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Se c‟è un fattore che nel corso dell‟Ottocento romantico favorisce in Italia lo sviluppo di quell‟«atteggiamento mentale» che Aurelio Musi ha efficacemente definito «antispagnolismo» è senza dubbio il pesante fiscalismo. Il malgoverno che viene denunciato fin dal XVII secolo si manifesta in più modi: nella pratica della corruzione burocratica, nella tendenza ai favoritismi, nella negligenza e nel disordine amministrativo, nell‟alleanza con i ceti privilegiati dei territori occupati – e allo stesso tempo nella divisione dei sudditi per meglio dominarli; ma la colpa principale della quale si macchiano i “dominatori” spagnoli è quella di imporre una tassazione opprimente, talvolta deleteria per le economie locali, che si prefigge di rastrellare risorse dai territori soggetti per convogliarle verso il centro del sistema imperiale – o verso i teatri di guerra del momento – costruendo così un rapporto di tipo coloniale o semicoloniale1. Oggi, senza dubbio, le nostre conoscenze sulla situazione finanziaria e sull‟andamento dell‟economia degli Stati italiani controllati dagli Asburgo sono molto più precise, e recenti ricerche hanno sfumato il nesso fiscalismo-crisi economica al quale in passato si era spesso ricorsi per suffragare l‟interpretazione del Seicento come epoca di decadenza2. Ma resta il fatto che – sia pure in modi diversi e con diversi esiti – nei territori italiani ad essi soggetti gli spagnoli mettono in atto una politica fiscale molto rigorosa, resa necessaria dallo stato deficitario delle casse pubbliche e dalle pressanti urgenze belliche.

Finale, in questo quadro, non fa eccezione, tanto più che è stata destinata a presidio militare fin dalla prima occupazione del 1571. Indubbiamente mantenere una guarnigione di alcune centinaia di uomini costa parecchio3. Senza contare che, oltre a sfamare e a pagare i soldati di stanza, gli spagnoli nel Marchesato devono continuamente far fronte alle operazioni di sbarco e di imbarco degli uomini diretti o provenienti dai campi di battaglia europei e dalle altre zone dell‟impero. Inoltre ci sono da remunerare ministri e funzionari che ricoprono incarichi pubblici (Governatori, avvocati fiscali, tesorieri camerali, capitani di giustizia ecc.)4; c‟è da finanziare il potenziamento dell‟apparato difensivo, che avrà subito inizio con il rafforzamento di castel Franco, ma vedrà piena realizzazione a metà del secolo con la costruzione dei forti di S. Giovanni, di S. Antonio e dell‟Annunziata5, e poi negli anni Settanta con i lavori di perfezionamento diretti

1 A. MUSI, Fonti e forme dell‟antispagnolismo nella cultura italiana cit., pp. 11-12. Per una lettura del

Mezzogiorno come «colonia» e non come «Stato» vedi G. PEPE, Il Mezzogiorno d‟Italia sotto gli Spagnoli. La

tradizione storiografica, Firenze, Sansoni, 1952, passim.

2 Sul ripensamento della storia di un secolo liquidato come «buio» dall‟idealismo crociano vedi su tutti F.

BENIGNO, Ripensare la crisi del Seicento, in «Storica», II, 5, 1996; e M. VERGA, Il Seicento e i paradigmi della

storia italiana, in «Storica», IV, 11, 1998.

3 In tempo di pace a presidio delle fortificazioni finalesi sono destinati circa 300 uomini fra ufficiali e soldati

semplici. Il numero cresce nei periodi di tensione, con gli invii dallo Stato di Milano e dagli altri domini spagnoli (R. MUSSO, Finale e lo Stato di Milano cit., pp. 75-76). Per altri dati sulla consistenza numerica della guarnigione finalese si veda il capitolo Il presidio finalese: gli alloggiamenti e i transiti della «soldatesca» (specie pp. 75-76), e la tabella riportata in appendice a D. MAFFI, Alle origini del “camino español” cit., p. 147. Bisogna poi calcolare anche i soldati della milizia locale («composta di tutti i capi di casa atti al maneggio dell‟armi», riordinata dai governanti iberici nel 1616 e nel 1645, e composta di circa 3.000 unità) e le sei compagnie degli «scelti» (della forza di 100 uomini ciascuna), che «servono Sua Maestà in tutte le occasioni come soldati effettivi, coprendo li corpi di guardia, sortendo a convogliare et facendo all‟occasione tutte l‟altre funzioni solite a farsi da soldati effettivi» (ASG, Marchesato del

Finale, 87). Sulle milizie popolari della Repubblica genovese R. MUSSO, Compagnie scelte e ordinarie dello Stato di terraferma, in «Liguria», LIII, 1986, n. 1-2, e R. DELLEPIANE, Scelti e compagnie urbane: le milizie della Repubblica di Genova durante la guerra di successione austriaca, in Genova 1746: una città di antico regime tra guerra e rivolta,

Atti del convegno 3-5 dicembre 1996, in «Quaderni franzoniani», XI, 1998, 2.

4 Nel 1649, ad esempio, gli spagnoli chiedono un anticipo al cassiere dell‟impresa generale Giovanni Francesco

Bado, «stante la premura ch‟ha al presente la Regia Camera de denari per sodisfare a debiti forzosi et salari de ministri et ufficiali» (ASCF, Camera, 16).

5 San Giovanni è costruito su progetto del tedesco Ferdinand Glazer. Castel Franco, edificato dai genovesi sulle

pendici del Gottaro alla metà del Trecento, costituisce in epoca spagnola il perno del sistema difensivo finalese (G. CHABROL DE VOLVIC, Statistica delle provincie di Savona, di Oneglia, di Acqui e di parte della provincia di

dall‟architetto Serena6; e c‟è da curare la manutenzione dei beni della Camera (specie degli edifici: mulini, frantoi, cartiere e ferriere), il cui appalto procura introiti regolari e relativamente consistenti, e consente di pagare i vari impresari del presidio (munizionieri, organizzatori delle tappe, fornitori di letti, vestiti, armi ecc.). In fin dei conti, per i re Cattolici l‟acquisto del Finale ha avuto grande importanza strategica e logistica, ma è stato anche oneroso, e per questo bisogna pensare per prima cosa ad ammortizzarlo. Per tutti questi motivi gli spagnoli sono costretti nel corso del Seicento ad esercitare una pressione fiscale particolarmente elevata – che non ha eguali nelle confinanti comunità del Dominio genovese7 – fatta soprattutto di imposte dirette, riscosse periodicamente sotto forma di «prestiti», «donativi» o «contribuzioni», che per via di un riparto iniquo vanno a gravare prima di tutto sui ceti meno abbienti8.

Per la verità – lo si è detto – negli altri domini italiani della Corona la situazione non è affatto migliore. La Spagna del Cinquecento e del Seicento è un impero mondiale, e deve fare i conti con i costi elevati di una politica ambiziosa e militarmente onerosa. Ha bisogno perciò di enormi risorse, e oltre che ai metalli preziosi dal Nuovo mondo fa ricorso nei suoi possedimenti continentali a «una pressione fiscale crescente, mantenuta spesso a un alto livello e spinta sempre oltre il tollerabile»9. Specie nel Milanese, quella spagnola è una «dominazione che per la politica fiscale sostenuta e per gli alloggiamenti militari imposti fini[sce] con il presentarsi come oppressiva e gravosa»10. Per quanto la Monarchia adotti volutamente una prudente politica di rispetto delle pre-esistenti istituzioni, facendo largo affidamento sulla collaborazione dei patriziati locali11 – che di quelle istituzioni sono gelosi custodi – le improrogabili e crescenti esigenze finanziarie la costringono «a prendere drastiche misure […] in materia fiscale, […] sia con l‟inasprimento dei tributi esistenti sia con la creazione di nuovi tributi»12. Il sistema fiscale fa perno su una struttura amplissima di dazi e di imposizioni indirette, che colpisce «i beni e le merci nei loro movimenti e nelle loro transazioni», e va a gravare «in maniera più o meno efficace […] su tutte le categorie di cittadini»13. Ma anche il carico fiscale diretto è altrettanto pesante. Già a partire dal XVI secolo viene introdotto il

Mondovì che formavano il dipartimento di Montenotte, a cura di G. ASSERETO, Savona, Comune di Savona, vol. II,

1994, p. 51; G. COLMUTO ZANELLA, La provincia di Savona cit.; M. FIOR–L. RONCAI, Strade, porti,

comunicazioni e canali cit., pp. 149-169).

6 C. COLMUTO ZANELLA–L. RONCAI, I rapporti cit., p. 71.

7 È vero che «nel parziale riordino e potenziamento delle giurisdizioni periferiche» della Repubblica «le

preoccupazioni di controllo fiscale e finanziario [hanno] un peso», ma per tutta una serie di motivi il prelievo fiscale si estende in maniera «lenta, disordinata ed episodica»; e in termini assoluti la pressione fiscale esercitata dallo Stato genovese «è rimasta sempre piuttosto modesta» (G. ASSERETO, Le metamorfosi della Repubblica cit., pp. 28-29 e 83; ID. La città fedelissima cit., p. 135). La mancanza di un reale controllo sul meccanismo del riparto e sulla realizzazione degli estimi delle proprietà fa sì che le tasse siano scaricate anche qui sui più deboli, ma in termini assoluti il peso è minore (si vedano in proposito i due saggi di Giuseppe Felloni Distribuzione territoriale della ricchezza e dei carichi

fiscali nella Repubblica di Genova e Stato genovese, finanza pubblica e ricchezza privata: un profilo storico, in Scritti di storia economica cit.). D‟altronde, in un documento settecentesco recante l‟indicazione Copia semplice del Stato del Marchesato doppo l‟ingresso della Serenissima Repubblica – cioè dopo l‟acquisto del Finale da parte dei genovesi – si

legge che «la Repubblica Serenissima non ha nel suo Dominio feudo, città né altra giurisdittione caricata di tanti pesi […] come il Marchesato» (ASCF, Marchesato, 35).

8 Gli «imprestiti» vengono in genere immediatamente convertiti in abiti o in razioni di pane (R. MUSSO, Finale

cit., p. 165).

9 G. GALASSO, Il sistema imperiale spagnolo da Filippo II a Filippo IV cit., p. 36. 10 P. PISSAVINO, Per un‟immagine sistemica cit., p. 186.

11 In effetti nello Stato di Milano gli spagnoli intrecciano uno stretto rapporto con le élite locali, mostrando «ad

esse che gli interessi del sovrano e i loro non sono antitetici, ma largamente compatibili»; e in cambio dell‟attuazione di una politica fiscale «più autoritaria» ricevono richieste di consolidamento degli organi istituzionali locali e di chiusura oligarchica dell‟accesso alle cariche pubbliche (C. MOZZARELLI, Patrizi e governatori nello Stato di Milano a mezzo

il Cinquecento. Il caso di Ferrante Gonzaga, in G.V. SIGNOROTTO (a cura di), L‟Italia degli Austrias cit., pp. 121

sgg.).

12 D. SELLA, Sotto il Dominio della Spagna, in ID.-C. CAPRA, Il Ducato di Milano dal 1535 al 1796 cit., pp.

48-49.

13 G. MUTO, Il governo dell‟Hacienda nella Lombardia spagnola, in P. PISSAVINO-G.V. SIGNOROTTO (a

«mensuale», un‟imposta di carattere militare che all‟inizio viene riscossa in via straordinaria ma con il tempo si trasforma in carico ordinario, e colpisce la ricchezza mobiliare e immobiliare sia nel contado sia nelle città, intaccando l‟area del privilegio del Ducato visconteo-sforzesco14. E poi c‟è il «tasso dei cavalli», vecchio tributo che con l‟arrivo degli spagnoli raddoppia; il «tasso d‟ambo le cavallerie», riscosso a partire dal 156115; il carico dei 14 reali, imposto nel 157516; e, nel Seicento, quello sui presidi forensi, l‟integrazione delle paghe dei carrettieri e dei guastatori, e il sostentamento del tercio della cavalleria. Nel corso dei due secoli di dominazione spagnola si assiste insomma a un «ampliamento della fiscalità» che, se serve poco a Madrid per far fronte agli incrementi di spesa del suo impero, indebolisce e penalizza le strutture dell‟economia lombarda e contribuisce a creare un‟ampia fascia di indigenza, di cui trova l‟eco nella letteratura17.

Alcune misure della politica fiscale spagnola servono però a rendere il sistema più equo. Fin dalla prima metà del Cinquecento il Governatore Ferrante Gonzaga fa censire – ai fini di una più perequata distribuzione del carico – tutta la materia imponibile, ponendo sotto tassazione diretta anche i beni dei mercanti: è il cosiddetto «estimo generale», ordinato nel 1543 ma portato a termine, dopo interminabili controversie, solo mezzo secolo dopo18. Poco tempo dopo (1561), anche per placare l‟ondata di malumore delle popolazioni rurali in seguito all‟imposizione del mensuale, le autorità spagnole istituiscono dei corpi di rappresentanti del contado (le «congregazioni del contado») che debbono essere consultati su tutte le questioni attinenti alla ripartizione delle imposte: è un colpo inferto all‟egemonia delle città, e anche se non si afferma certo il moderno principio di uguaglianza di fronte al fisco, a cavallo fra i due secoli alcune importanti modifiche accorciano «le distanze fra città e contado»19. Calcolando – come ha fatto Vigo20 – la pressione fiscale effettiva sui vari tipi di reddito attraverso l‟esame di alcuni casi circoscritti, si può quindi concludere che «il prelievo nel Ducato della seconda metà del XVI secolo [è] generalmente

14 Su questo tema rinvio principalmente ai lavori citati di Muto e Pissavino; ma si veda anche A. MUSI, L‟Italia

dei viceré cit., p. 62; e, per maggiori approfondimenti, G. VIGO, Fisco e società nella Lombardia del Cinquecento,

Bologna, Il Mulino, 1979. Quando viene imposto provvisoriamente nel 1536, il mensuale è fissato a 240.000 scudi; una volta divenuto tassa “permanente” è elevato a 300.000 scudi. Con il tempo questa imposta finisce per costituire il perno del sistema fiscale lombardo, non solo per l‟entità del suo gettito ma anche per via della funzione cruciale che esso svolge quale base di riferimento per la ripartizione di altre tasse – donativi compresi (M. RIZZO, Alloggiamenti militari

e riforme fiscali cit., pp. 215-217).

15 L‟imposta sancisce l‟obbligo di integrare le paghe versate dalla Camera ai soldati della cavalleria ordinaria

posta a presidio del Dominio lombardo, pagando due scudi al mese per ciascun cavalleggero e quattro scudi per ogni uomo d‟arme, «comprese le agiontioni et esentioni» (M. RIZZO, Alloggiamenti militari cit., p. 292)

16 Il nome del tributo si deve all‟ammontare della somma mensile che le comunità gravate dagli alloggiamenti

militari devono pagare per ciascuna razione di cavalleria, in sostituzione della precedente fornitura diretta di utensili ai soldati alloggiati (ibidem, p. 296). Il medesimo criterio ispira anche l‟imposizione del donativo dei 1.000 scudi a carico del Marchesato nel 1645 (si veda più avanti in questo stesso capitolo).

17 «La Lombardia spagnola ha sempre occupato un considerevole spazio nella letteratura storica», e

«specialmente la crisi economica che la colpì nel corso del Seicento ha suscitato l‟interesse di una nutrita schiera di scrittori», tra i quali naturalmente il più celebre è il Manzoni dei Promessi sposi (D. SELLA, L‟economia lombarda

durante la dominazione spagnola cit., p. 5). Venendo più verso di noi, Cattaneo, nelle sue Notizie naturali e civili su la Lombardia (ora raccolte in Opere scelte, a cura di D. CASTELNUOVO FRIGESSI, Torino, Einaudi, 1977, II, pp. 455-

458), sostiene che il dominio spagnolo alimentò «odio e disprezzo ai mestieri e alle mercature», avviando alla rovina «l‟azienda di uno Stato ch‟era altamente industriale»; mentre nella Storia di Milano di Francesco Cusani – comparsa nel 1861 – si legge che le truppe del re Cattolico «saccheggiando con militare licenza il paese davano l‟ultimo crollo all‟agricoltura e all‟industria» (entrambe le citazioni sono riprese da G.V. SIGNOROTTO, Aperture e pregiudizi nella

storiografia italiana del XIX secolo cit., pp. 531 e 535)

18 D. SELLA, Politica, istituzioni e società nella Lombardia del Cinquecento cit., p. 142. L‟estimo, partendo dal

principio che tutta la ricchezza, mobiliare e immobiliare, urbana e rurale, sia assoggettabile all‟imposta anche diretta, mette in causa tutta una serie di esenzioni o privilegi fiscali consacrati dalla tradizione. Sulla intricata vicenda dell‟estimo si veda G. VIGO, Fisco e società cit.

19 D. SELLA, Politica, istituzioni e società cit., p. 143. Su questi temi si vedano anche le considerazioni dello

stesso SellainL‟economia lombarda cit., specie pp. 61-78. In merito al processo di perequazione fra città e campagne

in materia di tassazione nei vari Stati italiani si rinvia a ID., L‟Italia del Seicento cit., pp. 69-71.

20 G. VIGO, Finanza pubblica e pressione fiscale nello Stato di Milano durante il secolo XVI, Milano, Banca

sopportabile»21. Ma prima di liquidare disinvoltamente quella «tradizione storiografica che [ha] dipinto nel modo più tenebroso e rapace la fiscalità spagnola» non bisogna dimenticare che «la distribuzione delle imposte non [ha] alcuna rispondenza con la distribuzione del reddito», e che «la moltitudine di braccianti e salariati […] porta un fardello sproporzionato alle loro sostanze»22.

Nelle sue ricerche sul Mezzogiorno spagnolo, Musi ha sottolineato la funzionalità del sistema fiscale ideato da Filippo II e perfezionato dai suoi Viceré nel corso del Cinque-Seicento: «una colossale struttura di occupazione e di redistribuzione delle risorse». La gestione dell‟apparato coinvolge infatti gruppi e interessi diversi, che finiscono col saldarsi con quelli dominanti, contribuendo a creare un «modello di integrazione fra amministrazione, economia, società, destinato a durare ben oltre la dominazione iberica». Gli stessi effetti del sistema tributario sull‟assetto sociale e politico si fanno sentire anche in Sicilia, dove – così come a Napoli – i baroni possono speculare sul debito pubblico, i privati e le strutture ecclesiastiche riescono a incrementare i propri bilanci per mezzo degli appalti delle gabelle, e molti operatori finanziari stranieri si inseriscono con enormi profitti nella gestione del fisco. In altre parole, la politica tributaria sarebbe il risultato di uno studiato compromesso con la realtà napoletana-siciliana da parte di un governo, come quello spagnolo, alla ricerca del difficile equilibrio fra dominio e consenso23; e l‟apparato fiscale rappresenterebbe «senz‟altro il più importante sbocco professionale nel Mezzogiorno d‟antico regime». Insomma, «per tutta la seconda metà del Cinquecento e fino agli anni Venti del Seicento si manifesta una buona capacità di controllo della macchina dello Stato e [una] volontà di dirigerla con criteri che […] allud[ono] ad una razionalizzazione della gestione», specie «nel settore specifico dell‟amministrazione finanziaria e della fiscalità»24.

D‟altra parte è stato osservato che manca un rappresentante del sovrano in molte province del Viceregno, e per far funzionare il meccanismo fiscale «in tutti i suoi ingranaggi [è] necessario che ven[gano] rispettate in qualche misura le peculiarità locali, al fine di non compromettere la già precaria pace sociale, […] e ad un tempo destinare al fallimento il piano fiscale»25. E come in Sicilia e Sardegna si evidenzia una estrema incapacità di «risanare i bilanci dissestati» delle comunità, tanto da far apparire quello napoletano lo Stato preunitario «meno attrezzato sul piano del controllo finanziario locale»26. Questo comporta in tutto il Mezzogiorno un forte incremento della pressione fiscale, che colpisce massicciamente i ceti medio-bassi della popolazione, e determina una sistematica sottrazione di risorse, a tutto discapito dell‟economia. Di fatto nella prima metà del Seicento a Napoli il gettito delle imposte quadriplica27, e in Sardegna nel primo quarto del secolo la pressione fiscale conosce un‟impressionante impennata del 500%28. Non per nulla, la rivolta che infuria nel Viceregno fra il luglio 1647 e l‟aprile dell‟anno successivo è in primo luogo un attacco al «blocco di potere condotto nel segno dell‟antifiscalismo»; e le prime case ad essere date alle fiamme sono quelle dei nobili, dei grandi finanzieri, dei personaggi che ricevono benefici

21 G. DE LUCA, Struttura e dinamiche delle attività finanziarie milanesi cit., p. 54. 22 Ibidem; G. VIGO, Fisco e società cit., pp. 245-255.

23 La «profonda compenetración entre fuerza y consenso» come «fundamento de la cohesión monárquica» è stata

ben analizzata nel recente volume miscellaneo di F.J. GUILLAMÓN ÁLVAREZ-J.J. RUIZ IBÁÑEZ (a cura di), Lo

conflictivo y lo consensual en Castilla. Sociedad y poder politico 1521-1715, Murcia, Universidad de Murcia, 2001.

24 G. MUTO, Leggere il Mezzogiorno spagnolo, in G.V. SIGNOROTTO (a cura di), L‟Italia degli Austrias cit.,

p. 73.

25 A. BULGARELLI LUKACS, Conoscenza e controllo della periferia cit., p. 253; A. MUSI, Il Vicereame

spagnolo, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso, vol. IV, t. I, Napoli, Edizioni del sole, 1986, p. 287.

26 A. BULGARELLI LUKACS, Conoscenza e controllo cit., p. 244; S. TABACCHI, Il controllo sulle finanze

delle comunità degli antichi Stati italiani, in «Storia Amministrazione Costituzione. Annali I.S.A.P.», n. 4, 1996, pp.

81-115.

27 D. SELLA, L‟Italia del Seicento cit., p. 35. «In un periodo di prezzi relativamente stabili un tale incremento

era reale e significava che una quota crescente di risorse veniva deviata verso impieghi improduttivi» (L. DE ROSA, Il

Mezzogiorno spagnolo tra crescita e decadenza, Milano, Il Saggiatore, 1987, p. 172).

28 B. ANATRA, La Sardegna “spagnola”. Una crisi lunga un secolo, in G. V. SIGNOROTTO (a cura di),

dall‟appalto delle entrate fiscali, vale a dire i “collusi” con il sistema degli governanti spagnoli29. Allo stesso modo, nella Sicilia del Seicento, Palermo insorge più volte30; e lì come nei centri della parte sud-orientale dell‟isola (Carini, Alcamo, Caccamo, Cefalù, Agrigento, Catania) «i moti assu[mono] caratteri antifiscali»31. Forse ancor più del Ducato milanese, i regni del Mezzogiorno si

trovano quindi a svolgere una «funzione fiscale», e nei secoli della dominazione spagnola funzionano da «serbatoio di risorse finanziarie da cui attingere per far fronte alle esigenze dei diversi teatri di guerra in continuo spostamento»32.

Per certi aspetti, Finale non è paragonabile agli altri domini italiani della Corona di Spagna. Finale è un piccolo feudo imperiale acquistato e approntato a presidio militare; e sebbene rivesta un importante ruolo di raccordo con gli altri possedimenti dei sovrani iberici (Milano in primis), e faccia quindi parte integrante – per dirla ancora con Musi – del «sottoinsieme Italia», il Marchesato ha per gli spagnoli una scarsa rilevanza territoriale ed è privo di un reale rilievo politico nello scacchiere italiano. Parimenti, le dimensioni e la composizione sociale della popolazione locale non consentono un drenaggio di risorse eguale a quello esercitato altrove, ma in proporzione la pressione fiscale è ugualmente elevata. La priorità per gli spagnoli è sfamare e pagare i soldati di stanza e organizzare le operazioni di imbarco e di sbarco delle truppe itineranti. Tutto è e deve essere in funzione del presidio, che richiede spese consistenti e regolari, e anche il sistema fiscale viene modellato sulla base delle esigenze del Governatore (che è delegato al controllo della