era poco; voglio dire il provvedersi degli abiti chiericali. Una parola di Don Cin
zano ad alcuni della parrocchia fu sufficiente, perchè gli procurassero chi la talare, chi il cappello, chi il colletto e la berretta, chi scarpe, calze e altro. Il parroco gli donò il proprio soprabito. Per la prima volta Don Bosco sperimentò una cosa che in seguito sarebbe divenuta per lui ordinaria, avere egli cioè bisogno di tutti.
Lo vestì Don Cinzano nella chiesa parrocchiale di Castelnuovo la domenica 25 ottobre 1835. Dalle terre intorno sciami di giovani accorsero con gioia alla cerimonia. Dopo, quand’egli uscì sul sacrato, essi, vedendolo avanzarsi sorridente, ma dignitoso sotto le nuove spoglie, si appressavano a lui peritosamente e sgranando gli occhi; ma tosto compresero che potevano trattarlo con la solita confidenza.
Nel pomeriggio lo aspettava una lezione inattesa. Il parroco per festeggiare la vestizione lo condusse alla sagra di Bardella, borgata di Castelnuovo. Il chierico presentì che vi si sarebbe trovato fuori di posto, facendovi la figura, dice egli, “ d ’un burattino vestito di nuovo che si presenta al pubblico per essere veduto ” . Inoltre dopo più settimane di pia preparazione all’atto di quel giorno, gli ripugnava doversi trovare fra gente in gozzoviglia. Tuttavia per non causar dispiacere, vi si lasciò tra
scinare. Ne tornarono a tarda ora. Egli appariva pieno di malinconia. Il parroco, al vederlo taciturno, gli domandò perchè si fosse mostrato tanto ritenuto e pensie
roso. Sinceramente rispose che la funzione del mattino gli era parsa discordare in genere, numero e caso, con la baldoria della sera; anzi, scrive d ’aver soggiunto:
“ L ’aver veduto coloro che meno avrei creduto, fare i buffoni in mezzo ai convitati, pressoché brilli di vino, mi ha quasi fatto venire in avversione la mia vocazione.
Se mai sapessi di venire un prete come quelli, amerei meglio deporre quest’abito e vivere da povero secolare, ma da buon cristiano, ovvero ritirarmi dal mondo e farmi Certosino o Trappista Formò allora in cuor suo il fermo proposito di non prendere parte mai più a simili festini.
Nei dì seguenti mise in carta un programma di vita ruminato già da parecchio.
“ Negli anni addietro, dice riportandolo nelle Memorie, non era stato uno scellerato ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giochi, salti, trastulli ed altre cose simili, che rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il cuore ” . Quindi non più giochi, non più violino, non più caccia, ma ritiratezza, temperanza, pie letture, vigile custodia della castità e ogni giorno qualche racconto edificante o qualche massima utile alle anime altrui. “ Ciò farò, scrisse, coi compagni, cogli amici, coi parenti e quando non posso con altri, lo farò con mia madre ” . Le cose deliberate andò a leggerle dinanzi a u n ’immagine di Maria, promettendo formal
mente alla Madonna di osservarle a costo di qualunque sacrificio.
Al mattino del 30 ottobre si chiusero dietro di lui le porte del seminario. Che
da uccello di bosco diventare a un tratto uccello di gabbia, massime nell’età e col temperamento di Giovanni, non fosse allegro trapasso, dovette essere là entro una delle sue prime impressioni. Infatti, ispezionando con un amico e condiscepolo il massiccio e severo edificio, s’arrestò dinanzi a una meridiana recante questo esa- metro: Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae. L ’applicazione fattane da lui rispon
deva forse a una sua interna preoccupazione. “ Ecco, disse, il nostro programma:
stiamo sempre allegri e passerà presto il tempo ” . Ma una cosa che gli rese piace
volissimi, com’egli ci assicura, i sei anni di seminario, fu la costante esattezza nel
l ’adempimento di tutti i suoi doveri.
Pene non gli mancarono; una ce la descrive così a vivi colori: “ Io amava molto i miei superiori ed essi mi hanno sempre usato molta bontà; ma il mio cuore non era soddisfatto, perchè essi difficilmente si rendevano accessibili ai chierici.
Il rettore e gli altri superiori solevano visitarsi all’arrivo dalle vacanze e quando si partiva per le medesime. Niuno andava a parlare con loro, se non nei casi di rice
vere qualche strillata. Uno dei superiori veniva per turno a prestare assistenza ogni settimana in refettorio e nelle passeggiate, e poi tutto era finito. Fu questa l ’unica pena che ebbi a provare in seminario. Quante volte avrei voluto parlare e chiedere loro consiglio o scioglimento di dubbi e non poteva! Anzi, accadendo che qualche superiore passasse in mezzo ai seminaristi, senza saperne la cagione ognuno fuggiva precipitoso a destra e a sinistra, come da una bestia nera. Ciò accendeva sempre più il mio cuore del desiderio di essere presto prete per trattenermi in mezzo ai giovanetti, per assisterli, venire a conoscerli bene, sorvegliarli sempre, metterli nell’impossibilità di fare il male ed appagarli in ogni occorrenza ” .
Gli rincresceva poi grandemente che la comunione fosse concessa solo nei dì festivi. Per frequentarla nei giorni feriali bis gnava con u n ’infrazione del regola
mento andare di soppiatto durante la mezz’ora della colazione nell’annessa chiesa pubblica, fare la comunione e poi raggiungere digiuno i compagni tornanti allo studio e alla scuola. Su tale irregolarità però i superiori chiudevano un occhio.
“ Con questo mezzo, leggiamo nelle Memorie, ho potuto frequentare assai più la Santa Comunione, che posso chiamare con ragione il più efficace alimento della mia vocazione ” .
Trovò di suo gusto l ’ordinamento degli studi. Non costandogli fatica seguire e ritenere le lezioni dei professori, utilizzava fuori della scuola ogni briciolo di tempo.
In ricreazioni più lunghe i volonterosi, raccogliendosi intorno a lui nel refettorio, facevano un circolo, che equivaleva a una ripetizione scolastica. Nelle loro discus
sioni usavano la lingua latina. Bosco vi era considerato come presidente e giudice inappellabile.
Quanti ritagli di tempo uno studioso di buona volontà può mettere a profitto nel corso della giornata! Egli nel primo anno di filosofia si lesse così le voluminose opere del Bartoli e del Cesari. Nel secondo conobbe per caso il De imitatione Christi, di cui ignorava l ’esistenza. Gli cadde sotto gli occhi un capo del quarto libro sul
l ’eucaristia. Ne rimase così rapito e invaghito, che si disamorò delle letture pro
fane e si diede a leggere le Antichità giudaiche e la Querra giudaica di Flavio Giu
seppe, i Ragionamenti sulla religione del Marchetti, le Conferenze del Frayssinous, il Balmes, le Storie Ecclesiastiche dell’Henrion, del Fleury e del Bercastel, il Cavalca, il Passavanti, il Segneri. Negli anni di teologia maneggiava S. Agostino, S. Girolamo e specialmente S. Tommaso, del quale mandò a memoria lunghi tratti su gli argo
menti di maggiore importanza; lesse tutta la Bibbia nei commenti dell’Alapide e del Tirino, e la Storia del Vecchio e del Nuovo Testamento del Calmet; studiò la geo
grafia dei Luoghi Santi e prese larga conoscenza dei Bollandisti. Erano le opere che poteva somministrargli la biblioteca del seminario.
Tante letture non costituivano per lui un ingombrante sovraccarico intellet
tuale? No. “ La mia memoria, scrive, continuava a favorirmi, e la lettura e spiega
zione dei trattati fatte nella scuola mi bastavano per soddisfare ai miei doveri. Quindi tutte le ore stabilite per lo studio io le potevo occupare in letture diverse. I su
periori sapevano tutto e mi lasciavano libertà di farlo ” .
Infatti primeggiò sempre nelle varie classi. A ll’esame semestrale si soleva as
segnare un premio di sessanta lire a chi superava i compagni nei voti di studio e di condotta. Orbene in tutti i sei anni di seminario fu sempre Bosco il favorito.
Nel secondo annodi filosofia un competitore di grandissimo ingegno gli si agguagliò.
I superiori proposero loro di fare a metà del premio. Giovanni acconsentì; ma l ’altro, benché di famiglia molto ricca, nicchiava, volendo forse tutto per sè, più che il denaro, l ’onore. Furono quindi sottoposti a una seconda prova, nella quale Giovanni riportò la palma.
Le vacanze, che duravano quattro mesi e mezzo, gli offrivano tutto l ’agio d ’im
mergersi in studi prediletti. In quelle del 1836 ebbe una buona ventura. Gli stava molto a cuore approfondirsi nel greco, appreso discretamente nel ginnasio supe
riore, e non gli si poteva porgere occasione migliore di farlo. Il colera minacciava Torino. I gesuiti anticiparono per questo la partenza dei loro convittori dal col
legio del Carmine, conducendoli alla villeggiatura di Montaldo Torinese; ma il personale insegnante non potè allontanarsi dalla città, dovendo continuare l ’inse
gnamento agli esterni, sicché bisognò andare in cerca di professori per gli altri. Don Cafasso, consultato, propose lui per una classe di greco. Tale congiuntura lo ob
bligò a occuparsi seriamente di questa lingua, aiutato dalla preziosa compagnia di