rispettare lo ius loci e ad accettare che il proprio potere subisca, di fatto o di diritto, tutta una serie di limitazioni consuetudinarie, immunitarie, istituzionali, si deve alla stessa conformazione dell‟impero spagnolo, costituito di realtà molto differenti fra loro per tradizioni, cultura, società, economie24. Cosa

18 Ibidem. In effetti, i finalesi pretendono che neppure il Senato abbia voce in capitolo nell‟amministrazione del

feudo. Quando (luglio 1675) il Presidente Bartolomeo Arese, congiuntamente al Governatore e al Gran Cancelliere, ordina di estendere al Finale una grida recentemente pubblicata a Milano, viene contestato dai sindaci locali che la ritengono «non adeguata, anzi di niun rilievo mentre si vede per esser in quella espresso il Marchesato suddetto, nel quale non ha né può esercire giurisdizione alcuna il Senato Eccellentissimo di Milano, restando totalmente da quello

segregato il Marchesato» (i corsivi sono nostri).

19 ASCF, Marchesato, 3. L‟attestato da parte dell‟imperatore Rodolfo è del 3 settembre. 20 ASG, Archivio segreto, 237.

21 D. SELLA, L‟Italia del Seicento cit., p. 24.

22 M. OSTONI, Assetti, dinamiche e protagonisti dell‟amministrazione finanziaria dello Stato di Milano: la

Tesoreria negli anni di Carlo V, in B. ANATRA-F. MANCERI (a cura di), Sardegna e stati italiani nell‟epoca di Carlo V cit., p. 244.

23 Citato in M. RIZZO, «A forza di denari» e «per buona intelligenza co‟ prencipi» cit., p. 306. 24 M. RIZZO, Centro spagnolo e periferia lombarda cit., p. 318.

comporta andar contro le prerogative e lo status politico-istituzionale di un dominio, i re Cattolici lo imparano sulla propria pelle in occasione della rivolta aragonese del 1591-9225 e di quella catalana del 1640. Ed è proprio per questa ragione che – come sostiene Elliott – nell‟età di Carlo II in Spagna e in Italia «le libertà locali [hanno] un nuovo soffio di vita»26. Nel caso dello Stato di

Milano, la necessità di rispettare le consuetudini locali e di non urtare la suscettibilità del ceto dirigente è da addebitarsi alla consapevolezza della funzione strategica del territorio, «porta d‟Italia» e pedina indispensabile per bloccare le sempre rinascenti mire francesi sulla penisola27. Ma se la Lombardia è l‟anello della lunga catena che lega la Spagna a Bruxelles, Finale è il suo porto, e il re non può permettersi di agire diversamente: è per questo che l‟11 maggio 1609 il Toledo dichiara che «è mente dell‟Eccellentissimo Signor conte di Fuentes luogotenente della Regia Maestà […] che questo Stato sia governato e retto secondo l‟usanze con le quali era governato sotto i commissari cesarei, et che non si faccia innovazione alcuna»28.

In ogni modo, nella prassi amministrativa finisce che i membri delle istituzioni locali debbano sempre obbedire agli ordini di Milano. Certo, una cosa è obbedire e altra cosa è farsi “dare la legge”. Ma se statuti e ordinamenti non vengono toccati, le pretese di autonomia del Finale sono presto frustrate. In una lettera del 12 giugno 1660 il castellano Helguero de Alvarado chiarisce che «el govierno y administracion de la justicia del Final» dipende «immidiatamente de la suprema autoridad del Senor Capitan General del Estado» di Milano, «sin medio de otro Tribunal»29. E nella citata relazione dell‟Ordinario del 27 ottobre 1619 si dice anche in maniera chiara che «Sua Maestà ha espressamente dichiarato che il Governatore del Finale sta subordinato al Governatore generale di questo Stato, e non al Generale solo»; e ancora, che «quanto al governo di quel Marchesato non può considerarsi l‟aggregazione almeno immediata alla Corona di Castiglia, perché è governato da chi è Governatore di Milano, et il presidio pagato con denari che vengono da questa tesoreria». Come sempre, decide chi ci mette i soldi, e «li denari che si diedero al Marchese del Finale quando si concertò la permuta gli si pagarono dalla Camera di Milano, sì come anche con denari dell‟istessa Camera si è mantenuto e si va mantenendo quel presidio».

In linea di massima il potere esercitato dalla corte sulle periferie è poco invasivo. Per dirla con