• Non ci sono risultati.

Il Marchesato di Finale rappresentava un serio problema per Genova fin dal tempo in cui i Del Carretto, nel 1162, ne erano divenuti signori in seguito all‟investitura dell‟imperatore Federico I. Questo piccolo Stato, con i suoi 27.000 ettari di superficie e con oltre 15.000 abitanti1, si estendeva dal mare all‟«oltregiogo»: spezzava perciò il Dominio genovese nella Riviera di ponente, minando il monopolio della vendita del sale «tra Marsiglia e Monte Argentaro» e quello del commercio con le regioni interne dei duchi di Savoia e dei marchesi del Monferrato. Ma se con i Del Carretto Genova aveva limitato i danni attraverso azioni intimidatorie e convenzioni commerciali, la questione si era fatta più delicata con l‟insediamento delle truppe del re Cattolico, che erano entrate nel Borgo – la “capitale” del Marchesato – nel 1602 al comando del capitano don Pedro de Toledo y Añaya, il futuro primo governatore del Marchesato stesso.

Come si è detto, il principale timore della Serenissima era che gli spagnoli volessero costruire un porto alla Marina di Finale (o a Varigotti) per facilitare le operazioni di imbarco e di sbarco della soldatesca. Per la stessa conformazione fisica della costa una struttura portuale avrebbe richiesto un grosso sforzo finanziario, che il re non poteva sobbarcarsi, ma le continue voci provenienti da Milano impensierivano la Repubblica, preoccupata non tanto dall‟eventuale nascita di un polo marittimo alternativo e concorrenziale, quanto dalla creazione di un varco attraverso il quale si sarebbero potuti incrementare i contrabbandi a danno del fisco. Il progetto portuale si rivelò presto un semplice spauracchio – anche se Milano e Madrid si servirono ancora a lungo del porto come arma di ricatto nei confronti dei genovesi2 – ma in ballo restavano le questioni del rifornimento di sale alla stapola locale e del pagamento delle gabelle sulle merci in entrata e in uscita dal Marchesato.

Le pretese genovesi si fondavano sul presunto dominio del mare «Ligustico», conquistato con le vittorie medievali sui «saraceni», che autorizzava la Repubblica a esigere il pagamento delle gabelle da tutti i vascelli – tanto «naturali» quanto «forastieri» - che avessero «imbarcato e sbarcato cosa alcuna sogetta a gabella in luogo alcuno del distretto fra Corvo e Monaco». Come i Del Carretto, gli spagnoli s‟impegnarono sulle prime ad acquistare soltanto sale di San Giorgio, ma presto scoppiarono controversie sul prezzo di vendita, e per un lungo periodo (a partire dal 1616) i finalesi furono autorizzati da Milano a rifornirsi per conto proprio. Aggiustata la vertenza con Madrid alla fine del 1646, i genovesi tornarono a gestire la stapola – cioè il magazzino del sale - del Marchesato, ma dovettero fare i conti con un contrabbando dilagante, tacitamente tollerato dalle autorità iberiche3. Il problema era grave, perché «la sal […] es la mayor entrada que tiene aquella

Questo capitolo è la rielaborazione di un articolo pubblicato in «Società e storia», fasc. 121, 2008 (ma 2009),

dal titolo «Al pregiudizio de la giurisdizione si aggiunge il danno pecuniario». Genova e la «piaga del Finale» nel XVII

secolo.

1 G. GIACCHERO, Il Seicento e le Compere di San Giorgio cit., pp. 99-100. Questo il dato alla fine del

Cinquecento. Più di un secolo dopo – alla fine della dominazione spagnola a Finale – la popolazione del Marchesato risultava ulteriormente incrementata: l‟informazione presentata ai Collegi il 16 aprile 1709 da Carlo Spinola rivelava che «il Marchesato di Finale era composto da vent‟una parochia, quali faranno da anime 23.000 circa» (ASG,

Marchesato del Finale, 20). Dati sul numero dei fuochi parrocchia per parrocchia alla vigilia dell‟ingresso dei genovesi

nel Marchesato in ASG, Marchesato del Finale, 41.

2 Vedi in merito il capitolo Il Finale agli occhi di Milano e Madrid: la questione del porto.

3 Sulla spinosa questione del sale si veda: E. PAPAGNA, Il problema del sale tra Genova, il Finale e la Spagna

alla fine del 600, in Genova, la Liguria e l‟Oltremare tra Medioevo ed età moderna, studi e ricerche d‟archivio, II,

Genova, Istituto di Scienze Storiche dell‟Università di Genova, 1976, pp. 435-462; G. PIGNATA-M.FRACCHIA,

Appunti sul monopolio del sale nelle controversie giuridiche tra il Marchesato di Finale e la Repubblica di Genova, in

«Atti e memorie della Società savonese di storia patria», n.s., vol. XIV, 1980; C. MARSILIO, Forza del denaro o

debolezza della diplomazia? Alcune considerazioni sulla querelle del sale di Finale e i nuovi equilibri politico- economici tra Finale, Madrid, Genova e Milano nel XVII secolo, in A. PEANO CAVASOLA (a cura di), Finale porto di Fiandra cit., pp. 233-261.

República»4: i proventi sul sale costituivano infatti uno dei pilastri della Casa di San Giorgio, e concorrevano per una ingente parte a «fare le paghe», ovvero a pagare gli interessi sui «luoghi» della Casa stessa. Inoltre Genova non voleva trovarsi di fronte a un nuovo “caso Savona”, la città che i francesi all‟inizio del Cinquecento avevano a lungo utilizzato come polo strategico per il controllo del ponente ligure, e da dove per anni avevano appunto rifornito di sale il Piemonte e la Lombardia in spregio ai diritti delle Compere5.

Anche il crescente commercio del Marchesato danneggiava le casse della Repubblica. I finalesi si consideravano sudditi di Sua Maestà Cattolica - mentre i genovesi si ostinavano a definirli «distrettuali»6 - e rifiutavano di far scalo a Genova e negli altri approdi del Dominio per denunciare il carico delle loro imbarcazioni di ritorno dai vari porti del Mediterraneo. Il danno non era solo fiscale, ma anche giurisdizionale: lo scorrazzare dei patroni del Marchesato su e giù per il mar Ligure rappresentava infatti un pessimo esempio, e avrebbe potuto spingere mercanti e naviganti di altre comunità delle Riviere a ignorare le gabelle genovesi. Senza contare il risvolto

economico della questione: il Finale aveva avviato da tempo floridi traffici con le regioni interne del

Piemonte e del Monferrato, ed era divenuto un temibile concorrente, specie nei confronti di Savona, città attraverso la quale Genova puntava a controllare quella quota di mercato. La partita era indubbiamente molto delicata per gli spagnoli, che da una parte avevano tutto l‟interesse a salvaguardare un punto d‟appoggio strategicamente importante come il presidio finalese, ma dall‟altra non potevano inimicarsi un‟alleata di vecchia data come la Serenissima – dove molti patrizi non avrebbero esitato a gettarsi fra le braccia dei francesi. Altrettanto spinosa, e pure ambigua, la situazione per Genova: la Repubblica si mostrava infatti nei contesti istituzionali (i Collegi, le Giunte e i Consigli) fortemente ostile alla navigazione dei finalesi, le cui imbarcazioni veleggiavano nel mar Ligure dirette perlopiù a Livorno (ostilità di cui i finalesi non mancavano di lamentarsi con i magistrati milanesi, ai quali chiedevano di continuo maggiore protezione)7, ma nel contempo molti patrizi non si facevano scrupolo di far passare proprio per Finale le loro merci - che in tal modo evadevano il fisco di Genova - e trovavano anzi nel notabilato finalese un ottimo

4 AGS, Estado, Milán y Saboya, 1904. Relazione del Governatore di Finale Pedro de Toledo del 12 febbraio

1614.

5 A. PACINI, La Repubblica di Genova nel XVI secolo cit., p. 341. Non a caso, la prima richiesta formulata da

Andrea Doria a Carlo V nell‟ambito degli accordi del 1528 prevedeva che «li sia concesso gratia da Dio di levar Genova dallo soggetto de suoi nemici, […] e reintegrata di tutto il Dominio e specialmente della terra di Savona». Un secolo e mezzo più tardi, pochi mesi dopo il bombardamento di Genova del maggio 1684, i francesi mireranno nuovamente a Savona per le condotte di sale al presidio piemontese di Casale (AGS, Estado, Génova, 3621. Lettera dell‟ambasciatore spagnolo a Genova don Juan Carlos Bazan del 27 settembre 1685).

6 Da parte sua Genova vantava da tempo diritti di alta signoria feudale sul Marchesato di Finale: nel 1383 il

Comune aveva infatti acquistato metà del Marchesato investendone poi gli stessi Del Carretto, in modo da ottenere la sudditanza dei marchesi stessi (che invece continuarono a riconoscere solo l‟autorità dell‟imperatore). Le rivendicazioni della Superba si basavano anche sul presunto possesso di Castel Franco, forte che i genovesi avevano costruito qualche tempo prima (intorno alla metà del Trecento) proprio per controllare Finale. Per un riassunto della questione si veda la relazione del 1561 conservata in AGS, Estado, Génova, 1391.

7 Il Consiglio generale del Marchesato nominava annualmente un oratore con il compito di trattare le questioni di

interesse comunitario a Milano (vedi il capitolo Finale nel «sistema imperiale» spagnolo: governo, giustizia e

amministrazione del Marchesato, specie alle pp. 144-145). Tuttavia, in occasione dei sequestri delle galere genovesi i

patroni del Finale si affidavano anche alle cure di procuratori privati, nella speranza di accelerare i tempi di risarcimento: così ad esempio alla fine del 1653 Francesco Sterla e Giorgio Embrume incaricarono l‟alfiere Giannettino Pastorino di portarsi in loro nome nella capitale del Ducato «per domandare, essigere et recuperare, e confessare d‟havere havuto e ricevuto da qualsivoglia persona e persone tutto quanto e quello detti costituenti devono havere e ricevere», con la facoltà di «comparire e presentarsi avanti di Sua Eccellenza [il Governatore di Milano] e dell‟Illustrissimo Magistrato Ordinario et qualsivoglia altro Regio giudice e ministro, et alla presenza di quello o quelli fare ogn‟atto necessario et opportuno». Lo Sterla, diretto a Livorno, era stato bloccato e spogliato del carico dal commissario di Portofino in luglio; l‟Embrume aveva subito una sorte analoga in ottobre, mentre da Napoli stava rientrando con la sua barca carica di grano. Si affida alle cure del Pastorino anche patron Bernardo Firpo di Pia, fermato in quello stesso anno all‟altezza di Portofino mentre veleggia «per Livorno e più oltre in Maremma» (ASS, Notai

partner d‟affari. Per tutto il secolo XVII è un susseguirsi di prede marittime, di ambasciate “riparatrici”, di lettere, relazioni, e anche di reciproche rappresaglie8.

Nel 1675, dopo anni di tentativi volti ad ostacolare le imbarcazioni dei patroni finalesi, gli uomini di governo della Serenissima riconoscevano la vivacità dell‟economia del Marchesato: «poiché pagano pochi aggravi d‟imposizione nel loro commune», i mercanti locali «puonno praticare la negoziazione con grandissimi vantaggi». Non molto tempo prima (1667), ormai quasi rassegnato, il consigliere Paolo Geronimo Franzone aveva definito il Finale la «piaga […] nel nostro Domino»9, «un taglio per così dire al braccio». E pensare che il problema si era fatto grave proprio per colpa del potente alleato spagnolo: come si legge in un altro documento – privo di data – «doppo che in quel luogo sono entrati i ministri [del re Cattolico] si è introdotto colà poco a poco un traffico vivo di più sorte di vascelli, […] estraendo et introducendo merci»10. Genova destinò galere dello stuolo pubblico a perlustrare le acque della Riviera di ponente, elaborò strategie liberiste a favore delle comunità del suo Dominio, incentivò la mobilitazione di uomini e capitali per sottrarre al Finale mercati e traffici. Tutte contromisure in grado di limitare i danni più che di risolvere la questione. D‟altra parte, quello del Marchesato era un territorio posto entro i confini dello Stato genovese, ma sottoposto ad altrui giurisdizione; e fintanto che gli spagnoli avessero continuato ad applicare tariffe doganali vantaggiose per le merci in entrata e in uscita, molti avrebbero trovato conveniente vendere e comprare a Finale. Eppure, non era lo sviluppo degli scambi sulle spiagge finalesi ad impensierire più di tanto la Repubblica. Già nell‟ottobre 1608 l‟ambasciatore spagnolo Juan de Vivas mostrava di aver capito il bluff dei genovesi, i quali «atribuyen todo este daño» - cioè la riduzione dei traffici - «a lo que pasa por el Final, bien que en verdad es pequeña parte», anche perché «aquel Estado [cioè il Marchesato] no tiene vaxeles de ninguna conbsideración»11. E cinquant‟anni dopo (luglio 1667) anche il patrizio Nicolò Spinola riconosceva che i «vascelli di così tenue portata non possono condur merci né d‟Inghilterra, né d‟Olanda, né di Fiandra, né di Spagna, li traffichi di quali Reami sono [gli unici] di qualche escenziale incremento»12. Quello finalese era insomma un commercio molto florido e in crescita, ma pur sempre di cabotaggio, fatto essenzialmente di piccole transazioni.

Se il Marchesato non aveva la possibilità di entrare in competizione con Genova nel controllo dei traffici mediterranei, il mancato introito dovuto al contrabbando finalese comportava tuttavia un danno consistente per i magri bilanci genovesi: San Giorgio ricavava dal sale e dai «carati maris»13 circa un terzo dei suoi utili, e da questi apporti fiscali dipendeva in buona sostanza l‟equilibrio finanziario e sociale della Repubblica14. Un anonimo libello tardo-cinquecentesco sulle «ragioni che

8 Soprattutto da parte di Milano per la verità. Le rappresaglie consistevano in sequestri temporanei dei beni e

delle rendite dei cittadini genovesi, decretate per risarcire patroni e mercanti finalesi vittime delle ammende e delle requisizioni da parte dei commissari di San Giorgio. Il caso più eclatante fu quello delle rappresaglie «generali» del 1654-55, che colpirono anche le finanze dei genovesi nel Regno di Napoli e in Sicilia (si veda in proposito il capitolo successivo Una schermaglia di antico regime: la “partita” del Finale fra Genova, Milano e Madrid).

9 ASG, Marchesato del Finale, 12. Il Franzone – allora membro del Minor Consiglio - non era il primo ad

utilizzare questa espressione: nelle Historiae di Oberto Foglietta – scritte nel 1585 su incarico del governo della Repubblica - Finale è detta infatti «l‟anticha piaga della Liguria».

10 ASG, Marchesato del Finale, 6. Lo ammettono anche gli stessi finalesi. Esplicita in questo senso una relazione

degli stanzieri del Marchesato (anch‟essa priva di data): «è notorio che prima che questo Stato venisse alle mani di Sua Maestà Cattolica era la Marina abitata da poveri pescatori e barcheroli», mentre «ora [è] acresciuta da habitatori che sono per la gran parte forastieri» (ASCF, Marchesato, 4).

11 AGS, Estado, Génova, 1434. 12 ASG, Marchesato del Finale, 86.

13 Prima imposta riscossa dal Comune di Genova, costituivano il diritto doganale per eccellenza, e colpivano

anche le merci che arrivavano via terra. A sorvegliare sulle eventuali infrazioni stava un apposito «Officium caratorum», che in buona sostanza monitorava la vita commerciale della Superba.

14 G. GIACCHERO, Il Seicento cit., p. 414. Nel testo di un decreto approvato il 20 maggio 1675 i Protettori

sottolineavano che «l‟esigenza delle gabelle è assolutamente necessaria come quella nella quale consiste il maggior capitale per lo mantenimento della Serenissima Repubblica e della libertà» (ibidem, p. 581-582). In questo senso non poteva essere più chiara una relazione – sempre di San Giorgio – di qualche anno prima (5 settembre 1663): «la Serenissima Repubblica deve haver desiderio et la precisa necessità di acquistare il detto Stato [di Finale] non tanto per

devono movere i genovesi a fare ogni opera perché Finale non caschi nelle mani del re Cattolico», scritto evidentemente per incalzare il ceto dirigente della Serenissima, annunciava – con toni invero apocalittici – che con l‟ingresso degli spagnoli nel Marchesato «le nostre gabelle s‟indeboliranno, et se vorrete accrescerle i nostri sudditi già impoveriti […] si metteranno in disperazione, vi saccheggeranno le case o vi caccerà il popolo dalla Città»15. Una lettera scritta a corte il 29 gennaio 1602 – pochi giorni dopo l‟insediamento del primo Governatore spagnolo – segnalava «el mucho rezelo» circolante in città «de que aya Vuestra Magestad de divertir por la via del Final las rentas desta Republica»16. E nell‟ottobre 1668, come a tracciare il bilancio di decenni di insuccessi, i genovesi prendevano atto che «sono le gabelle et introiti così spettanti alla Camera Eccellentissima come alle Compere dell‟Illustrissima Casa di San Giorgio sopra modo diminuite dal traffico introdotto nel Marchesato di Finale»17. Il fatto più grave era che lungo la scala finalese non si smerciavano soltanto i prodotti che scendevano dal Piemonte e le poche «robbe» di produzione locale (canapa, legname, olio, vino), destinate ad alimentare gli scambi con le comunità limitrofe; dalla metà del secolo avevano fatto la loro comparsa anche merci strettamente controllate dai ricchi trafficanti genovesi, che facevano la ricchezza della Superba e garantivano la sopravvivenza economica delle valli che la collegavano alla bassa Lombardia: come la seta siciliana, che proprio gente come i genovesissimi Giovanni Carlo Serra, Eugenio Durazzo, Lazaro Maria Doria, Vincenzo Spinola e il nipote Francesco – con corrispondenti a Messina (dove la materia prima veniva estratta) e a Livorno (dove faceva scalo prima di approdare in Liguria) – facevano passare da Finale per condurla a Lione, in Francia.

Oltre a combattere le frodi, Genova doveva difendere il possesso del territorio, e in fin dei conti la propria stessa reputazione. Non c‟erano forse i diplomi imperiali a riconoscere i genovesi padroni del tratto di costa tra il promontorio del Corvo e l‟enclave di Monaco? La Superba non derogava su questo punto: chiunque navigasse nelle acque del mare «Ligustico» o volesse approdare su una delle spiagge delle due Riviere doveva far capo a Genova (e sottostare alle sue imposizioni), e i finalesi – per quanto sudditi di un altro Principe – avevano da adeguarsi come tutti gli altri. Per uno Stato cittadino sostanzialmente debole come quello genovese, che esercitava la sua autorità su un territorio esiguo e disunito, il dominio sul mare che lo bagnava rappresentava uno strumento di pressione e assicurava spazi di manovra internazionale (e soprattutto di che vivere ai suoi abitanti). Quando, nell‟ottobre 1643, i Collegi scrivevano all‟ambasciatore a Madrid Costantino Doria per informarlo dei nuovi progressi del contrabbando finalese, esordivano lamentando il danno per l‟erario («crescono ogni [giorno] di più li pregiudizi che in materia de‟ sali riceviamo dal Finale, ove non più con piccioli vascelli e di rado, et in poca quantità (come prima seguiva) se ne conducono qualche pochi, ma con navi poderose e ben armate»), ma non tralasciavano di rimarcare che «a questo danno va in conseguenza congiunto il perdimento del rispetto et [lo] sprezzo che usano li ministri di Sua Maestà, mentre con la continuazione degli atti son violati i nostri privilegi tanto chiari»18. Per far fronte a questo tipo di minaccia servivano le maniere forti, e Genova – come vedremo – non si tirò indietro. Anzi, la linea dura nei confronti dei patroni del Marchesato era solitamente quella che raccoglieva la maggior parte dei consensi, e venne perseguita a più riprese senza riserve. Ma è anche vero che cannoneggiare delle imbarcazioni di piccola stazza e sequestrar loro le merci raccolte nelle stive era senza dubbio più facile rispetto a studiare soluzioni di tipo economico e fiscale, che invece richiedevano «maggiore estensione di

dilattare il suo Dominio quanto per schivar li danni rovinosi che in materia di gabelle può causarli l‟ampliazione del traffico e il traffico di quel luogo» (ASG, Banco di San Giorgio, Gabelle, 2921).

15 AST, Paesi, Genova, Riviera di Genova-Finale, mazzo 3. 16 AGS, Estado, Génova, 1431.

17 ASG, Marchesato del Finale, 12.

18 ASG, Archivio segreto, 1904. Come si legge in un documento genovese privo di data – ma della seconda metà

del XVII secolo - «quando si è ritrovata alcuna barca de finarini haver contraffatto a ordini de commerci […] è stato solito condannarsi e confiscarsi la barca e merci non per avidità delli utili che se ne cava ma per mantenimento del possesso che tanto importa» (ASG, Marchesato del Finale, 12).

viste», e costringevano il patriziato di governo a mettere in discussione la tradizionale politica commerciale nei confronti del Dominio.

Insomma, quello del Finale costituiva un problema molto complesso, che mise per più di un secolo Genova di fronte a scelte difficili, e fu motivo di continue discussioni con il potente alleato spagnolo, da parte sua poco disposto a tollerare che le piccole barche dei suoi sudditi finalesi fossero maltrattate nei porti liguri. Perciò non ci deve stupire che in seno ai Consigli e ai Collegi genovesi, tanto alla fine del Cinquecento quanto all‟inizio del Settecento, ci fosse chi non vedeva altra soluzione che quella di comprare il Marchesato: era forse la più semplice, di sicuro la più rapida, e alla fine si rivelò l‟unica davvero percorribile.

Nel maggio 1619 alcuni anziani cittadini genovesi «deposuerunt in substancia ut infra»:

Che le gabelle e commerci della presente città si estendevano et havevano il loro introito per conto delle robbe e merci e vettovaglie che si trafficavano nella spiaggia e sua giurisdizione di Finale, e che in detta spiaggia di Finale non si faceva porto da vascelli, e detto luogo rispetto alle gabelle e commerci restava nel grado di tutti gli altri luoghi che sono nel distretto del Dominio della Repubblica, e che quando alle volte alcuno ha contravenuto alli ordini e consuetudini di detti caratti e gabelle con far porto in detta spiaggia o da esso luogo spedir merci et introdurle senza il consenso e licenza delli Governatori di detti caratti e gabelle, essere stati processati, puniti e castigati19.