• Non ci sono risultati.

cato il programma della giornata

Nel documento NELLA VIT.A E NELLE OPERE (pagine 100-106)

In quei primi mesi del 1846 Don Bosco organizzò una prima scampagnata a

Superga, la quale fu poi seguita da tante altre fino al 1864. Nel modo come si svolse,

vediamo darsi la mano lo zelo dell’apostolo e l ’istinto dell’educatore. Sentiva egli che per rallegrare la marcia ci voleva il suono della banda o almeno di una fanfara, che non c’era; vi supplì con il portentoso strepito di un tamburo, di una tromba, di un violino e di una chitarra. Ai piedi della salita lo attendeva un cavallo fanta­

sticamente bardato. Glielo mandava, secondo l ’intesa, Don Borei, da lui spedito innanzi a fare i preparativi; un biglietto del medesimo sacerdote gli diceva di sa­

lire tranquillamente con i cari giovani, perchè era pronto per tutti il pranzo. Don Bosco, montato in sella e creato un momento di generale aspettazione, lesse ad alta voce il messaggio fra il giubilo della già allegra carovana.

A Superga il re Carlo Alberto aveva nel 1833 eretta u n ’Accademia ecclesia­

stica per la formazione di u n ’eletta del clero agli alti studi religiosi. La presiedeva allora il dotto Don Audisio. Questi e il parroco si prestarono volentieri a quanto potesse occorrere per rifocillare e far stare allegra la brigata.

Finito il pranzo, Don Bosco chiamò attorno a sè i giovani e sulla spianata della basilica narrò loro in modo piacevolissimo la storia del monumento; poi li condusse a visitare la sala dei Papi, la chiesa e le tombe sabaude; li fece salire da ultimo sulla cupola, donde si gode la vista di un panorama dei più incantevoli che vi siano al mondo. Seguì la benedizione, nella quale un coro di voci bianche, da lui accompagnate sull’organo, cantò il Tantum ergo con grande sorpresa degli ac­

cademisti e del popolo accorso, avvezzi a udire soltanto voci virili.

Dopo la funzione vennero innalzati alcuni palloni aerostatici. Infine Don Bo­

sco, a titolo di ringraziamento da parte dei suoi birichini, ebbe il coraggio di pian­

tare sotto le finestre del preside i suoi quattro suonatori e fargli lacerare gli orec­

chi con una serenata in suo onore! Uomo di spirito, quegli avrà ripetuto senza dubbio il sit voluisse satis, o il suo equivalente laudando, voluntas.

A Torino quella sera con la descrizione della giornata il nome di Don Bosco riempì le famiglie popolane; Don Bosco incominciava a divenire sinonimo di quella novità che i ragazzi avevano imparato a chiamare oratorio.

Povero, bersagliato oratorio! Vi sono momenti storici, nei quali il dar colore politico a u n ’istituzione anche ottima suol essere il mezzo più efficace per gettarla a terra. S’entrava allora in un periodo di grandi rivolgimenti, in cui non tutto era puro. Tre aspirazioni incontravano il favore popolare: svecchiare sistemi di go­

verno troppo ligi al passato, fiaccare la prepotenza dell’Austria sulle cose italiane e far trionfare il principio di nazionalità. Anche cattolici d ’un sol pezzo potevano in coscienza partecipare a moti di tal natura. Ma capi occulti miravano anche, se non soprattutto, a ben altro. Miravano a colpire le libertà ecclesiastiche, l ’opera della Chiesa nell’istruzione, l ’influenza del clero e l ’esistenza degli Ordini religiosi.

I settari, impotenti a fare da soli, trassero nella propria orbita i liberali, molti dei quali si lasciarono rimorchiare nella speranza di potere a tempo e luogo infrenare i violenti. Il cittadino onesto, che non disponesse di aderenze e non amasse spin- gersi tant’oltre, doveva navigare fra scogli assai pericolosi.

Don Bosco lo conobbe per prova nella primavera del 1846. Tutti vedevano, com’egli riuscisse a farsi ubbidire da giovani d ’ogni risma. Gli uni lo ammiravano, ma altri in tanta popolarità credettero di ravvisare u n ’arma sospetta. La pensava così anche il marchese Michele Benso di Cavour, padre di Gustavo e di Camillo e vicario di Torino, capo cioè del potere urbano, qualcosa più del nostro sin- daco. Egli stesso un giorno, scorgendo un prete seduto sull’erba nei prati della cittadella fra un gruppo di giovani e sentendo che si chiamava Don Bosco, aveva esclamato: — Costui o è pazzo o è uomo pericoloso. — Quando pertanto le male voci arrivarono fino a lui, lo chiamò issofatto ad audiendum ver bum.

Il colloquio, se non fosse stata la calma di Don Bosco, sarebbe finito tem­

pestosamente. Egli tentava di spiegare, di ragionare, di mostrare che i suoi assem­

bramenti non avevano nè potevano avere scopi politici; ma il marchese non per­

metteva discussioni e badava a ripetergli: — Lasciate in libertà quei mascalzoni! — Infine gliela cantò chiara: — Io sono assicurato che le vostre radunanze sono pe­

ricolose, e perciò non le posso più tollerare.

Rientrato in casa, Don Bosco trovò la giunta alla derrata. Una lettera dei fra­

telli Filippi lo diffidava a ridare libero il prato entro quindici giorni. Essi non avreb­

bero mai immaginato che i suoi ragazzi dovessero pestare il terreno in modo da farne addirittura una soda e sterile aia! Tutto congiurava contro l ’oratorio.

Della sua chiamata al vicariato Don Bosco informò subito l ’Arcivescovo, che lo incoraggiò e gli promise protezione. Visitò pure il senatore conte Provana di Collegno per raccomandargli i suoi giovani; questi, essendo Ministro al Controllo generale, noi diremmo delle Finanze, godeva gran credito anche a Corte. Quando potè ritenere che uno scambio d ’idee ci fosse stato fra il conte e il marchese, pregò quest’ultimo di accordargli u n ’udienza. Ivi con parola pacata s’ingegnò di levargli dall’animo i suoi preconcetti. Era un pestar l ’acqua nel mortaio.

Ma che cosa importa a lei di questi mascalzoni? conchiuse irritato il vi­

cario. Non si prenda di queste responsabilità!

Meno male che non insistette sull’ordine di scioglimento. Il marchese, buon cattolico, non si sarebbe mai messo in conflitto con l ’Arcivescovo. La questura però dai primi di marzo aveva avuto l ’ordine di sorvegliare Don Bosco; quindi ogni domenica guardie di città e carabinieri facevano la ronda intorno al prato e seguivano a distanza i birichini, quando erano condotti alla Messa o a qualche gita.

Ora scendono in campo gli amici. Quel non sapersi staccare dai ragazzi, quel cercarne sempre di nuovi, quel visitarli sul lavoro parvero sintomi di monomania acuta. Amici sinceri ne aveva Don Bosco nel clero cittadino. Egli che da loro avrebbe preferito un qualche aiuto più che non cinquanta consigli, doveva ascoltare da essi raccomandazioni di non compromettersi facendo cose tanto contrarie alla tradizio- naie gravità del clero torinese, di attendere prudentemente tempi migliori, insomma di non voler tentare l ’impossibile. Don Bosco lasciava che dicessero, ma nelle sue risposte affermava costantemente la certezza che avrebbe avuto un giorno chiesa, casa, scuole, officine, maestri d ’arte, chierici, preti... A poco a poco s’ingenerò la persuasione che egli perdesse ogni dì più la testa. I veri amici n ’erano addolorati; gli indifferenti crollavano il capo; gli emuli ridevano. Intorno a lui si faceva il vuoto.

Le dicerie sull’impazzimento di Don Bosco si diffusero a segno, che la curia arcivescovile, temendo l ’avverarsi di fatti lesivi della dignità sacerdotale, deputò un prudente ecclesiastico a esaminarne le condizioni psichiche. Quegli agì con estrema delicatezza; ma anche a lui la gran fidanza di Don Bosco parve indizio certo di allucinazione mentale.

Il caso fu presentato e discusso in una delle periodiche conferenze di morale per il clero. Tutti convennero su due punti: che bisognava impedire in tempo una dolorosa catastrofe e che la cura sollecita di un alienista avrebbe forse po­

tuto scongiurare ogni pericolo. Così s’arrivò alla conclusione che era necessario internare Don Bosco nel manicomio e si avvisò ai mezzi opportuni. Don Pon­

zati, parroco di S. Agostino, e il giovane Don Nasi, amici entrambi di Don Bosco, accettarono l ’incarico di eseguire la caritatevole missione.

Vennero presto sbrigate le pratiche preliminari. Un pomeriggio pertanto i due messi, portatisi alPospedaletto e ricevuti da Don Bosco, si profusero da prima in convenevoli; poi, venuti a dire delle sue fatiche per l ’oratorio, deplorarono che si rovinasse la salute; intanto una boccata d ’aria gli avrebbe fatto bene e, se gradiva, si offrivano di accompagnarlo fuori con la carrozza.

Chi troppo s’assottiglia, si scavezza. Per fortuna la follia di Don Bosco era ancora abbastanza ragionante da argomentare che cosa covasse sotto i complimenti degl’improvvisati diplomatici. Facendo l ’ingenuo, aderì all’invito e discese con essi. La carrozza c ’era veramente, e carrozza chiusa. Uno dei due aprì nervosa­

mente lo sportello e accennò a Don Bosco di accomodarsi. — Mai! rispose. Prima loro! — Deferenti, montarono. Mentre con la schiena rivolta a lui concertavano dove lasciargli il posto, egli, un colpo allo sportello e: — Di trotto, al mani­

comio — disse al cocchiere, guardandolo con intelligenza. L ’uomo sferzò, sferzò, sferzò; dopo non più di due minuti la carrozza infilava rumorosamente il portone

■già spalancato, che in fretta e furia si richiuse dietro. I custodi che aspettavano un prete solo, vedendone due che si agitavano per uscire e non sapendo quale fosse il designato, non vollero sentir ragioni, ma li spinsero entrambi in una cella, ser­

rarono e andarono per istruzioni. Dopo circa un quarto d’ora, comparve il diret­

tore spirituale a metterli in libertà. Della pazzia di Don Bosco da quel giorno più

Nel documento NELLA VIT.A E NELLE OPERE (pagine 100-106)