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Il commercio a Finale durante il secolo spagnolo 

Da più parti il commercio viene indicato come la principale attività economica dei finalesi nel corso della dominazione spagnola. Sono anzitutto i loro rappresentanti a sostenere che, senza di esso, il Marchesato non «può mantenersi, essendo tutto con montagne sterili et alpestri, che non fruttano ne possono fruttare agli abitanti il vitto necessario»; e che se «venisse impedito il traffico più di due terze parti dell‟habitanti sariano astretti ad abbandonare il paese et andarsene raminghi a cercare il vitto»1. I volumi di questi traffici sono piuttosto consistenti: fin dall‟inizio del Seicento (e anche da prima in realtà, come vedremo) i genovesi provano in tutti i modi ad ostacolarli e a

dirottarli sulla «Città»2; la disputa sul diritto di navigazione delle imbarcazioni del Finale nelle acque del mare «Ligustico» impegna per tutto il secolo i governi di Genova e di Milano, arrivando più volte anche alle orecchie dei sovrani a Madrid; e nello stendere la sua relazione sul Finale appena acquisito, il Governatore Cattaneo De Marini reputerà opportuno dedicare un capitolo specifico proprio alla questione del «commercio de finarini»3. Per non dire delle pressioni della Casa di San Giorgio, che regolarmente incalza i Collegi sulla «piaga» del Finale, e che – specie nei decenni centrali del secolo - non si stanca di ripetere quanto l‟accresciuto volume del traffico lungo la scala finalese sia di «notabile pregiudicio» ai suoi interessi, e quindi a quelli di tutti i genovesi4. È senza dubbio con grande preoccupazione, quindi, che nel corso del XVII secolo gli uomini di governo della Serenissima guardano all‟enclave posseduta dagli spagnoli nel bel mezzo del loro Dominio, consapevoli anche dei vantaggi di cui godono i mercanti finalesi: «poiché pagano pochi aggravi d‟imposizione nel loro commune […] puonno praticare la negoziazione con grandissimi vantaggi».

Il commercio che si sviluppa nel Marchesato nel periodo in esame si distingue innanzitutto per il suo carattere trans-locale: si inserisce cioè all‟interno in un flusso che collega il Piemonte e il Monferrato alle principali piazze commerciali del Mediterraneo (Livorno in primis); e possiede dimensioni tali da assicurare uno sbocco sicuro ai prodotti locali, garantire il mantenimento del presidio e sostenere un‟intensa attività manifatturiera. Le testimonianze sono perlopiù concordi riguardo alle mete delle imbarcazioni finalesi e alle merci movimentate (salvo evidenziare ognuna qualche aspetto particolare). Giovanni Battista Pedemonte, padre dello stapoliere del sale Giovanni Antonio, il 25 maggio 1667 riferisce ai funzionari di San Giorgio:

Quella gente resta per la maggior parte impiegata nell‟essercitio delle marinerie trafficando con loro barche per le Mareme, di dove introducono molta quantità de grani per la provvigione del paese; e fan ben spesso ancora altri viaggi in altre parti, e particolarmente a Livorno, dove carricano diverse mercantie come pepi, zuccari, panni e altre simili merci, quali portano al Finaro, e quivi poi si spediscono per il Piemonte e altrove.

Questo capitolo è la rielaborazione di un lavoro pubblicato all‟interno del volume miscellaneo Finale porto di

Fiandra, briglia di Genova, Finale Ligure, Centro storico del Finale, 2007, con il titolo Lo sviluppo del commercio finalese sotto la Spagna: danno e minaccia per la Casa di San Giorgio.

1 ASCF, Marchesato, 35. I passi citati sono ripresi dalla Distinta relazione dell‟aggravi a quali soggiace il

Marchesato di Finale con li fondamenti dell‟insosistenza. Allo stesso modo, anche il Governatore spagnolo Helguero de

Alvarado sostiene che per i suoi sudditi il «comercio» rappresenta l‟unica «forma de bivir», nella quale «consisten todas sus combeniencias» (AGS, Estado, Génova, 3608. Lettera al Governatore di Milano cardinale Trivulzio del 24 giugno 1656).

2 Per una discussione su questi temi rinvio al capitolo successivo Genova e la «piaga del Finale». 3 G. ASSERETO–G. BONGIOVANNI, Sotto il felice e dolce dominio cit., pp. 49-52.

4 In una lettera scritta dai Collegi genovesi al principe Doria «in Loano» il 4 marzo 1668 si dice espressamente

che quello di Finale rischia di diventare un problema molto serio perché «dalle rendite di S. Giorgio […] consiste l‟alimentazione quasi di tutto l‟intero nostro Dominio» (ASG, Marchesato del Finale, 12). Sul nesso finanze pubbliche- San Giorgio e sulla sovrapposizione fra i governanti della Repubblica e quelli della Casa si veda V. VITALE, Breviario

della Storia di Genova cit., pp. 152-153; C. BITOSSI, Il governo dei Magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento, Genova, Ecig, 1990, specie pp. 21-22; e gli articoli di Pacini e Bitossi in D. PUNCUH (a cura di), Storia di Genova. Mediterraneo, Europa, Atlantico cit., rispettivamente a pp. 330-331 e pp. 395-396.

Neppure un anno dopo, il già citato guardiano del convento di S. Francesco di Noli Bernardino Leoni dà ulteriori «notizie del traffico del Finale»:

Con le barche li finarini imbarcano al Finale ferro che viene dalle ferriere di Monferrato, canepe, risi e grani quando ve n‟è richiesta per fuori dal Piemonte e Monferrato, come anche castagne secche; e hanno continuo traffico a Livorno, Napoli, Puglia, Callauria [Calabria], Sicilia, Spagna e anche qualche volta sino alle Canarie, di quali parti conducono al Finale altresì grani, droghe d‟ogni sorte, salumi d‟ogni sorte, et d‟ogni altra mercantia, che poi sono condotte da mulattieri in Piemonte, Monferrato e Lombardia.

Infine, sulla base dei loro numerosi informatori e delle notizie ricavate dalla corrispondenza con i propri commissari e con i giusdicenti periferici della Repubblica, i Protettori di San Giorgio scrivono ai Collegi nel novembre 1675:

Si sa che trafficano per la costa di Spagna, quando non sono impediti dalli disturbi delle guerre, e che dalle parti di Levante, cioè Livorno, Napoli e Sicilia, portano pannine, zuccari, tabacchi, sode, salumi, grani, piombi e ogn‟altro genere di mercantia. E che per via di terra introducono dal Piemonte tele, risi, canepe e altro, che non solo trafficano per fuori Dominio per mare e terra, ma ne spandono anche per li luoghi delle Riviere nelli quali sbarcano particolarmente quantità di salumi, sode, tabacchi e grani5.

Da parte loro, i negozianti del Finale hanno a disposizione parecchie «robbe nate e fabbricate in quel Marchesato» da utilizzare come merce di scambio sui mercati del Mediterraneo, e i loro traffici sono alimentati dalle fiorenti industrie locali (che spesso gestiscono in prima persona). Fra i principali prodotti d‟esportazione c‟è la carta: la fabbrica della valle di Pia diventa presto insufficiente a soddisfare le richieste dei patroni della Marina, e viene affiancata nella seconda metà del XVII secolo da altre cartiere. La domanda di carta nel Seicento proviene praticamente da tutta Europa, e il suo incremento si deve in buona parte al massiccio consumo da parte delle pubbliche amministrazioni, concomitante coll‟estendersi delle loro competenze6, ma i principali mercati rimangono fino alla fine del secolo successivo la penisola iberica e le colonie spagnole in America7. Infatti è lì che viene spedita anche quella prodotta a Finale: il 28 marzo 1679 Clemente Abate, il figlio Gaetano e Geronimo Carbone «del luogo di Prato giurisdizione della Serenissima Repubblica di Genova» ricevono da Giovanni Tomaso Aicardi (proprietario di una cartiera) «balloni sei di carta bianca battuta da risme ventiquattro per ogni ballone», e la caricano sull‟imbarcazione di Vincenzo Bochiardo diretta ad Alicante8. Grossi quantitativi raggiungono anche i porti dell‟Italia spagnola, a cominciare da Palermo: il 18 settembre 1668 patron Francesco Ferro imbarca sulla sua tartana altri 6 balloni di carta «ben asciugati e condizionati per doverli portare a risico di [Giovanni] Prasca […]

5 ASG, Marchesato del Finale, 12. Aggiungiamo ancora quanto riportato in merito dal Cattaneo De Marini nella

sue relazione: «in tempo di pace il maggior commercio de‟ finalini era in Sicilia, ove portavano ferri, riso e castagne et altro e ne riportavano grani. Trafficavano parimente in Sardegna, Francia et altrove, e specialmente nell‟isola dell‟Elba, di dove conducevano vena per le ferriere del Marchesato, et in Livorno, di dove trasferivano merci d‟ogni sorte, parte delle quali restava per provedimento del paese e parte passava in Piemonte, nelle Langhe e nel Monferrato» (G. ASSERETO–G. BONGIOVANNI, Sotto il felice cit., p. 49).

6 Lo sviluppo della manifattura e del commercio della carta ligure data all‟inizio del XVI secolo: in quei decenni,

infatti, l‟attività di cartai e librai - quelli che hanno il monopolio della vendita di carta a Genova - diventa molto meno redditizia rispetto a quella dei fabricatores, ovvero coloro che possiedono o che fanno lavorare degli «edifici da papero». Anche l‟attenzione dell‟autorità politica si sposta dai luoghi di vendita a quelli di produzione: il cambiamento è segnato dall‟emanazione – prima nel 1518 e poi nel 1521 – di nuovi «capitoli per la fabbricatione dei paperi» e di severi divieti contro l‟emigrazione di artigiani esperti nella costruzione di macchine e nel processo produttivo cartario. Nella seconda metà del Cinquecento la carta da scrivere aumenta a dismisura il proprio peso nelle esportazioni di Genova e delle comunità del Dominio, tanto che nel 1567 qualcuno avrà a dire che «in tutta Europa altra carta non s‟adopra che quella de‟ Genovesi» (M. CALEGARI, La manifattura genovese della carta cit., specie pp. 5-9).

7 Attorno alla metà del Settecento Spagna e colonie consumano tra la metà e i due terzi della produzione

genovese di carta (complessivamente circa 26.000 balle di carta bianca. Ibidem, p. 61).

8 ASS, Notai distrettuali, 2076. Il prezzo concordato è di 65 lire «per ciascheduno ballone». La «balla» è l‟unità

di misura della produzione della carta; il «ballone» è una confezione commerciale che corrisponde a circa due balle e mezzo (M. CALEGARI, La manifattura genovese cit., p. 57). In base alla contabilità di San Giorgio a Finale nel Settecento una balla equivale grosso modo a un cantaro (47,51 Kg).

alla città di Palermo»9; e la capitale del Regno è pure la meta di Giulio Mendari, che il 25 novembre 1672 denuncia a Genova il suo carico di «balloni quaranta uni di carta per scrivere»10. Gli stracci - la materia prima per la fabbricazione - vengono invece reperiti principalmente nei mercati dell‟interno piemontese e lombardo, e trasportati a Finale a dorso di mulo, stipati in grossi sacchi11.

In ogni caso si tratta di un giro d‟affari abbastanza ridotto: nel Marchesato per buona parte del secolo lavora una sola cartiera, e nel periodo di massima produzione le fabbriche diventano tre; niente di paragonabile ad alcune aree del Genovesato – specie quella fra Varazze e Voltri – dove lungo i corsi d‟acqua sorgono decine e decine di opifici, che continuano a lavorare senza sosta anche negli anni successivi alla peste del 1656-57, e che anzi nella seconda parte del secolo fanno registrare un‟ulteriore crescita – tanto che si è parlato di «sovraproduzione»12. L‟impresa della carta rappresenta per i finalesi un‟occasione per diversificare la loro offerta sui mercati mediterranei, ma non è certo in questo negozio che investono i loro maggiori capitali. E infatti nel caso della carta lo spauracchio del porto franco finalese funziona solo in parte: in una memoria del 1694 alcuni maestri mercanti della Superba sostengono che non deve essere «impedita in parte alcuna la libertà di fabricare la carta del peso, misura, colore e marche desiderate dalli committenti», altrimenti c‟è il rischio che questi si rivolgano «a Luca, Piacenza, Finale, Loano e feudi vicini a questa città ove giornalmente si moltiplicano edifici»; ma i prezzi applicati dai negozianti genovesi sono imbattibili, e «non potendo resistere le altre nationi» all‟«inferiorità del prezzo […] è forza che cedono alla nostra, la quale per tal caosa provede la Spagna e le Indie»13. Insomma, Finale non può certo competere con Genova e con i suoi centri manifatturieri periferici (Voltri su tutti, la vera capitale della carta sul territorio della Repubblica). Più avanti l‟affare sfuma per tutti: nel secondo Settecento la concorrenza si fa più serrata, determinando la crisi della manifattura genovese, e con l‟arrivo dei francesi i mercati principali di Spagna, Portogallo, Sicilia e Sardegna si chiudono improvvisamente e definitivamente14.

Sulle imbarcazioni dirette in Spagna (e anche verso sud-est) non si caricano soltanto risme di carta grezza «da scrivere», ma anche carte da gioco15, che probabilmente vengono introdotte dagli stessi spagnoli al loro arrivo, e che diventano un lucroso investimento per alcune delle maggiori famiglie del Finale16. Produrre carte è relativamente semplice: bastano un torchio, a ruota o a leva,

9 ASS, Notai distrettuali, 1477. «Promettendo pagare al detto Signor Giovanni accettante pezzi cento due da otto

reali delle buone stampe di Spagna subito in pace e senza lite et in denari contanti». La tartana di Francesco è di proprietà del padre Battista, che ha come soci i fratelli Carlo Francesco e Giovanni Andrea Perelli e il capitan Vincenzo Celesia.

10 ASG, Banco di San Giorgio, Gabelle, 2919. Altro luogo di smercio della carta finalese è Napoli: nell‟ottobre

1609, durante la perquisizione di una barca finalese, «li ministri del commercio» ritrovano «molte scritture» dalle quali emerge che il patrone Pietro Giovanni Burone è sceso in agosto a Napoli con tele di Piemonte e carta da scrivere (ASCG, Manoscritti Brignole Sale, 106.a.2); mentre con atto del 19 novembre 1652 patron Nicolò Finale confessa di aver ricevuto da Giovanni Vincenzo Cremata Burli «ballonos quinque papiri albi», e di averli imbarcati sulla sua tartana San Michele e Santa Croce Bonaventura diretta «ad partes Neapolis» (ASS, Notai distrettuali, 1468. La carta è costata al Finale 375 lire).

11 M. CALEGARI, op. cit., p. 73. Nel maggio 1654 l‟agente del subconduttore della cartiera di Pia - Giovanni

Marco Garibaldi - litiga con il mulattiere Giuliano Sasso «del luogo di Montezemolo» perché gli vuole vendere gli stracci a 16 lire il cantaro, mentre a Giovanni Battista Ruffini – gestore di un altro opificio posto a Calvisio – li ha venduti a 15 lire (ASCF, Camera, 19); e il 22 ottobre 1674 Bartolomeo Bagnasco testimonia che nelle Langhe scendono «molti mulattieri […] con loro bestie carriche de grani, vini, straccie, canepe et altre vettovaglie» (ASG,

Marchesato del Finale, 66).

12 M. CALEGARI, op. cit., pp. 120-123. Nel 1694, nella sola Voltri sono in funzione 110 «edifici da carta». 13 Ibidem, p. 123.

14 Ibidem, p. 170.

15 Sulla fabbricazione di carte da gioco a Finale tra XVII e XVIII secolo mi si permetta di rinviare a P.

CALCAGNO, Quando il gioco diventa un‟impresa commerciale: il caso delle carte del Finale, in corso di pubblicazione in «Ludica, annali di storia e civiltà del gioco».

16 G.A. SILLA, Storia del Finale cit., pp. 108-109. Le prime fabbriche sono quelle dei Solesio e dei Buraggi: i

primi, di origine genovese, avrebbe impiantato un laboratorio nel Borgo nella seconda metà del secolo (T. PASTORINO, Dizionario delle strade di Genova, seconda edizione a cura di B.M. VIGLIERO, Tolozzi, Genova, 1973); dei secondi abbiamo traccia per la prima volta nel 1701, quando Francesco subentra al fratello Lorenzo nella

e delle matrici xilografiche. Il lavoro non richiede la presenza di molta manodopera, e le uniche materie prime necessarie sono la carta, la colla di glutine e dei colori. Non avendo bisogno di energia idraulica, le stamperie possono essere impiantate in qualunque magazzino, e non per forza accanto a una cartiera, anche se è probabile che all‟interno di alcuni «edifici da carta» vi siano spazi e uomini destinati proprio a questa produzione17. Il Casalis, sulla scorta della Statistique del prefetto napoleonico Chabrol, fa risalire l‟avvio di questa attività nel Finalese attorno al 1620, e attribuisce l‟impresa ai proprietari delle cartiere alla ricerca di nuovi mercati18. In realtà la documentazione attesta uno sviluppo più tardivo della produzione: carte se ne producono certamente sin dai primi anni del Seicento, vale a dire da quando si insedia la guarnigione spagnola, ma per l‟impianto delle prime fabbriche specializzate e lo sviluppo di un commercio di esportazione bisogna attendere gli ultimi decenni del secolo. È verosimile che prima, per l‟accresciuto fabbisogno locale, si sia ricorso soprattutto all‟importazione (probabilmente da Genova)19. D‟altronde le prima gride contro il gioco delle carte sono degli anni Settanta20, ed è in quegli stessi anni che il sindaco delle Compere di San Giorgio riferisce della proposta di tal Giovanni Tomaso Caffarena di «introdurre nel luogo di Recco la fabbrica delle carte per Spagna

per non dar luogo all‟effettuazione del disegno di trasportarla in Finale» - a conferma che la

produzione nel Marchesato non ha ancora assunto dimensioni preoccupanti21. All‟arrivo dei genovesi la manifattura è in evidente crescita: nella sua relazione del 1714 il Governatore De Marini segnala la presenza a Finale di «due fabbriche di carte da gioco» e di «molte botteghe, sì nel Borgo che nella Marina, che fanno la vendita»22; mentre una «memoria» sull‟economia finalese di poco successiva (priva di data ma del 1725-30) conferma il buon stato della produzione, attestando che a Finale «si fabbricano carte da giocare»23. Dai dati in nostro possesso risulta che la principale destinazione delle carte prodotte nel Marchesato siano i porti della Spagna (Cadice in particolare), ma contatti vengono stabiliti anche con il Portogallo, ed è probabile che dalla penisola iberica i carichi raggiungano anche le colonie d‟oltreoceano. Sarà proprio la forte richiesta americana, alla fine del Settecento, a sancire la straordinaria fortuna di un notabile finalese, Felice

conduzione dell‟opificio di famiglia (ASS, Notai distrettuali, 1945). Nel corso del Settecento intraprenderanno l‟attività molte altre parentele del Marchesato, fra cui i Bochiardo, i Cappa, i Carenzi, i Catino, i Drago, i Folco, i Massa, i Saccone e i Toso.

17 Il 9 gennaio 1698 capitan Tomaso Buraggi si riconosce debitore di maestro Giovanni Mandillo di 1.900 lire

per «resto del prezzo di cascie ventiquattro carte consegnate per detto Mandillo al Signor Filippo Buraggi fratello di detto Signor capitan Tomaso» (ASS, Notai distrettuali, 2263). Nel 1696 il Mandillo è «subconduttore dell‟edificio da carta di questa Regia Camera», e risulta ancora «affittabile» dello stesso opificio nell‟ottobre 1698, quando insieme ad alcuni conduttori di mulini da grano è chiamato a concorrere «allo sturamento» delle «bialere» totalmente riempite dalla «piena dell‟acque hieri cascate» (ASCF, Camera, 44).

18 G. CASALIS, Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di Sua Maestà il re di

Sardegna, Torino, Maspero, 1833-1856, vol. VI, p. 644; G. CHABROL DE VOLVIC, Statistica delle provincie di Savona, di Oneglia, di Acqui e di parte della provincia di Mondovì cit., p. 288.

19 Per quanto sia difficile datare l‟inizio della fabbricazione delle carte da gioco in Liguria, una diffusa

commercializzazione è già in atto nel Cinquecento, allorché la Repubblica decide di imporre una gabella (1587), riscossa da un «appaltatore delle carte», pari a 5 soldi per ogni mazzo. Le disposizioni, che sanciscono la «proibizione a chiunque sia di fabbricare, introdurre, tenere, vendere e comprare carte nella presente città [di Genova] e Dominio, eccettuati quelli che haveranno licenza dall‟appaltatore» e «bollate col segno» dello stesso, sono rinnovate circa un secolo dopo (26 agosto 1672).

20 Il 12 febbraio 1671 il Governatore del Marchesato, di fronte all‟«assurdi inconvenienti che sono successi per

causa de giochi di carte che si permettono giornalmente nell‟osterie o sia bettole» di Osiglia e Bormida, ordina «la totale proibizione di essi acciò per l‟avenire non succedino eccessi maggiori di quelli che per l‟adietro sono seguiti, a noi et a questa curia criminale ben noti anche d‟omicidi», e ingiunge ai proprietari delle locande di non permettere «in dette rispettive bettole et osterie si giochi a gioco di carte di qualsivoglia sorte e sotto qualsivoglia pretesto sotto pena di scudi venticinque per ogni volta che contraveniranno». Una grida analoga viene pubblicata al Borgo e alla Marina il 24 luglio 1674 (ASG, Marchesato del Finale, 40).

21 ASG, Marchesato del Finale, 87. Il corsivo è nostro. Il documento è privo di data ma sicuramente posteriore al

1672 (vengono infatti citate le disposizioni del 26 agosto).

22 G. ASSERETO–G. BONGIOVANNI, op. cit., p. 43. 23 ASG, Camera di governo e finanza, 2751.

Finarino Solesio, il quale prima (1762) ottiene la direzione della «Real» fabbrica di naipes di Madrid, e poi (1776) l‟asiento reale per la fabbricazione di tutte carte da gioco dirette nelle Americhe24.

Ma i maggiori guadagni si fanno con il ferro lavorato nelle fabbriche delle Langhe, il cui traffico è sostenuto attivamente dai governanti spagnoli, che si adoperano con destrezza per garantire ai commercianti del Finale la disponibilità della materia prima – la vena, introdotta dall‟Elba25. Il ferro e le ferriere offrono lavoro a gran parte della popolazione locale: il 13 luglio 1714 il commissario genovese comunica al governo che «resta imbevuta la poveraglia […] per mancarle il totale sostentamento che ricavavano particolarmente dal mestiere di portare, imbarcare e sbarcare le robbe, e singolarmente la vena del ferro»; e cinque giorni dopo torna a rilevare che «continua a far spavento l‟imposizione sopra la gabella della vena del ferro», perché in essa «consiste il traffico più vivo di quel paese»26. Nella sua relazione del gennaio 1747 anche l‟abate Filippo Brichieri afferma che con il cambio di regime le imposizioni sui «minerali da fare il ferro» hanno danneggiato «un‟arte che cagionava l‟abitazione di centinaia di famiglie nel paese»27. In

effetti la maggior parte delle imbarcazioni che finiscono nella rete dei controlli di San Giorgio trasporta vena: l‟8 ottobre 1674 patron Agostino Ferro, di ritorno dall‟isola d‟Elba con «centi28 tre