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Il cane e l’uomo nella cultura romana

Che lo ius fosse per i romani qualcosa che la natura ha “istituito” nei riguardi di tutti gli animalia, come abbiamo visto, era chiaro ad Ulpiano. È lo stesso giureconsulto a ratificare che tale diritto non è esclusivo del genere umano, ma appartiene a tutti gli esseri dotati di un’anima che nascono in cielo, in terra e in mare:

Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.1

Confluito nel Digesto, tale assunto porta all’osservazione che l’imperatore Giustiniano si era preoccupato di porre in maniera prominente la premessa che l’uomo e l’animale, o meglio, l’uomo e gli altri animalia condividono il medesimo ius naturale. Stesso presupposto si trova in posizione di rilievo nelle Institutiones del Corpus iuris

civilis giustinianeo:

Ius naturale est quod natura omnia animalia docuit. nam ius istud non humani generis proprium est, sed omnium animalium, quae in caelo, quae in terra, quae in mari nascuntur. hinc descendit maris atque feminae coniugatio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio et educatio: videmus etenim cetera quoque animalia istius iuris peritia censeri.2

La cultura romana – influenzata dal dibattito aristotelico e pitagorico sulla condizione morale e giuridica degli animali – giunge infatti, sulla base dell’individuazione delle caratteristiche vitali e della preziosità degli animali da lavoro, ad un’impostazione della “questione animale” in termini assai originali. Prima ancora di Ulpiano, era stato il giurista Gaio a menzionare il cane nel diritto romano. Lo sappiamo attraverso il tramite del Digesto, e in questo passo Gaio tratta del canis per specificare che questo quadrupede non rientrava tra i pecudes:

1

D. 1, 1, 1, 3 (ULP. 1 inst.).

2

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Ut igitur apparet, servis nostris exaequat quadrupedes, quae pecudum numero sunt et gregatim habentur, veluti oves caprae boves equi muli asini. sed an sues pecudum appellatione continentur, quaeritur: et recte Labeoni placet contineri. sed canis inter pecudes non est. longe magis bestiae in numero non sunt, veluti ursi leones pantherae. elefanti autem et cameli quasi mixti sunt (nam et iumentorum operam praestant et natura eorum fera est) et ideo primo capite contineri eas oportet.3

I pecudes erano bestiame comunemente utilizzato come supporto al lavoro umano. Mentre il cane era escluso da questo gruppo in quanto non direttamente produttivo, non

utile alla produzione di cibo e non mansueto in assoluto4. Gaio tratta dunque del cane nel

libro VII, ad edictum provinciale, del Digesto, e troviamo informazioni nelle Institutiones del Corpus iuris civilis:

Capite tertio de omni cetero damno cavetur. Itaque si quis servum, vel eam quadrupedem quae pecudum numero est, vulneraverit, sive eam quadrupedem quae pecudum numero non est, veluti canem aut feram bestiam, vulneraverit aut occiderit, hoc capite actio constituitur.5

Anche Giustiniano intende il cane come animale non facente parte dei pecudes. Con il termine pecudes, dunque, si intendevano tutti quegli animali ritenuti fondamentali nel sistema alimentare dell’uomo. I pecudes rientravano, per questo motivo, nelle res

mancipi. Nell’ambito dell’economia del mondo romano, sicuramente in epoca

predecemvirale6, vennero identificate delle categorie di tutti quei beni che potevano essere

oggetto della proprietà dei cives. È in questa maniera che nacque l’antica divisione tra res

mancipi e res nec mancipi. I beni connessi alla vita agricola rientrarono tra le res mancipi.

Questi beni godevano di una maggiore rilevanza economica e sociale, rispetto a quelli

3

D. 9, 2, 2, 2 (GAI. 7 ad ed. provinc.). Cfr. A. ERNOUT –A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots cit. s.v. pecus: il termine ha una doppia valenza indicando principalmente

gli ovini e «designet indifféremment le gros et le petite bétail, les animaux domestiques par opposition à

ferae». La stretta connessione di questo termine con un concetto “economico” pare confermata dalla

circostanza assodata che vede in pecus l’origine etimologica di pecunia, e dal fatto che l’originario significato del termine possa essere ravvisato in «richesse en bétail». Successivamente, si sarebbe

sviluppato il concetto di ricchezza e poi di denaro ad esso vincolato. Si veda il contributo di F. GNOLI, Di

una recente ipotesi sui rapporti tra “pecus”, “pecunia”, “peculium” cit., pp. 204-218. 4

Cfr. P.P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano cit., per

l’accurata analisi storico-giuridica; M. POLOJAC, L’actio de pauperie ed altri mezzi processuali nel caso di

danneggiamento provocato dall’animale nel diritto romano, «Ius Antiquum», 8 (2001)

[http://www.dirittoestoria.it/iusantiquum/articles/N8Polojac.htm].

5

Inst. 4, 3, 13.

6

Si può constatare l’esistenza di questo concetto già all’interno delle XII Tavole, come in tab. V, 2: «Mulieris, quae in agnatorum tutela erat, res mancipii usucapi non poterant [...]», cfr. Fontes Iuris Romani

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che, pur avendo un valore economico rilevante, erano di natura voluttuaria ma che non

incidevano sulla sopravvivenza del nucleo familiare7. Gli schiavi, gli strumenti inanimati

di produzione e gli animali che – in maniera maggiore – erano di ausilio alla

sopravvivenza dell’uomo facevano dunque parte dei beni mancipi8. Questi beni erano utili

nella coltivazione dei campi oppure erano essi stessi oggetto dell’allevamento e quindi fonte di materie prime in forma diretta. I pecudes appartenevano a quest’ultima categoria di beni “viventi” nella quale rientravano non solo gli ovini, ma anche suini, bovini ed equini.

I canes rientrano tra gli interessi classificatori di Gaio proprio in quanto animali che ben si differenziano da quelli appena elencati. Dopo avere citato il parere di Labeone († 10-11 d.C. ca.), il giurista ufficializza la natura dei canes come non simile a quella dei

pecudes9. La Lex Aquilia – un plebiscito votato, probabilmente, nel 287 a.C. –, per quanto

concerne la questione dell’applicabilità al cane dei provvedimenti del primo capo di tale legge (in tema di lesione mortale subita da un animale), rivela le particolarità del canis nello ius romanum10. Gaio, per spiegarci quali animali possano essere assimilati per importanza ed utilità agli schiavi, enumera – sempre in D. 9, 2, 2, 2 – innanzitutto i quadrupedi per poi lanciarsi in una descrizione che, sebbene sicuramente dovesse essere funzionale alla memorizzazione del concetto da parte dei suoi studenti, ci saremmo aspettati più da un “etologo” che da un giurista. Il giureconsulto identifica i pecudes come

7

Cfr. P. BONFANTE, Corso di diritto romano cit., p. 204.

8

F. GALLO, Studi sulla distinzione fra res mancipi e res nec mancipi cit., pp. 87 sgg.

Queste pagine, in particolare, commentano il famoso GAI., 2, 18-22 traendo le proprie conclusioni a partire

dalle tesi sostenute in precedenza da P. Bonfante e F. De Visscher. Inoltre, si veda: G. NICOSIA, Animalia

quae collo dorsove domantur, «Iura», 18 (1967), pp. 45 sgg. 9

P. BIRKS, A Pointof Aquilian Pleading, «Iura», 36 (1985), p. 99: «‘Pecudes’. This concerns the relationship between the two chapters. The line between ‘pecudes’ and ‘non-pecudes’ was never very clearly drawn, which is strange in itself. A dog definitely was not a pecus. From the start a killed dog could not fall under chapter I. It was either a chapter III case or it was not an Aquilian case at all. But it was decided that it did fall within chapter III. There was doubtful cases».

10

Si ritiene infatti inapplicabile la disciplina del primo capo della Lex Aquilia, comportando che la quantificazione del valore massimo dell’animale non possa essere ricercata nel lasso temporale dei trecentosessantacinque giorni precedenti al momento dell’avvenuta lesione ma, applicando esclusivamente il terzo capo della stessa legge, può essere commisurata a quella massima toccata nell’ultimo mese. D. 9, 2,

21pr. (ULP. 18 ad ed.): «Ait lex: (capite primo) ‘quanti is homo in eo anno plurimi fuisset’. Quae clausula

aestimationem habet damni, quod datum est»; D. 9, 2, 23, 3 (ULP. 18 ad ed.): «Idem Iulianus scribit

aestimationem hominis occisi ad id tempus referri, quo plurimi in eo anno fuit […]»; GAI., 3, 218: «Hoc tamen capite non quanti in eo anno, sed quanti in diebus XXX proxumis ea res fuerit, damnatur […]. Sabino placuit proinde habendum ac si etiam hac parte ‘plurimi’ verbum adiectum esset; nam legis latorem contentum fuisse, quod prima parte eo verbo usus esset». In merito, va però notato il fatto che, rispetto ai cani, i pecudes subivano di certo maggiori variazioni di valutazione all’interno dei periodi dell’anno in

relazione, per esempio, alla loro produzione di lana. Si veda, in merito, il passo di GAI., 2, 15: «Sed quod

diximus ea animalia, quae domari solent, mancipi esse, [...] statim ut nata sunt, mancipi esse putant; Nerva vero et Proculus et ceteri diversae scholae auctores non aliter ea mancipi esse putant quam si domita sunt; et si propter nimiam feritatem domari non possunt, tunc videri mancipi esse incipere, cum ad eam aetatem pervenerint, in qua domari solent».

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i quadrupedi soliti alla vita gregatim, per alludere alle abitudini sociali, di gregge o branco, di questi animali. Pur non rientrando tra gli animali produttivi, sono due gli aspetti da analizzare come presupposti per comprendere la ragione concreta per la quale i

canes abbiano ricevuto, e meritato, una disciplina differente ed esclusiva rispetto agli altri

animali. I pecudes trovano posto accanto all’uomo in varie attività lavorative quotidiane, e in relazione alla produzione diretta e indiretta di cibo. La prima forma di produzione si esplica nella macellazione dei capi di bestiame, mentre, la seconda nell’impiego degli animali come forza lavoro a supporto degli agricoltori, o per la produzione di materie prime. Dal punto di vista comportamentale dobbiamo poi evidenziare una caratteristica specifica di questi animali da lavoro, che si dimostrano – nella maggioranza dei casi – più importanti del cane. La particolarità degli animali da lavoro risiede nella loro indole normalmente mansueta che permette loro di essere più facilmente asservibili e, dunque, pregiati in vista della loro finalità produttiva. Tenendo presente tali considerazioni, è possibile individuare una maggiore coerenza e logicità nell’elencazione effettuata dal giurista Gaio in D. 9, 2, 2, 2. Qui, da un lato vengono identificati animali mansueti e produttivi, dall’altro quelli feroci – anche se allevati, ma con scopi diversi quali quelli militari o per il divertimento dei cittadini nei ludi o nelle venationes –, ed anche improduttivi.

La stessa difficoltà che i giuristi incontravano nella classificazione degli elefanti, molto utili nel trasporto dei carichi in alcune regioni dell’impero, e la necessità di ricorrere all’autorevole parere del giurista Labeone in merito ai sues, per far prevalere la loro utilità alimentare rispetto ad un’indole non propriamente mansueta, sembrano conferme delle ragioni sottostanti alla qualificazione culturale di queste diverse categorie di animali.

Se in relazione ai suini pare esserci indecisione, tutt’altro dimostra Gaio nei confronti dei cani, i quali con la formula sed canis inter pecudes non est vengono esclusi in maniera lapidaria dai pecudes. Le motivazioni sono abbastanza evidenti in quanto essi non sono né direttamente produttori di cibo, né mansueti in assoluto, benché possano essere asserviti allo scopo produttivo fino ad essere strumenti preziosi nella pastorizia e nell’allevamento di altre specie. D’altro canto i canes non sono animali selvatici, né sono normalmente pericolosi per l’essere umano. Tuttavia, mediante pratiche di addestramento finalizzate a mettere in risalto alcuni caratteri innati – quali la territorialità e l’aggressività – possono essere impiegati sia a scopo di difesa di persone o luoghi, sia, come vedremo, di offesa.

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Per concludere il discorso circa la varietà delle sue possibili utilizzazioni, dobbiamo ricordare che il cane veniva allevato – e del resto, anche animali più esotici, come i dracones che erano grossi serpenti privi di veleno, o feroci felini – a scopo di ostentazione, e al fine di dimostrare la ricchezza del proprietario. Pare infatti che fosse abbastanza comune, fra quelle persone che non potevano permettersi animali costosi ma che desideravano sentirsi osservati, fare ricorso allo sfoggio di particolari esemplari di

canes dagli accentuati caratteri di aggressività11.

Le due azioni di maggior rilievo, ossia l’actio de pauperie e quella derivante dalla

Lex Aquilia, sono state analizzate dai giuristi romani di età repubblicana. Ma riteniamo

che le stesse affondino le proprie origini ancora più indietro nella storia, come dimostrerebbe – per la prima azione – l’esistenza del concetto di pauperie nelle XII Tavole, secondo l’attestazione tramandataci da Ulpiano nel frammento posto in apertura del titolo si quadrupes pauperiem fecisse dicetur12. Inoltre, è notevole il fatto che l’elaborazione culturale sia rimasta materia viva e – specialmente in merito alla Lex

Aquilia – in costante fermento e sviluppo per numerosi secoli. Fra i provvedimenti,

l’unico con un’origine molto incerta è il cosiddetto edictum de feris ma, malgrado ciò, sarebbe ipotizzabile una sua vigenza in età repubblicana13, forse addirittura nel periodo immediatamente successivo alle guerre annibaliche (dopo il 202 a.C.), in relazione alle incrementate esigenze di sicurezza per l’arrivo a Roma della moda di esibire e condurre per le vie della città animali feroci14.

I canes non appartenevano insomma alla categoria economica e sociale delle res

mancipi15, beni dei cives, come appunto pecudes e gli schiavi. Il cane, rispetto alla classificazione dei quadrupedes, assume nella cultura romana una posizione “di mezzo” tra animale domestico e “semi-domestico” poiché non idoneo alla rendita, ma asservibile, quindi non feroce come un selvatico ma in un certo senso adattabile all’utile. Ma l’incertezza relativa allo status del cane si protrasse nel corsi dei secoli successivi, tantoché nella prima metà del XIII secolo il giureconsulto Accursio, nelle sue glosse al

Corpus iuris civilis, giunse a definire il cane come una sorta di tertium genus tra categorie

animali, in cui si includessero quelli selvatici:

11

Cfr. G. POLARA, Le “venationes”. Fenomeno economico e costruzione giuridica, Milano 1983, pp. 60 sgg.

12

Cfr. D. 9, 1, 1pr.

13

Iniziò il 509 a.C. e terminò – de facto – il 16 gennaio del 27 a.C.

14

Cfr. G. POLARA, Le “venationes”. Fenomeno economico e costruzione giuridica cit., pp. 60 sgg.; F.

CASAVOLA, Studi sulle azioni popolari romane. Le “actiones populares”, Napoli 1958, p. 160

15

Cfr. F. GALLO, Studi sulla distinzione fra res mancipi e res nec mancipi cit., pp. 87 sgg. Cfr. D. 9, 2, 2, 2 (GAI. 7 ad ed. provinc.).

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Et mansueta dicunt, quae gregatim pascuntur: unde secundum hoc canis non est in numero ferarum, nec mansuetorum. Nam maior pars canum non mordet, et maior pars non gregatim pascuntur, sed videt etiam quod in his feris locum habeat haec actio […].16

A parte la casistica sui danni provocati dai canes, che analizzeremo in maniera specifica in relazione alle leggi dei barbari, il cane viene menzionato in una probabile trascrizione, che Ulpiano offre, di un lungo brano del giurista Sesto Pomponio (ca. II sec. d.C.) e che ci illumina su un tipico contesto rurale, quello del sistema delle villae, proprio di una “economia della selva” in cui un ruolo fondamentale era svolto dall’allevamento brado o semibrado dei suini17. A questa attività era annessa la presenza di cani per la conduzione e la custodia del bestiame. Nel brano in questione è descritto il caso in cui vengono sottratti dei porcellini di un tale da parte di alcuni lupi. Il colono di una villa vicina si attiva cum robustis canibus et fortibus per raggiungere i predatori e per recuperare la preda estorta. Il colonus e i suoi cani riescono nell’obiettivo. Si poneva dunque all’attenzione del giurista il problema dell’acquistata proprietà da parte del soggetto che aveva recuperato i porcellini:

Pomponius tractat: cum pastori meo lupi porcos eriperent, hos vicinae villae colonus cum robustis canibus et fortibus, quos pecoris sui gratia pascebat, consecutus lupis eripuit aut canes extorserunt: et cum pastor meus peteret porcos, quaerebatur, utrum eius facti sint porci, qui eripuit, an nostri maneant: nam genere quodam venandi id erant nancti. cogitabat tamen, quemadmodum terra marique capta, cum in suam naturalem laxitatem pervenerant, desinerent eorum esse qui ceperunt, ita ex bonis quoque nostris capta a bestiis marinis et terrestribus desinant nostra esse, cum effugerunt bestiae nostra persecutionem. quis denique manere nostrum dicit, quod avis transvolans ex area aut ex agro nostro transtulit aut quod nobis eripuit? si igitur desinit, si fuerit ore bestiae liberatum, occupantis erit, quemadmodum piscis vel aper vel avis, qui potestatem nostram evasit, si ab alio capiatur, ipsius fit. sed putat potius nostrum manere tamdiu, quamdiu reciperari possit: licet in avibus et piscibus et feris verum sit quod scribit. idem ait, etsi naufragio quid amissum sit, non statim nostrum esse

16

GLOSSA, Contra naturam (1, 4, 9pr.).

17

Cfr. E. STOLFI, Studi sui “Libri ad edictum” di Pomponio. II. Contesti e pensiero cit., pp. 517-518.

L’autore dell’articolo faceva riferimento agli studi di A. GIARDINA, La produzione del testo, in Lo spazio

letterario di Roma antica, vol. I, Roma 1993, pp. 421-422. Si veda dunque: A. GIARDINA, L’Italia romana: storie di un’identità incompiuta, Roma-Bari 1997, 20043, pp. 139 sgg. Il richiamo al vicinae villae colonus è decisivo per l’individuazione di una tipologia di sfruttamento agrario, peraltro non priva di riscontri nelle trattazioni agronomiche da Marco Terenzio Varrone (ossia secc. II-I a.C.) in poi.

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desinere: denique quadruplo teneri eum qui rapuit. et sane melius est dicere et quod a lupo eripitur, nostrum manere, quamdiu recipi possit id quod ereptum est. si igitur manet, ego arbitror etiam furti competere actionem: licet enim non animo furandi fuerit colonus persecutus, quamvis et hoc animo potuerit esse, sed et si non hoc animo persecutus sit, tamen cum reposcenti non reddit, supprimere et intercipere videtur. quare et furti et ad exhibendum teneri eum arbitror et vindicari exhibitos ab eo porcos posse.18

Questo brano è interessante perché con l’ereptio res nullius19, cioè uscendo dalla

sfera di controllo da parte dell’uomo – come l’animale selvatico catturato che sfugge al cacciatore – i porcellini potevano essere acquisiti dal vicino colono, se risultavano non

recuperati dal legittimo proprietario20. L’immagine che deriva da questo passo di

Pomponio è quello di una natura addomesticata con fatica, topos della letteratura rei

rusticae21, in cui l’uomo necessitava di diversi mezzi ed espedienti per proteggere se stesso e i suoi beni. Per non uscire perdente o soccombere in questa lotta – e, come il

colonus del brano, per recuperare beni altrui a danno di chi era meno scaltro – si muniva

di tutti i mezzi possibili, come di quei canes fortes e robusti. Un canis villaticus o il

pecuarius canis di cui scrive Columella potevano essere esemplari assolutamente adatti a

quel compito di villae horreique custos citato nel brano di Pomponio22:

[3] De villatico igitur et pastorali dicendum est, nam venaticus nihil pertinet ad nostram professionem. Villae custos eligendus est amplissimi corporis, vasti latratus canorique, prius ut auditu maleficum, deinde etiam conspectu terreat et tamen non numquam nec visus quidem horribili fremitu suo fuget insidiantem. Sit autem coloris unius, isque magis eligitur albus in pastorali, niger in villatico, nam varius in neutro est laudabilis. Pastor album probat, quoniam est ferae dissimilis, magnoque opus interdum discrimine est in propulsandis lupis sub obscuro mane vel etiam crepusculo, ne pro bestia canem feriat. [4] Villaticus, qui hominum maleficiis opponitur, sive luce clara fur advenit, terribilior niger conspicitur, sive noctu, ne conspiciatur quidem propter umbrae similitudinem, quam ob rem tectus tenebris canis tutiorem adcessum habet ad insidiantem. Probatur quadratus potius quam longus aut brevis, capite tam magno, ut

18

D. 41, 1, 44 (ULP. 19 ad ed.).

19

Cfr. E. STOLFI, Studi sui “Libri ad edictum” di Pomponio. II. Contesti e pensiero cit., p. 514.

20

Cfr. D. 41, 1, 44 (ULP. 19 ad ed.): «Si igitur desinit, si fuerit ore bestiae liberatum, occupantis erit,

quemadmodum piscis vel aper vel avis, qui potestatem nostram evasit, si ab alio capiatur, ipsius fit. sed putat potius nostrum manere tamdiu, quamdiu reciperari possit: licet in avibus et piscibus et feris verum sit quod scribit. idem ait, etsi naufragio quid amissum sit, non statim nostrum esse desinere: denique quadruplo teneri eum qui rapuit».

21

Cfr. E. STOLFI, Studi sui “Libri ad edictum” di Pomponio. II. Contesti e pensiero cit., p. 519.

22

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corporis videatur pars maxima, deiectis et propendentibus auribus, nigris vel glaucis