Fin dai primi tempi della loro permanenza, gli spagnoli si rendono conto che le entrate ordinarie non sono sufficienti a coprire le spese del presidio. Già due anni dopo l‟ingresso delle truppe di don Pedro de Toledo nel Borgo del Finale (5 agosto 1604) l‟ambasciatore spagnolo a Genova Juan de Vivas confida al “collega” a Vienna che sono molte le «malas informaciones hechas al emperador, y entre otras que valia el Final cien mill escudos y no vale sino seys»1. Una relazione milanese del 27 ottobre 1619 illustra bene la realtà dei fatti: le paghette dei soldati si pagano «con denaro che si conduce colà da questa Regia Camera», il quale ammonta a 16.340 scudi; ma dal momento che le «dette paghe» sono «quasi due terzi di più che le recitate rendite», il disavanzo cresce con preoccupante regolarità2. Allo stesso modo, nel febbraio 1635 Juan Ruiz de Laguna informa il Governatore di Milano che «el Estado [di Finale] no renta sino seis mil ducados, y para sostentarle con el Governador y gente militar y lo que es necessario para la administracion de justicia y hazienda tiene de costa diez y ocho mil ducados al año»3. Anche i genovesi sono a conoscenza delle difficoltà degli spagnoli nel far quadrare i conti: sulla base delle notizie acquisite dai vari informatori, il 27 ottobre 1664 il sindaco delle Compere di San Giorgio comunica ai Protettori della Casa che «il reddito di esso [Marchesato] per Sua Maestà non eccede in tutto lire diec‟otto mila brutte di spesa, la quale importa trenta volte più che l‟introito»4.
È naturale che in una situazione del genere, di fronte allo stato in cui versa l‟erario e in vista delle spese belliche che si fanno sempre più onerose, i governanti milanesi pensino a introdurre nuovi aggravi di tipo fiscale. Difatti, proprio per «agiusto delle molte spese che colà si fa[nno]»5 alla fine del 1638 il marchese di Leganés si risolve a imporre un dazio «sopra tutte le mercantie che si conduc[ono] dalla Marina al Piemonte e dal Piemonte alla Marina», da riscuotere «alle Carcare e Calizzano»6. L‟operazione è semplice, e consiste nel tassare gli intensi flussi commerciali con le regioni dell‟interno, dai quali dipende la sopravvivenza di molti sudditi finalesi e la ricchezza dei maggiori mercanti. E viene anticipata alcuni mesi prima dalla temporanea occupazione di Altare, che potrebbe rappresentare una potenziale concorrente per i territori delle Langhe annessi al Marchesato nelle condotte da e verso le aree controllate dal duca di Savoia e dai marchesi del Monferrato: come scrive il 20 agosto 1638 l‟ambasciatore a Genova Sirvela, «pocos dias ha se occupò [Altare] con alguna poca gente para la seguridad del paso del Final, y para obligar a que el
passo y commercio entre el Piemonte y esta Republica se continuase por el de Carcare»7.
1 AGS, Estado, Génova, 1432. Ugualmente, una decina d‟anni dopo (8 aprile 1614) una relazione preparata a
Milano per la corte conferma che il presidio «cuesta cada año quarenta mil escudos la mantenencia, y no pasan de seis mil lo que renta aora» (AGS, Estado, Génova, 1436).
2 ASCF, Marchesato, 9.
3 M. GASPARINI, La Spagna e il Finale cit., p. 253. Nel suo trattato del novembre 1633 sul diritto del re di
fabbricare un porto a Finale il Laguna rivela che i funzionari della Camera di Milano «han gastado [per il Marchesato] hasta oy casi dos milliones» (ASG, Archivio segreto, 257).
4 ASG, Banco di San Giorgio, Gabelle, 2919. Più ottimistico invece il «conto distinto» presentato nel 1713 al
duca di Savoia da alcuni «malaffetti» finalesi, che calcolano – probabilmente gonfiando - le entrate effettive del Marchesato in 80.000 lire, «oltre li beni camerali e l‟utile del sale» (ASG, Marchesato del Finale, 21).
5 Così dice esplicitamente in una lettera del settembre 1646 il Governatore don Bernardino Fernandez de Velasco
al Presidente del Magistrato Ordinario (ASCF, Marchesato, 7). Alla fine del secolo (4 ottobre 1694), in una sua relazione per lo stesso Ordinario l‟avvocato fiscale ricorda che il dazio è servito anche per finanziare le opere difensive del presidio: «l‟anno 1638, a caosa delle spese eccessive che si richiedeva la necessità di continuare le fortificazioni in quei castelli, deliberò l‟Eccellentissimo Signor marchese di Leganés Governatore in quel tempo d‟imponere un dazio a tutti i generi di mercanzie forestiere che transitano per li luoghi delle Carcare e Calizzano» (ASG, Archivio segreto, 286). Ed infatti è proprio con i proventi di questo pedaggio che il 21 luglio 1648 la Camera di Milano s‟impegna a retribuire l‟impresario Antonio Silva, impegnato da qualche anno nell‟allestimento delle fortificazioni di Cengio e del Finale (ASM, Militare parte antica, 326).
6 Il 10 gennaio 1639 il Magistrato Ordinario comunica al fiscale del Finale di adeguare la «tariffa» del dazio a
quella del pedaggio che si riscuote ad Altare.
Per gli spagnoli si tratta di una misura per certi versi insolita, che si discosta dalla linea consueta di imporre alla popolazione locale tributi diretti sotto forma di sovvenzioni e di mantenere al contrario su livelli molto bassi la tassazione sulle merci8. Ma d‟altra parte il dazio di Carcare e Calizzano è senza dubbio il frutto di una strategia fiscale ben meditata, che va sì a colpire il commercio, l‟attività economica più sviluppata e che muove i maggiori capitali, ma senza danneggiarne in maniera irreparabile gli operatori; che sono poi i membri di quella ristretta élite di possidenti e amministratori con i quali i dominatori instaurano fin dall‟inizio un rapporto di stretta collaborazione, specie per via delle imprese camerali e delle commissioni legate al presidio. In sostanza, una disposizione calcolata e remunerativa9, che prende di mira un circuito commerciale regolare e di notevoli dimensioni - quello verso l‟entroterra piemontese e monferrino - ma che grava perlopiù sugli autori delle piccole transazioni quotidiane, che comprano e vendono per necessità e non per fare affari. I maggiori mercanti riescono infatti a limitare i danni scendendo a patti con i «corridori» del dazio – ai quali spesso pagano cifre forfetarie – o dirottando all‟occorrenza i propri movimenti su altre “scale”. Il nuovo tributo mette quindi alla prova la solidità di quella stessa élite, che supera indenne l‟ostacolo, e che trova anzi il modo di trarre profitto dal dazio subentrando agli spagnoli nell‟affare della sua riscossione. In buona sostanza il «Real» dazio è il risultato di un accordo ragionevole: come conclude l‟abate Filippo Brichieri nella sua relazione sul Marchesato del 1747, «in retribuzione dei profitti che riportava dai castelli e dalla guarnigione spagnola» l‟élite commerciale del Finale «accettò i pedaggi delle Carcare e di Calizzano» per andare incontro alle «urgenze» dei governanti spagnoli10.
In ogni modo all‟inizio il colpo è duro. In Consiglio si decide all‟unanimità di non perdere tempo e di mandare un procuratore a Milano11 con tutti i documenti necessari per far desistere gli spagnoli dal nuovo proposito. Occorre ricordare al Governatore e al Magistrato Ordinario la volontà, più volte espressa dal sovrano, «di haverlo [il Finale] in particular protezione, […] di guardarle in ogni tempo le sue essenzioni, franchiggie e preminenze»12. E se questo non dovesse bastare, bisogna metterli al corrente delle pesanti conseguenze del dazio, che sebbene introdotto «per apportar uttile a detto Marchesato, ad ogni modo ne mostra così contrario effetto l‟esperienza»13.
8 In effetti il «subsidio» rappresenta «la forma tradicional de tributación» dell‟impero spagnolo (G. PARKER, El
ejercito de Flandes cit., p. 179). In ogni caso gli spagnoli sanno adeguare la loro politica fiscale ai territori soggetti: così
nello Stato di Milano il fisco fa «perno su una struttura amplissima di dazi che colpi[scono] i beni e le merci nei loro movimenti e nelle loro transazioni» (G. VIGO, Economia e governo nella Lombardia borromaica, in P. PISSAVINO- G.V. SIGNOROTTO (a cura di), Lombardia borromaica, Lombardia spagnola cit., p. 281); mentre nella diversa realtà economica del Regno di Napoli, dove l‟applicazione di dazi e gabelle sul consumo e la circolazione di merci non avrebbe comunque prodotto gettiti significativi, l‟imposta diretta costituisce l‟unica forma praticabile di prelievo fiscale (A. BULGARELLI LUKACS, Conoscenza e controllo della periferia attraverso lo strumento fiscale: l‟esperienza del
Regno di Napoli, in Comunità e poteri centrali cit., p. 257).
9 Che il dazio di Carcare e Calizzano sia un affare - sia per la Camera che per gli impresari incaricati della
riscossione - e che le merci continuino a passare da quelle parti in grosse quantità anche dopo il 1638 lo dimostrano chiaramente le cifre di appalto nel corso della seconda metà del secolo (vedi p. 48).
10 AST, Paesi, Genova, Riviera di ponente, categoria XII, mazzo 2. La disponibilità della Monarchia a scendere a
compromesso con le classi dirigenti locali rappresenta una costante nella storia dell‟impero asburgico (M. RIZZO,
Centro spagnolo e periferia lombarda cit., p. 317; G. DE LUCA, Struttura e dinamiche delle attività finanziarie milanesi tra Cinquecento e Seicento, in E. BRAMBILLA-G. MUTO (a cura di), La Lombardia spagnola cit., p. 39). Per
una lettura di questo tipo dei rapporti tra corte e corpi locali si veda anche il recente lavoro di A. BUONO, Guerra,
élites locali e Monarchia nella Lombardia del Seicento cit.
11 La seduta si tiene il 2 marzo 1639 (ASCF, Marchesato, 15)
12 ASCF, Marchesato, 7. Ci si riferisce evidentemente alle promesse delle «Maestà di Filippo Secondo e Terzo di
gloriosa memoria, li quali ben conoscendo quanto conveniva al loro Real Servicio il conservare quella Provincia vietarono a Ministri di porre nuove gravezze, ma che dovessero esser trattati e mantenuti con l‟istesso modo e stato ne quali si trovarono al tempo ch‟hebbero la sorte di sottomettersi al loro Soave Dominio» (ASM, Feudi Imperiali, 247). Pochi anni prima (22 novembre 1622) Filippo IV aveva ordinato che qualunque nuovo aggravio fiscale dovesse essere approvato preliminarmente da lui e dal Consiglio d‟Italia (ADGG, Carte Alvarado Casado, 98).
Nei primi anni successivi all‟imposizione la questione è costantemente presente in tutte le rimostranze presentate al governo milanese. Una relazione di quel periodo insiste sul fatto «che il dazio di Calizzano è di pochissimo reddito», e che «levando via detto dazio […] si accresceranno per quelle parti le Real Entrate per il concorso che vi sarà di mulattieri e vettovaglie, de quali è scarsissimo il paese, e renderanno maggiormente le gabelle delle carni, pesci e vino»14. L‟avviso di cui è in possesso capitan Alessandro Arnaldi15, diretto nel 1640 presso il Governatore del Ducato, fa leva sugli stessi argomenti, e rimarca gli effetti nefasti del dazio sul tenore di vita della popolazione finalese («è di danno agli abitanti del Marchesato, […] che a poco a poco saranno forzati abbandonare il paese») e sullo stato dell‟erario (che dovrà fare i conti con l‟abbassamento degli «affitti delle gabelle del vino, della carne, del pedaggio, [del]li molini da grano, prato grande e altri affitti di detta Regia Camera»). I sudditi finalesi temono che la nuova tassa sulle merci dirette in Piemonte e in Monferrato finisca per rendere la loro piazza meno appetibile a commercianti e mulattieri: col risultato che molti edifici saranno costretti a chiudere, «perché sono li forastieri che mangiano il pane, e due soli molini basteranno per il Marchesato»; e che i villani dovranno trovare altre occasioni di impiego, giacché «non venendo più mulattieri non si potrà vendere li fieni che si raccolgono» nei loro campi16. Per avvalorare la veridicità delle proprie recriminazioni, i finalesi chiamano in causa anche i rappresentanti delle comunità dell‟interno. Il 20 gennaio 1641 il sindaco e i consiglieri di Bardineto spediscono una lettera a Milano confermando che «dopo l‟imposizione del dazio in Calizzano è mancato il traffico et negozio», e che mentre prima «concorreva sì dalla parte del Piemonte e luoghi vicini sì dalla Riviera di Genova numero di gente con robe e vettovaglie di ogni sorta, che abbondavano il Marchesato di Finale e luoghi vicini», ora «passano e s‟incamminano tutti a[lla] strada di Garessio, e d‟ivi a Zuccarello e Riviera di Genova»17. Allo stesso modo, nel luglio di quello stesso anno i membri del Consiglio generale del Marchesato fanno pervenire al Presidente del Magistrato Ordinario analoghe «fedi dell‟amministratori o sia deputati al governo delle communità di Ceva e Priero»18.
Nell‟aprile 1641, per saperne di più, l‟Ordinario dà ordine al fiscale del Finale di interrogare qualche diretto interessato: mulattieri, osti, rivenditori, patroni di barca e anche qualche mercante; tanto delle comunità delle Langhe (Carcare e Calizzano in primis, naturalmente) quanto di Borgo e Marina19. Le deposizioni dei testimoni sono in effetti abbastanza concordi, ma con qualche significativa differenza. Il carcarese Giovanni Maria De Avanzi assicura che prima dell‟imposizione del dazio «viandanti e mulattieri […] con diverse merci e robbe venivano a questo luogo di Finale», dando a molti l‟opportunità di smaltire «pane, vino et carne e fieno»; mentre ora «si ved[e] affatto cessato il mercato che si faceva tre volte la settimana in detto luogo delle Carcare», e l‟intero
14 Ibidem. Questa relazione è priva dell‟indicazione della data, ma è chiaramente dei primi mesi del 1639. 15 Quella degli Arnaldi è una delle più antiche e prestigiose famiglie del Borgo finalese (il Salvi ne attesta la
presenza nel Marchesato fin dalla metà del Trecento. Tre quistioni di storia finalese, in «Atti della Società ligure di storia patria», LXI, 1933, p. 151). Nobili per investitura dell‟imperatore Rodolfo II del maggio 1592 (ASCF,
Marchesato, 27), ricoprono spesso incarichi di rilievo per il Marchesato. Oltre ad Alessandro, che secondo Alonzo (I cento del Finale. Biografie di Finalesi illustri: famiglie, governatori, sindaci, caduti in guerra, Savona, Coop Tipograf,
2006, p. 26) nel 1622 si troverebbe a Madrid in veste di procuratore del Finale, fra gli altri membri di spicco di questo secolo ricordiamo Giovanni Battista, nel 1642 oratore a Milano presso il Governatore marchese di Leganés contro i nuovi aggravi fiscali, e Francesco Alessandro, sindaco del Borgo nel 1679 e ai primi del Settecento inviato a Vienna per protestare contro i genovesi divenuti da poco padroni del Marchesato. Alcune ipotesi sulla provenienza della famiglia (Linguadoca?) sono state avanzate da G.A. SILLA, L‟Ordine della Mercede. I «Nolasco» di Finale, in «Atti della Regia Deputazione (sezione savonese)», XXI, 1939, p. 135.
16 ASCF, Marchesato, 7. 17 Ibidem.
18 ASG, Archivio segreto, 190. Ringrazio Giovanni Assereto per avermi segnalato alcuni documenti presenti in
questo faldone.
19 ASCF, Marchesato, 7. Il dossier viene preparato con cura dal fiscale con lo scopo di capire se qualcuno «habbi
traffico è stato «trasportato a Savona, Noli, Pietra et altri luoghi del Genovesato»20. Dello stesso parere sono anche tutti gli uomini di Calizzano ascoltati dal cancelliere camerale. Giorgio Bianco rivela che in passato ha fatto molti affari con i commercianti piemontesi, in particolare con quelli provenienti «dal loco di Bra, che è lontano da esso loco di Calizzano circa trenta miglia»; ma per via del nuovo balzello «al presente non ci viene più alcuno», e le merci schivano le Langhe, «lasciando la strada dritta di Ceva et passando per quella di Garessio». Giovanni Battista Rubba spiega che da Garessio i mulattieri scendono a Toirano e ad Albenga, oppure a Loano, «paese del principe Doria». E capitan Bernardino Gallo ricorda che prima del 1638 a Calizzano venivano portate giornalmente 400 o 500 «stare» di grano, mentre con il nuovo dazio degli spagnoli «s‟ingrassa tutto il paese della Repubblica di Genova»21. Insomma, se il Marchesato era una delle più fiorenti realtà della Riviera di ponente, in seguito all‟imposizione fiscale nelle Langhe il primato sarebbe passato alle comunità confinanti: a questo proposito c‟è addirittura chi sostiene che la gente di Loano «ne secoli prima di detto dacito veniva etiamdio per il pane e ogni altra cosa per vivere al Finale, dove hora bisogna che li sudditi di Sua Maestà [cioè i finalesi] vadino a Loano a mendicare il vitto o il poco negozio che puonno fare»22.
Ma a «testificare» sulle conseguenze deleterie del Real dazio non sono solo gli uomini di Carcare e Calizzano. Gli stessi negozianti e mulattieri dell‟interno ammettono di essere stati costretti ad abbandonare le vecchie strade. È il caso di un commerciante di tele di Bagnasco, che dal giorno in cui è stato imposto il tributo fa passare le proprie mercanzie «per quella di Bardineto» o «per quella di Ferrania»; oppure di un uomo di Massimino, solito portare il grano a Calizzano, che dice di aver spostato i suoi interessi a Millesimo. Il brusco ridimensionamento del commercio tra Finale e il retroterra piemontese e monferrino danneggia anche i patroni della Marina e di Varigotti. Uno di questi, Tomaso Sterla, lamenta che a causa del dazio un po‟ tutto il traffico è stato dirottato «nelli paesi della Repubblica di Genova, particolarmente a Savona et a Noli»; e insieme al suo “collega” Bernardo Finale conclude che l‟unica vera possibilità di guadagno rimasta ai finalesi è l‟approvvigionamento di grano per il fabbisogno locale e per il presidio. I funzionari camerali non mancano neppure di ascoltare uno dei maggiori rappresentanti dell‟élite mercantile locale, Giovanni Battista Malvasia23, il quale conferma in sostanza quanto espresso dagli altri testi, ovvero che il volume delle transazioni commerciali con il Piemonte e il Monferrato è sensibilmente diminuito. Da un po‟ di tempo a questa parte i suoi negozi starebbero attraversando una fase di stallo, mentre prima «era solito a ricevere molte mercanzie […] inviate da Livorno, Genova et altre parti»; inoltre, «doppo [che] è stato imposto detto dazio», ha visto dimezzarsi gli introiti dell‟impresa del pedaggio («non ho ricevuto la mettà delle robbe ch‟era solito ricevere»), che gestisce dall‟inizio dell‟anno24.
20 Secondo quel che suggerisce il De Avanzi, al mercato di Carcare si vendono «sete, pepe, zuccheri, lane,
zibibbo, pesci salati, oglio, formaggio, riso et tele»; e alle volte anche «legname, castagne et grano».
21 Il Gallo è uno dei testimoni più anziani (75 anni). Fra le altre cose ricorda che la questione del dazio era già
stata sollevata nel Cinquecento: «altre volte et in diversi tempi fu trattato d‟imporre detto dacio, ma maturato il negozio e considerato il danno che ne poteva seguire, come ora si vede infatti, non fu mai dalli marchesi [Del Carretto] permesso. Anzi che il duca di Mantova Vincenzo il Vecchio prettendente sopra il luogo di Calizano offerse 4.000 scudi al marchese Alessandro se permetteva l‟imposizione di detto dacio in Calizano, e che da quello fu ricusata l‟oblazione attesa la mal conseguenza che si congetturava» (ASG, Marchesato del Finale, 41).
22 ASCF, Marchesato, 3.
23 Quella dei Malvasia è una delle più facoltose famiglie di mercanti della Marina, i cui esponenti nel corso del
secolo sono costantemente presenti nei banchi del Consiglio generale del Marchesato. I Malvasia sono fra i pochi che a Finale si possano dire nobili a pieno titolo per via della concessione dei marchesi del Monferrato, che nel corso del Cinquecento li insigniscono del titolo di conti e concedono loro i feudi di Perno e Montelupo(L. ALONZO (a cura di),
I cento del Finale cit., p. 82).
24 Condizionato dalle deposizioni ricevute, anche il Presidente del Magistrato Ordinario Nicolò Leizaldi
(promotore del “sondaggio”) – seppur osservi che l‟aliquota «pare tenue» - afferma che il dazio è «pernicioso»: nella sua relazione del 22 luglio 1641 riconosce che i «200 et 300 mulattieri» che raggiungevano i mercati di Carcare e Calizzano «si sono trasportati a Savona, Noli, Toirano, Albenga», che «sono cessati tutti li traffici et essercitii con quali si sostentavano li sudditi di detto luogho», e che per questo «li patroni di barche […] saranno costretti o venderle o pure adoperarsi altrove» (ASCF, Marchesato, 3; ASCF, Marchesato, 7). Sulla gabella del pedaggio vedi il capitolo La
Tutti d‟accordo, sennonché le dichiarazioni di Giovanni Maria Malone e Andrea Francione (entrambi di Carcare) suggeriscono altri scenari davvero interessanti. Il primo enfatizza le conseguenza sociali dell‟imposizione milanese del 1638 attestando che molte famiglie sono «partite e passate ad altri paesi», ma quando fa cenno al «clamor del populo» dà voce a un malcontento che sicuramente serpeggia da tempo, specie fra i meno abbienti. Fuori dagli schemi la deposizione del secondo, secondo il quale sarebbe stato qualche «particolare» a suggerire «questa impresa di dazio alla Signoria Vostra», di sicuro non per rendere un «servizio o agiutto a questo paese, ma solo […] per ingraziarle». Forse Andrea allude ai notabili del Borgo e della Marina - che il citato Malvasia non rappresenta a dovere perché si trova direttamente implicato nella gestione della gabella del pedaggio - i quali a un certo punto, di fronte alle esigenze finanziarie improrogabili degli spagnoli, hanno probabilmente preferito che venisse imposto un tributo a Carcare e Calizzano anziché uno più generale sulla mercanzia, magari da riscuotere al Finale, crocevia dei loro traffici25. Perché le merci che si fanno passare in Piemonte e in Monferrato possono sempre prendere altre strade, mentre una tassa fissa da pagare “alla base” sarebbe di grave impiccio per l‟intero commercio locale. Ecco quindi che la decisione del Leganés assume sempre più le sembianze di un vero e proprio compromesso d‟interessi fra il governo milanese e l‟élite del Marchesato, che in questo