Gli Scritti letterari, artistici, linguistici e vari di Carlo Cattaneo costituiscono una fonte assai poco esplorata, ma significativa, non solo perché raccolti e ordinati da un curatore rilevante co- me Agostino Bertani. Da un esame complessivo dei testi, infatti, è possibile ricostruire le influenze culturali esercitate su Catta- neo dalle più avanzate riflessioni proposte dagli intellettuali eu- ropei della sua epoca.
Ad esse, sono dedicati articolati saggi e puntuali recensioni che testimoniano la specifica attenzione che «Il Politecnico» ri- volge alla cultura umanistica, non contrapposta ma integrata armonicamente a quella scientifica, in coerenza con la vocazio- ne multidisciplinare della rivista e del suo principale promotore e redattore. Come ha sottolineato Giuseppe Tognon (2002: 42), Cattaneo si dimostra «sensibilissimo alla dimensione culturale nella spiegazione della nascita e della caduta dei popoli e delle civiltà; paladino della linguistica che unisce anziché dividere, irriducibile ad ogni poligenismo razziale e culturale; sostenitore insomma di un’idea di civiltà a base cognitivistica».
La letteratura europea offre a Cattaneo un panorama ricco e variegato che nutre e rafforza la sua visione federalistica di am- pio respiro, permettendogli di attingere alle più elevate espres- sioni di prosa e poesia, con un raffinato approccio critico attra- verso il quale porre in evidenza, oltre agli aspetti propriamente artistici e letterari, i nessi sociali e politici, di sua più diretta competenza.
2. Filippo e Carlo di Spagna
L’invito alla lettura degli scritti di critica letteraria di Carlo Cattaneo, recepito solo in parte, era stato formulato da Mario Fubini: essi, seppur marginali rispetto agli altri testi politici, storici, economici, «non si possono considerare come scritti
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d’occasione, estranei a quel pensiero che altrove ha il suo cen- tro, ma che si riflette anche in queste pagine e in esse ci ri- chiama più di una volta qualcuno dei suoi motivi prediletti» (Fubini 1953 [1942]: 170). In effetti, appare opportuno soffer- marsi su questi testi, nella duplice funzione che caratterizza il rapporto dei patrioti con la letteratura, da loro sempre intesa in chiave civile, come conforto nelle difficoltà delle imprese patriot- tiche e come sprone a realizzarle.
L’articolo su Don Carlo (Scritti letterari – SL - : I, 11-59) viene scritto da Cattaneo nel 1842, in occasione dell’uscita della ver- sione di Andrea Maffei1 dell’opera di Friedrich Schiller, Don Kar-
los, Infant von Spanien, tragedia in cinque atti rappresentata
per la prima volta ad Amburgo il 29 agosto 1787, nella quale il tema centrale si rivela l’antitesi tra gli aneliti di libertà e l’assolutismo, intransigente e nichilista, del re Filippo II2.
Nel 1568, il sovrano iberico, con ben diversa idealità pubbli- ca rispetto al democratico Bruto minore di Leopardi3, si trova di fronte alla scelta tra l’affetto genitoriale e le fredde esigenze del- la politica, ma il propendere per assecondarle non è costellato dall’intimo turbamento e dal sincero dolore, mostrato dal Cesa- ricida descritto dal poeta di Recanati:
Fra le tragiche avventure della vicina età, nessuna è tanto atta a de- star terrore e meraviglia quanto la misteriosa e sciagurata fine dell’infante Carlo di Spagna. Figlio del più potente e temuto principe d’Europa, unico erede suo nei dominii dei due mondi, successore rico- nosciuto con solenne giuramento delle Cortes di Toledo, promesso consorte prima alla figlia del re di Francia, poi a quella dell’imperator
1 Andrea Maffei (1798 - 1885) frequenta l’università di Monaco di Baviera, dove
lo zio Giuseppe Maffei tiene la cattedra di letteratura italiana. L’esperienza gli consente, al ritorno, di distinguersi come traduttore. Apre il suo salotto ai maggiori intellettuali, dando vita al famoso “salotto Maffei” con la moglie Clara, da cui si separa per la relazione di lei con Carlo Tenca, confortato dall’amico Giuseppe Verdi.
2 Il testo avrà diverse trasposizioni operistiche, tra cui quella in cinque atti,
musicata da Verdi, rappresentata a Parigi e Bologna nel 1867.
3 Al contrario dell’interpretazione dantesca, che vuole Bruto, traditore del
benefattore e padre adottivo Cesare, meritevole con Cassio della massima pena al pari di Giuda, la versione leopardiana presenta uno spirito tormentato dal conflitto tra pubblico e privato, per una “stoltà virtù”. Sul punto, cfr. Mastrangelo2010:44-47 e 2012: 373-393.
di Germania, viene, nel fiore dell’età, fra il silenzio della notte, nella quiete della sua stanza e del suo letto, sorpreso fra il sonno e disarma- to da uno stuolo di ministri e di guardie, fra cui coperto di corazza e d’elmo si vede in faccia il torvo suo padre. Da quell’istante intercluso dal consorzio dei suoi congiunti e de’ suoi fedeli, vigilato a vista da uomini nemici e aborriti, messo al sindacato di tre giudici, che senza vederlo né udirlo lo condannano per attentato di ribellione e parricidio, viene da loro con infinita pietà raccomandato alla clemenza del padre. Il quale, rispondendo che il suo cuore ben gli consiglia il perdono, tut- tavia, ad onta del paterno amore e dello strazio di così duro sacrificio, dichiara inevitabile la sua morte; e come la maggior prova d’amore che
posa dare al figlio suo ed alla nazione spagnola, gli manda invito a pre-
pararsi a morire, e confessarsi per l’eterna salute (SL: I, 13-14).
Il padre mostra un solo momento di affettività familiare, quando si reca sul letto del figlio ormai moribondo, per un fu- gace ultimo saluto, concluso in lacrime. Avvenuto il trapasso, Filippo si mette subito all’opera, per annunciare, tramite lette- re, «la morte di Don Carlo, come già la prigionia, a tutti i vesco- vi, i capitoli, i governatori, i tribunali, alle città ed ai loro corre- gidori, a molti principi, all’imperatore, al pontefice» (SL: I, 14- 15). Il monarca, chiaramente, palesa un intento di comunica- zione politica, all’interno e all’esterno, che si rivela efficace, co- me dimostra la pronta risposta della città di Murcia, la quale «non poteva pensare senza intenerirsi d’avere un re tanto giusto e
tanto affezionato al bene universale, da anteporlo ad ogni cosa, e
dimenticar perfino il tenero affetto che nutriva per suo figlio!» (SL: I, 15).
Cattaneo commenta la vicenda, giudicandola «insulto», in nome della «ragione di Stato», di «ogni rispetto di natura» (ibi-
dem), vedendo nel principe asturiano una sorta di trasposizione
della vicenda di Antigone, con la differenza sostanziale di una decisione sul proprio martirio subita passivamente, non scelta consapevolmente come, invece, nel mito greco.
La colpa di Don Carlo, in realtà, non è ben definita: da un punto di vista strettamente politico, si suppone un suo coinvol- gimento nella rivolta delle Fiandre, nell’ambito di un conflitto lungo ottant’anni, tra olandesi e spagnoli, che porterà all’indipendenza dei Paesi Bassi, sostenuti da Francia e Inghil- terra. Una diversa ricostruzione era stata proposta da Vittorio
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Alfieri, attraverso la tragedia Filippo, composta nel 1775, con un titolo, sul padre, e non sul figlio, di per sé indicativo del cambio di prospettiva. Le due generazioni sono divise dall’amore per Elisabetta di Valois4, che ispira il personaggio di Isabella: la principessa era promessa a Carlo ma, a seguito del- la pace di Cateau-Cambrésis del 2 e 3 aprile 1559 che sancisce il predominio spagnolo sull’Italia, sposa Filippo, per un triango- lo edipico che intreccia grandezze diplomatiche internazionali e piccolezze familiari, splendori pubblici e miserie private.
Per quanto concerne la diversità delle interpretazioni, peral- tro, è opportuna la precisazione di Fubini, secondo il quale «Cattaneo si fa difensore della libertà del poeta contro coloro che vorrebbero imporgli il rispetto della storia» (1953 [1942]: 176). Egli, peraltro le riunisce nel suo scritto, giudicandole di- verse dal un punto di vista esteriore, anche per la prolissità dei versi di Schiller, un atto del quale, da solo, «eguaglia quasi di mole tutta la tragedia italiana», contrapposto all’Alfieri, «parco e meditato» (SL: I, 37). Si tratta, a ben vedere, soltanto di una «dissimiglianza materiale» (ibidem), una questione «piuttosto di cornici che di pittura» (SL: I, 38): dal punto di vista sostanziale, «ambedue dipingono in Filippo il despota e il fanatico» (ibidem).
Dopo un lungo e minuzioso esame comparato dei due testi, Cattaneo conclude con un appello al rispetto dovuto, come alle altre, alla nostra tradizione letteraria, chiamata anch’essa a vi- vere il suo Risorgimento contro la sopraffazione straniera, pe- raltro immotivata come dimostrato proprio la vicenda della cor- te spagnola che, prima di quella dell’autore tedesco, era passata dalla penna del drammaturgo italiano:
Il paragone che siam venuti abbozzando fra i due più illustri tragici delle due nazioni, e che tornerebbe inutile condurre più avanti, mira a cancellare quel vano odio e quello stolto disprezzo che Schlegel pur troppo si compiacque tanto di seminare, abusando per disunir le na- zioni quelle stesse opere dell’ingegno, che dovrebbero essere il più sal- do impegno di vicendevole rispetto (SL: I, 57).
4 Elisabetta di Valois-Angouléme (1545 - 1568) è figlia di Enrico II di Francia e
Caterina de’ Medici: la madre si duole della trasformazione della figlia dopo il matrimonio, da francese in spagnola.
Coerentemente alla sua visione politico-sociale, pluralista e federalista, Cattaneo ritiene che, nella letteratura, si debba considerare ogni opera come libera espressione di cittadinanza nelle lettere che, non certamente a caso, sono definite repubbli- ca e non monarchia:
Ma siccome nessuno ci costringe a prender l’una tragedia e a ricusare l’altra; siccome nessuno ci vieta d’abbracciare con equo e candido animo giudizio ambo gli illustri poeti; così noi, lasciata ogni cosa a suo luogo, diremo il nostro desiderio che da ogni lato si apportino pure le straniere dovizie a fecondare il nostro terreno (SL: I, 58).
Cattaneo si chiama fuori dal novero di quanti «vogliono attri- buire disegual grado di valore alle due lingue», ritenendo piut- tosto che sia opportuno valutare la qualità del messaggio, e non la sua provenienza (ibidem):
Accogliamo pure con ospitale e saggia estimazione gli eccelsi esempli di tutte le antiche e moderne letterature, poiché la molteplicità dei model- li assicura la libertà degli studi, e prepara da lungi la feconda e varia potenza delle opere. se non è lodevole che la gioventù nostra adori le cose straniere, è assai più turpe e dannoso che al tutto le ignori. L’intelletto, a modo del mare deve ristaurarsi e nutrirsi coi liberi tributi di tutta la terra (SL: I, 59).
3. Dante: le lettere irresistibile arme civile
Nel 1839, a Torino, Cesare Balbo pubblica presso l’editore Pomba la Vita di Dante, recensita da Cattaneo (SL: I, 93-113), il quale inizia il suo commento col porre il problema dell’esiguità delle edizioni dantesche nel Seicento, in confronto ai secoli pre- cedenti e successivi, fino al proprio che, in neppure un quaran- tennio, ha già prodotto una settantina di volumi. Abituato alle rilevazioni di tipo statistico, pur scusandosene perché «parrà irriverenza e barbarie parlar di Dante con questo gergo numeri- co» (SL: I, 96), calcola il fabbisogno editoriale in ragione della popolazione studentesca, oltre alle edizioni di pregio destinate alle librerie degli adulti, considerando quei libri come mattoni,
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anzi come assi portanti, dell’edificio sociale nazionale, ancora in fase di costruzione:
Fin da quando il buon Muratori risvegliò la istoria del medio evo, e il Varano gettò fra le corrotte academie la prima imitazione dantesca, l’Italia, infervorata a restaurare le memorie del suo risorgimento, volle riannodare la catena della letteratura sociale, e da trastullo di sciope- ranti tornarla strumento di vita civile. Gli scrittori non furono paghi omai di far millanteria d’ingegno in un crocchio d’iniziati; ma si diede- ro maestri delle moltitudini e nunci dell’utile e del vero. Parini e Gozzi sbeffarono l’inerzia adagiata nei cocchi lombardi e nelle gondole vene- ziane; Beccaria, Verri, Bandini, Filangeri scrutarono le istituzioni civili; Baretti sgridò gl’Italiani, perché non erano Inglesi; e Alfieri pensò di rifarli da capo, perché non erano più Romani (SL: I, 97).
Nel momento in cui la letteratura italiana “ha dovuto per forza dei tempi assumere dignità di ministero civile, e questa solo persuasione basta a conferirle decenza e dignità” (SL: I, 99), per Cattaneo risulta naturale che essa cercasse il punto di contatto con il capostipite Dante «che, oltre all’essere più gran- de e più antico, era più profondamente impresso di quella splendida persuasione che le lettere siano una irresistibile arme civile» (ibidem). I migliori ingegni si sono confrontati con il para- digma Alighieri, vocandosi a «sacerdoti del Dio Dante» (ibidem): un lungo elenco nel quale, appunto, si è iscritto Cesare Balbo, il quale «s’apprese al principio, ormai posto in piena luce, che, essendo l’Alighieri poeta civile, non lo si possa apprezzare né comprendere, senza riferirlo agli eventi ed alle persone fra cui visse, e verso cui volse gli odi e le speranze» (SL: I, 100).
Il volume è apprezzato nella parte in cui descrive l’amore poetico per Beatrice, mentre è disapprovato nelle pagine sugli anni dell’esilio, troppo particolareggiate da risultare tediose e imprecise. Ma, soprattutto, è un’altra la ragione per cui l’opera balbiana va confutata: il suo approccio ideologico, che lo stu- dioso ripugna in ogni campo della ricerca, sia umanistica o scientifica:
Tutto ciò non accade perché al conte Balbo manchi gusto di poesia o delicatezza di sentire, ma per uno strano proposito di rappresentar Dante come Dante non fu. Il che proviene da spirito di parte, e da due supposti, nei quali non è facile convenire; il primo dei quali si è che il
poema di Dante, perché dettato a lui da passioni civili e religiose, pos- sa avere oggidì un’efficacia civile e religiosa che veramente non ebbe mai; e il secondo si è che le fazioni dell’età nostra possano riguardarsi come raffigurate in quelle del tempo di Dante (SL: I, 104-105).
Cattaneo redarguisce Balbo per non aver sviluppato corret- tamente l’analisi del contesto proprio del grande Trecentista, rileggendolo in funzione delle dinamiche e dalle prospettive in- terpretative del proprio tempo e versante politico:
Dante scrisse da ghibellino; e Balbo si protesta guelfo; il che davvero non aggiunge valore a ciò ch’egli può scrivere per chiarire il vero animo di Dante. Balbo vuole che la parte guelfa sia la parte nazionale in Ita- lia; eppure nei Vespri siciliani, che furono un fatto di nazione quant’altro mai, non si fece strage se non di guelfi (SL: I, 105).
Viene, pertanto, giudicata anacronistica la riproposizione di uno specifico dualismo, da tempo superato dalla storia che, nel suo incedere, ha sciolto e rimodulato i tre principi all’epoca co- stituivi dei rispettivi schieramenti – «beni feudali, unità imperia- le di tutta l’Italia, avversione alla Chiesa» (SL: I, 106-107) per i ghibellini; «beni mercantili, repubbliche municipali, avversione all’Imperio» (SL: I, 107) per i guelfi –: «E quando il signor Balbo si chiama guelfo, anzi ci vuole in Italia tutti guelfi, siamo tentati di guardarlo attonito, come uno dei Sette Dormienti, che si sve- glia a finire un discorso incominciato cinquecento anni fa» (ibi-
dem).
Balbo non è condiviso da Cattaneo anche per quanto con- cerne gli aspetti più propriamente linguistici, tematica inevita- bilmente correlata al tema dantesco: non è accettata la tesi se- condo cui, nei successivi sviluppi, l’elemento germanico avesse prevalso su quello latino, specie nei linguaggi dialettali del set- tentrione della Penisola: per Cattaneo, piuttosto, è vero il con- trario, come dimostrerebbero intere parole e desinenze latine, entrate nella lingua tedesca.
Nonostante i citati aspetti di disaccordo, Cattaneo, comun- que, conclude favorevolmente, con l’invito alle lettura di un te- sto al quale riconosce il merito di contribuire alla conoscenza del messaggio dantesco, invitando le giovani generazioni ad ap- procciarsi alle pagine del Sommo tra i poeti: