ranze di salvarlo si attenuavano di giorno in giorno
PAGINA D’ORO NELLA STORIA DELL’ORATORIO
E
una pagina di storia, che ad altri forse piacerà meglio chiamare canto di poema; chè realmente un gran poema stava Don Bosco elaborando, divino poema della carità.
Nell’estate del 1854 un grave flagello era alle porte. Il colera, scoppiato a Ge
nova in luglio e diffusosi rapidamente nella Liguria, minacciava sul cadere del mese la città di Torino. Le notizie che giungevano dai luoghi infetti, impaurivano la gente, e durante simili morìe non c ’è la peggior cosa che star con paura. Don Bosco non volle che questa avanguardia del contagio gli portasse la perturbazione in casa;
perciò diede egli stesso ai giovani dell’ospizio l ’annuncio che il tristo malanno si approssimava. Suo scopo era di mantenerli tranquilli, e vi si adoperò con argomenti di fede. Parlò dunque loro in questo senso. — Sapete voi qual è la cagione ditali calamità? Una sola, il peccato. Se voi tutti non commetterete neppure un peccato mortale, non temete, il colera non vi toccherà. Porterete pure al collo una me
daglia di Maria Santissima, che io benedirò e vi distribuirò; direte inoltre ogni giorno un Pater, A v e e Qloria con l’Oremus di S. Luigi, aggiungendo la giacula
toria: A b omni malo libera nos, D om ine.
Stabilita la calma negli animi, prese le precauzioni imposte dall’igiene: dare il bianco alle muraglie, diminuire il numero dei letti nei dormitori e quindi riat
tare altre camere per quest’uso, provvedere biancheria, migliorare il vitto. Erano spese che lo dissanguavano. L ’aveva bensì rifornito di denaro una terza lotteria, fatta con gli oggetti rimasti dalla prima, i quali non dovettero essere pochi, se si estrassero 214 premi; ma fu come neve al sole. E la carità pubblica, oltreché per l ’avanzarsi dell’epidemia, diminuiva sempre più per il rincaro dei viveri causato
dagli scarsi raccolti e dalla guerra russo-turca. Nondimeno l’Armonia del 10 agosto, quando si denunciavano già parecchi casi al giorno in Torino, stampò un calo
roso appello alla cittadinanza, perchè si venisse in aiuto a Don Bosco nelle sue strettezze.
Un aiuto d’altro genere gli giunse allora, imperiosamente richiesto dalle cir
costanze. Dice un proverbio che Dio manda il freddo secondo i panni; ma tal
volta bisognerebbe dire che Dio manda i panni secondo il freddo. Per governare da solo e bene un’ottantina di ragazzi interni Don Bosco faceva una vita sacrifica
tissima; nelle immimenti difficoltà poi, volendo arrivare a tutto, gli sarebbe stato necessario il dono abituale della bilocazione. Ed ecco proprio allora inviarglisi dalla Provvidenza un valoroso collaboratore nella persona di un umile sacerdote, Don Vittorio Alasonatti, maestro elementare ad Avigliana, sua terra natale. Don Bosco l ’aveva incontrato a S. Ignazio sopra Lanzo durante un corso di esercizi spirituali;
quindi a poco a poco se l ’era guadagnato talmente, che gli rese accetto l ’invito a dividere con lui le fatiche dell’Oratorio interno. I patti furono chiari: da parte di Don Alasonatti, molto lavoro e poco riposo, e da parte di Don Bosco, vitto, ve
stito e paradiso. A sì inaudite condizioni il 14 agosto quel buon prete venne a stabilirsi nell’Oratorio, assumendovi sotto l ’obbedienza di Don Bosco l ’incarico della disciplina e dell’amministrazione.
Il colera cominciava a infierire. Nella parrocchia di Borgo Dora il Municipio impiantò due lazzaretti, di uno dei quali affidò a Don Bosco l ’assistenza spirituale.
Egli per altro, non meno che Don Alasonatti, accorreva dovunque fosse richiesto.
I giovani di fronte alla terribile apparizione, col relativo incalzarsi di lugubri notizie, sarebbe stato già molto se non si fossero dati in preda a panico timore.
Invece la loro grande preoccupazione era di vivere in grazia di Dio; onde ogni sera dopo le preghiere assediavano Don Bosco per averne consigli e soluzioni di dubbi, ed egli, benché affaticato, li ascoltava a lungo senza dar segno di tedio. Ma questo non è nulla a petto di quello che si dirà.
Costava poco al Municipio aprire lazzaretti; ma il busilli stava nel trovare infermieri. Non c ’era paga che valesse ad accaparrarne un numero sufficiente. Preti, religiosi e suore si dedicavano al caritatevole ufficio, ma al bisogno bastavano solo in parte. Quanti infelici languivano e morivano nell’abbandono! Don Bosco de
scrisse ai giovani le infinite miserie, di cui era quotidianamente spettatore, e rap
presentò loro l ’urgenza di avere chi fosse disposto a sacrificarsi per amore del prossimo. Non predicò al deserto. Alla sua promessa d’incolumità credevano; la condizione imposta veniva adempiuta. Orbene quattordici dei più robusti diedero subito il nome alla commissione sanitaria, mettendosi a sua disposizione, per il
servizio dei colerosi; pochi giorni dopo trenta altri ne seguirono l ’esempio. Erano poveri giovani dai quindici ai sedici anni; erano consci del terrore che metteva in fuga dal letto degli appestati anche gli stretti parenti; erano testimoni dello squal
lore che regnava in città; eppure non esitarono a entrare in azione.
Andavano ordinariamente dove giorno per giorno Don Bosco li destinava, o in pubblici lazzaretti o in case private. Qui, attenendosi per sè alle norme profilat
tiche dal medesimo insegnate, apprestavano ai colpiti le cure che da lui pure ave
vano apprese. Le prime impressioni erano state, a dir vero, poco incoraggianti. Il contorcersi delle vittime, il cadaverico lividore delle loro facce, gli occhi infossati, lo spirare fra spasimi atroci causarono da principio anche qualche svenimento;
si pensi che spesso per cacciar via dagli infermieri prezzolati la paura, occorreva inebriarli di liquori. Tuttavia non uno si ritrasse dall’opera santa. L ’esempio e la parola di Don Bosco influirono su di essi più che qualsiasi stimolante, sicché riempiva di ammirazione il vedere con quali premure servissero ognuno il proprio infermo.
A ll’Oratorio tornavano solo per pigliare un boccone. Ne arrivavano a ogni ora, secondochè potevano sospendere il servizio. Mamma Margherita li sfamava e li ascoltava. Udendo di necessità estreme, cavava biancheria dalla guardaroba, finché giunse a vuotarla. U n giovane le disse del suo malato, che non aveva più un cencio per coprirsi; essa, non avendo più che prendere, gli diede una tovaglia da tavola. Un altro le riferì di parecchi sofferenti che si trovavano nelle stesse condizioni; essa ottenne dal figlio licenza di dare una tovaglia d ’altare, un amitto e un camice.
Divulgatasi in Torino la fama dell’abnegazione di quei giovani, piovevano a Don Bosco domande per averne come infermieri; anche il Municipio ricorreva a lui, perchè ne mandasse in luoghi indicati. L ’A rm onia del 16 settembre ne scrisse alti elogi. “ Questi giovani, diceva, animati dallo spirito del loro padre più che superiore, si accostano coraggiosamente ai colerosi, inspirando loro coraggio e fiducia, non solo colle parole, ma con fatti, pigliandoli per le mani, facendo le fregagioni, senza dar vista del menomo orrore o paura. Anzi, entrati in casa di un coleroso, si volgono tosto alle persone esterrefatte, confortandole a ritirarsi se hanno paura, mentre essi adempiono a tutto l ’occorrente, eccettuato che si tratti di persone del sesso minore, che in tal caso pregano che alcuno di casa resti, se non vicino al letto, almeno in luogo conveniente. Spirato il coleroso, se non è donna, compiono intorno al cadavere l ’estremo ufficio ” . Anche il Tommaseo, stabilitosi a Torino in maggio, conobbe, ammirò ed encomiò tanto eroismo. In una sua let
tera del 3 ottobre con la quale pregava Don Bosco di prestargli due volumi del Ro
smini, non si potè trattenere dallo scrivere: “ So della generosa carità esercitata da Lei e dai suoi nella malattia che minacciava specialmente i poveri della città;
e anche di ciò le debbo ringraziamenti vivissimi come cristiano
Nessuno seppe mai, se non molto tempo dopo, che il morbo fatale era pene- trato nella camera di Don Bosco. Una notte, quando già ferveva l ’opera di assi- stenza, egli si svegliò artigliato dal male. Aveva piedi e gambe assiderati e aggran
chiati ; impeti di vomito gli squassavano le viscere. Per non mettere in agitazione la casa, decise di liberarsene da sè solo. Fece anzitutto una preghiera alla Madonna.
Quindi intraprese una veementissima ginnastica degli arti superiori e inferiori, la quale gl’immerse tutto il corpo in un profluvio di sudore. Spossato, s’addormentò, svegliandosi al mattino in condizioni normali.
Verso il medesimo tempo un altro episodio di natura ben differente afflisse dapprima e poi consolò il cuore di Don Bosco. Uno de’ suoi più animosi giovani infermieri era il sedicenne' Giovanni Cagliero. Egli l ’aveva menato all’Oratorio da Castelnuovo nelPautunno del 1851. Nell’esercizio della grande carità Cagliero con- trasse un’infezione tifoidea, che sul finire di settembre lo ridusse agli estremi. I medici dichiararono il caso disperato. L’amico Buzzetti lo avvertì del pericolo e Don Bosco si recò da lui per disporlo a ben morire. Ma quale sorpresa ve lo at- tendeva! Appena messo piede sulla soglia della camera, vide una colomba lumi
nosa, che, recando nel becco un rametto d’olivo, fece un volo tondo e posatasi sul capezzale sfiorò con la frondicella le labbra dell’infermo, lasciandogliela poi cadere sul capo; infine folgorò d’un lampo abbagliante e sparì. Don Bosco s’a
vanza; ma ecco una seconda visione. Scomparse le pareti, figure strane di selvaggi si accostano al letto, fissano lo sguardo nel morente e sembrano invocare soccorso.
Spiccano sul gruppo due individui curvi sul giovane, uno deforme e nerastro, l’altro di statura e membra atletiche e dal colore di rame. Poi tutto si dileguò.
Entrambe le scene si svolsero rapidamente come le proiezioni sullo schermo cine
matografico, nè alcuno dei presenti si accorse di nulla.
Per allora Don Bosco credette di comprendere chiaramente che la morte non sarebbe venuta, e confusamente argomentò che la vita del suo alunno sarebbe stata una vita di apostolato. Quindi, avvicinatosi al giovane, gli domandò se pre
ferisse andare subito in paradiso o guarire e aspettare. — Quello che è meglio per me — fu la risposta. E Don Bosco: — Per te sarebbe meglio andare in para
diso ora che sei giovane. Ma il Signore ha disposto diversamente. Ci sono molte cose da fare. Guarirai, diverrai prete e col tuo breviario sotto il braccio ne avrai da fare dei giri!
Cagliero, che si sentiva la coscienza tranquilla, disse che dunque si sarebbe
confessato quando fosse fuori di letto, nè si parlò più di sacramenti. Stava per entrare nella convalescenza, quando un grappolo d ’uva recatogli da parenti lo ri
piombò nel male con sintomi peggiori di prima. Di nuovo però contro ogni spe
ranza si riebbe. La guarigione volle il suo tempo, ma fu perfetta. Di qui innanzi avremo più volte occasione d ’incontrarlo.
Al cessare dell’epidemia, l ’ospizio dell’Oratorio albergava trentasei ricoverati
■di più, senza dover piangere neppure un decesso.
L ’aumento era effetto del colera. Fanciulli poveri in buon numero, resi im
provvisamente orfani, movevano a pietà. Don Bosco in un giorno solo ne raccolse ben sedici, che condusse con sè e allogò nella sua casa. Il Municipio, che aveva
•dovuto improvvisare un orfanotrofio presso la chiesa di S. Domenico, cercava chi volesse curare l ’istruzione degli orfanelli. Don Bosco vi si profferse e ne fu con gratitudine incaricato, sicché in seguito divideva il suo tempo fra l ’Oratorio, i co
lerosi e l ’orfanotrofio municipale. Chiuso poi questo in dicembre e distribuiti i fanciulli in vari istituti di beneficenza, venti dei più piccoli toccarono a Don Bo
sco, che ne formò una classe a parte.
Non si può dire certamente che fosse benignità del colera la preservazione dell’Oratorio. Torino, secondo il censimento del 1847, contava appena 125.268 abitanti; il numero dei morti di colera, se pure la cifra non riuscì alquanto addo
mesticata, sommò a 2456. Uno dei quartieri più flagellati fu proprio quello di Valdocco; basti osservare che nelle sole quattro case situate là nei pressi dell’Ora
torio, perirono quaranta persone. E abbiamo visto con che santa imprudenza i giovani si slanciassero nel pericolo. Se dunque alla promessa di Don Bosco rispose la realtà, era da saperne grado a una causa superiore.
La condotta dei giovani di Don Bosco impressionò vivamente la cittadinanza, formando oggetto di prolungati e simpatici commenti, massime fra le persone che erano in grado di apprezzarne il merito. Il fatto poi che nell’invasione generale del morbo una casa come l ’Oratorio fosse rimasta quasi un’oasi privilegiata, non parve a tutti spiegabile con un semplice e comodo ricorrere al caso. Ne conseguì naturalmente una più estesa conoscenza dell’Opera e un progressivo moltiplicarsi di benefattori.
In ottobre la mortalità ebbe termine. Don Bosco per la festa del Rosario con
dusse ai Becchi i giovani maggiormente bisognosi di svago e di aria pura. Dio ve lo aspettava per fargli un magnifico regalo. A M ondonio, villaggio confinante con Castelnuovo, viveva un giovanetto, il quale mostrava in sè più dell’angelico che dell’umano. Don Bosco appena lo vide intuì i tesori di grazia che si nascondevano in quell’anima, e lo accettò fra i suoi alunni. Così al principio del nuovo anno
scolastico entrò nell’Oratorio Domenico Savio, che sotto la direzione del Santo doveva fare mirabili ascensioni e rallegrare la casa con l ’olezzo delle sue virtù, nè già di virtù ordinarie e comuni, ma di virtù portate al grado eroico, siccome la Chiesa ha autorevolmente dichiarato.
Rimaneva un dovere a compiere, perchè il fortunoso periodo potesse consi
derarsi definitivamente chiuso: bisognava ancora rendere grazie a Dio per l’im
munità dal contagio. Venne scelto per questo un giorno solennissimo fra i solenni:
l ’8 dicembre, quello storico 8 dicembre 1854, nel quale Pio IX dal Vaticano proclamava Urbi et Orbi dogma di fede l ’immacolato Concepimento della Madre Santissima di Dio.
C A P O X V