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dimostri che non vi è niente al di sopra della ragione, e che tut- to si può conoscere supponendo maggiore informazione di fatti, organi più perfetti e intelletto più alto (Leibniz 2011 [1703]: 531). In buona sostanza, se per Illuminismo s’intenda innova- zione profonda, gli illuministi siciliani, pochi in verità, sono, ancorché filosofi, matematici.
b) un filosofo e teologo
Il Settecento siciliano è ricordato dai posteri come il secolo dei sommi uomini, ai quali si deve il fiorire in ogni maniera di
scienze e di lettere, che incentrano la riflessione sulla inconsi-
stenza dei vecchi sistemi e metodi, sulla nullità della filosofia dominante. È necessario emanciparsi dalla barbarie che incep-
pa gli spiriti. I siciliani provano dunque a sostituire, nel campo
delle scienze naturali, il buon senso e la ragione all’autorità mediante la sperimentazione, l’osservazione e il calcolo, e in quello filosofico e teologico, alle speculazioni sofistiche e ai si- stemi tradizionali, l’esame diretto delle infallibili verità della ri- velazione, decontaminandole dalle manipolazioni e da una me- tafisica ormai ingombrante. Tra coloro che hanno reso possibi- le, diradate le ombre, l’emersione del vero, del luminoso, del so-
lido in ogni ramo dello scibile umano e la diffusione dei nuovi
dettami della filosofia e delle scienze, verranno ricordati, nel primo Ottocento, oltre al Cento, i matematici Benedetto Castro- ne e Melchiorre Spedalieri; per la filosofia e la teologia, «il Carì, il Barcellona, l’ab. Evangelista di Blasi, il Gregorio, il Miceli, lo Spedalieri, il Fleres» (Bertini 1819: ad vocem). Quest’ultimo, fi- losofo e giurista, che insegna filosofia dapprima privatamente, quindi nel seminario di Monreale fino al 1765 (ove gli succede nella cattedra il Miceli), poi in quello Arcivescovile di Palermo, infine presso il Regio Studio (Di Giovanni 1868: 107), è a Pa- lermo «uno dei principali critici di Cartesio, divulgatore del pen- siero di Leibniz e confutatore di Hobbes e Spinoza», mentre il filosofo e teologo Nicola Spedalieri, personaggio di grande spes- sore, insegnerà anch’egli nel seminario di Monreale - presso il quale si è formato ed è stato allievo del Miceli -, matematica, fi- losofia e teologia (Giurintano 1998: 11-20).
Tra i teologi più accreditati, vi sono Francesco Carì e l’ecclesiastico Antonino Barcellona (Di Marzo Ferro 1853: 90), che produce una cospicua messe di saggi, molti inediti, alcuni dei quali dati alle stampe per opera di amici ed estimatori, e non solo in Sicilia. Nasce a Palermo nel 1726, da una famiglia onorata ma povera. Compie gli studi di filosofia, teologia e mo- rale presso i Gesuiti. Conseguita la laurea dottorale in teologia, cerca di completare la propria formazione mediante la lettura dei classici, principalmente Galileo, Cartesio, Malebranche e Leibniz, e l’approfondimento delle scienze matematiche e fisi- che, come anche dell’architettura e dell’archeologia. Diviene quindi allievo di Niccolò Cento, e si dedica allo studio della fisi- ca e della matematica del Newton, oltre ad apprendere il greco e l’ebraico. In quanto ormai privo dei genitori, viene accolto nella congregazione dei Padri dell’Oratorio di san Filippo Neri, e dopo l’opportuna preparazione riceve gli ordini sacri per poi dedicarsi completamente agli studi. Adempie agli obblighi del suo mini- stero, e per un cinquantennio è predicatore acclamato, tanto che molti ecclesiastici intervengono a quelle che vengono consi- derate lezioni di teologia. Dopo aver presieduto la biblioteca della Congregazione, ricopre un nuovo incarico che gli permette di dedicarsi in modo definitivo alla speculazione filosofico- teologica e di tradurre nella pratica dell’insegnamento l’impegno teorico. Diviene, difatti, il docente del corso di teologia per i giovani chierici della sua congregazione. Redige una Introduzio-
ne generale alla Teologia dogmatica, un corpo completo di lezio-
ni, e continua a coltivare con passione la ricerca sulle Scritture, componendo molte opere sia teologiche che filologiche8. Muore nel 1805 (Ortolani 1819: ad vocem).
Il rapporto con Niccolò Cento, per l’orfano assetato di cono- scenza, ha una valenza formativa peculiare: il Maestro lo toglie
in tempo dai vizi della scolastica, e, con attitudine genitoriale, lo
istruisce, più che con rigore, con affetto e cura, partendo dalla
8 Tra le opere principali, apparse postume, si collocano: La felicità de’ Santi,
pubblicata a Palermo nel 1800; Parafrasi dei libri de’ Profeti, preceduta nel 1826 dal saggio a se stante Parafrasi della profezia di Abdia, in cinque tomi, stampata a Venezia presso Andrea Santini tra il 1827 e il 1828; Parafrasi de' quattro
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filosofia, soprattutto nella matematica, nelle scienze e nelle lin- gue. In buona sostanza, imprime un’impronta razionalistica al suo pensare, gli raddrizza la mente. Questo ammaestratore di
una generazione fortunata, così come col Natale, e con molti al-
tri, fa sì che la giovane intelligenza del Barcellona si evolva in modo corretto e si apra alle scienze e alle lettere, come alle arti. L’allievo gliene serba eterna gratitudine (Bozzo1851: 36-38). Pur se destinato a intervenire in un campo del sapere specifico co- me la teologia, mantiene nelle opere, che hanno un chiaro sco- po didattico, l’intento, che è stato del Maestro, di provare a ren- dere un corpo dottrinale di facile apprendimento. Il compito non è facile quando si ragiona di metafisica; eppure, anche la disamina di paradiso e inferno, di peccati e punizioni, esprime quella visione giusnaturalistica che mira, in generale, al miglio- ramento dei costumi, perseguendo la speranza di far venire in
perfezione tutto il genere umano (Bozzo 1852: 40). E, pur nella
visione religiosa e nell’anelito alla grazia, se la rivendicazione per il genere umano del diritto alla speranza riecheggia lo jus
naturale, l’affermazione della necessità dell’istruzione mostra
chiara l’impronta razionale. Lo stesso Gesù Cristo, oltre al ma- gistero spirituale, ha voluto nella sua Chiesa una pubblica scuola presso la quale si possa essere ammaestrati. I maestri che vi insegnano sono i Padri «che a regger la Chiesa sono stati posti dalla Provvidenza divina sin dal principio, i quali dopo aver istruiti a viva voce, e con gli esempi di una santissima vita» hanno lasciato opere scritte per spiegare le Scritture. La strati- ficazione delle interpretazioni, però, ne ha reso difficile la com- prensione, e pur nella venerazione dei Padri della Chiesa, è me- glio credere a Dio piuttosto che agli uomini, i quali sono caduti in errore perché attingono ai rivi - i libri degli ascetici - e non alla
sorgente che è la sacra scrittura. Da raffinato biblista, imposta
lo studio col fine di dare un fondamento positivo e storico alla teologia, contro la retorica dominante e, sulla scorta degli inse- gnamenti ricevuti, è tra i primi teologi ad applicare il metodo comparativo nell’analisi dei Libri Sacri, attenendosi per quanto possibile al loro senso letterale, cercando di interpretarne i pas- si oscuri e le contraddizioni lavorando direttamente sui testi9, e
9 Il Barcellona, che si era specializzato nella conoscenza del greco e dell’ebraico,
non solo con intenti filologici. Il pratico risvolto della dottrina deve essere, adesso, riformar la vita: bisogna recuperare l’uomo offrendogli la speranza. Non solo virtù teologale, la fiduciosa e ottimistica previsione rispetto al presente e al futuro, è sempre preferibile alla minaccia d’una pena. L’aspettativa umana deve essere più legata alla speranza del premio che al timore del ca- stigo. L’esperienza insegna come, nonostante l’autorità pubblica preveda una serie di sanzioni, e si abbiano sempre davanti agli occhi le forche, le ruote, ed ogni altro genere di morte o di tortura
assegnato dalle politiche leggi ad ogni misfatto, non sono di certo
stati eliminati dalle città gli omicidi, i ladronecci, le furberie. An- zi, a dispetto della severità delle leggi, vi sono moltissimi mal- fattori, per i quali la pena non ha forza cogente sufficiente. Il teologo immagina possibile «che in ciascuna repubblica si di- spensasse ogni anno a ciascuno, che mal non ha fatto, ricco e considerabile premio»; e in questo caso «facilmente potrebbe ac- cadere, che vacassero per qualche anno tutti i criminali magi- strati della Città e se ne stessero oziosi i sargenti, ed il boja». Nella corte del principe, coloro che lo attorniano sono alienissi-
mi dal commetter delitti pubblici, perché sperano di conquistare
la grazia del sovrano, di ottenere dignità sempre maggiori (Bar- cellona 1800: 12-15). La speranza è dunque un deterrente dal
mal fare. Stando all’esperienza, non si può ragionevolmente ne-
gare che il desiderio di un premio sia di maggiore incitamento che il timore del castigo, e che sia più facile ubbidire a un supe- riore che si ama, che a un altro per il quale non si prova amore. La legge di Dio sarà osservata più facilmente per la speranza del paradiso, che per il timore dell’inferno. Similmente, riguardo alle leggi umane, discutendo di premi e castighi così come av- viene per le leggi divine, vi è una differenza sostanziale tra spe- ranza e timore: quest’ultimo non genera nessun amore verso il legislatore, che è temuto, e considerato solo come giudice e vendicatore. La speranza, invece, consentirebbe di vederlo come il benefattore nelle cui mani è posta la felicità dell’uomo (Bar- cellona 1800: 16). Gli echi del diritto naturale, sebbene in tono minore, risuonano evidenti come nell’opera del Natale. Il fine che Barcellona si propone, piuttosto che la riforma della mate-