• Non ci sono risultati.

Introduzione

L’integrazione dei piccoli produttori nei mercati è raramente messa in discus- sione come strumento di lotta alla povertà. Qui mi propongo di analizzare questa strategia più da vicino, guardando le relazioni di produzione attraverso il pun- to di vista delle donne contadine: questo punto di vista permette di mettere in luce alcuni vincoli all’espansione della commercializzazione della produzione del settore agricolo familiare, e la distribuzione dei benefici della partecipazione al mercato. Lo studio di caso che presento è stato condotto in Mozambico, in con- testi rurali e peri-urbani. Il caso mozambicano, come vedremo poco oltre, è par- ticolarmente interessante per studiare le implicazioni di strategie che declinano la lotta alla povertà come esigenza di integrazione nei mercati. Si tratta di un Paese che conosce da alcuni anni elevati tassi di crescita (7,2% nel 2011, che è anche la media degli ultimi dieci anni) e un forte aumento degli investimenti diretti esteri, soprattutto nel settore estrattivo che è in rapida espansione. Come approfondire- mo, esiste un problema profondo di distribuzione dell’aumentata ricchezza.

Obiettivo di questo saggio è analizzare quali siano i vincoli alle politiche volte a ‘integrare i contadini nei mercati’1 quando si osserva questo processo attraverso una lente di genere, e sui benefici ineguali che ne possono derivare. Il discorso corrente sulle strategie di lotta alla povertà, sia a livello internazionale, sia nel dibattito pubblico mozambicano, è centrato sull’inquadramento della povertà come distanza dal ‘mercato’, ovvero dall’accesso alla vendita dei prodotti e alla specializzazione in colture di rendimento. Favorire questo accesso è una compo- nente centrale delle attuali politiche di lotta alla povertà e di empowerment delle donne. In particolare, intendo rimettere in discussione l’immagine delle contadi- ne mozambicane come scollegate dai mercati.

1 Per un’analisi, delle politiche a livello internazionale e nel caso mozambicano si veda Pellizzoli in

Inoltre, guardare i mercati rurali attraverso la lente della condizione delle don- ne mette in luce alcuni squilibri. Innanzitutto impone di guardare dal lato della domanda: per chi si produce? I mercati locali sono limitati da diversi fattori. Tra questi un elemento significativo è il rischio che l’affidamento al mercato come acquirenti di beni alimentari comporta, ovvero l’esposizione alla variabilità dei prezzi e al forte potere di mercato del commerciante. Questa osservazione mette in relazione ciò che avviene su tre mercati diversi, che è opportuno distinguere: da un lato, il mercato nazionale e locale dei beni alimentari; dall’altro, il merca- to delle colture di rendimento (sempre più caratterizzato da forme contrattuali stipulate tra piccoli produttori locali e investitori privati) e, infine il mercato del lavoro in ambito rurale. Più avanti in questo articolo mi occupo di mettere in luce queste relazioni.

Un’altra questione rilevante che emerge dal lavoro svolto nel corso della ricer- ca Iao/Gender è: chi ‘può permettersi’ il mercato? Non tutti beneficiano dalla

vendita dei prodotti agricoli: chi beneficia è generalmente chi dispone di mezzi già in partenza superiori agli altri; questo implica che la partecipazione al mercato per la vendita dei propri prodotti abbia spesso l’effetto di amplificare le disugua- glianze esistenti. Quali reti e quali forme dell’azione collettiva possono interveni- re in questo quadro? Nella sezione finale propongo alcune riflessioni sull’associa- zionismo contadino, sia nella sua capacità di fornire risposte ai problemi sollevati, sia per quanto riguarda i nodi problematici che presenta.

‘Integrare i contadini nei mercati’: il contesto di policy e il quadro mozambicano

L’attuale orientamento di politica economica in Mozambico è dominato dall’esigenza di ‘integrare i piccoli produttori nei mercati’. Cosa si intende con questa espressione è complesso e potenzialmente ambiguo; in estrema sintesi possiamo dire che l’obiettivo è quello di favorire un maggiore orientamento del mondo contadino mozambicano alla commercializzazione dei prodotti e alla pro- duzione di cash crops, promuovendo principalmente partenariati con il settore privato dell’agribusiness.

In Mozambico è evidente la forte discrepanza tra la quota di popolazione im- piegata in agricoltura (75%) e la quota della produzione agricola sul Pil (20%)

(Ingrao 2010), che mette in evidenza la bassa produttività del settore primario. Re- centi rilevazioni mettono inoltre in luce la mancata riduzione della povertà nell’ul- timo decennio: il rapporto della terza rilevazione nazionale sulla povertà, redatta dal Ministero per la pianificazione e lo sviluppo, evidenzia che la riduzione della povertà, visibile tra il 1996 e il 2002, non continua tra il 2002 e il 2008; altri lavori indicano una situazione ancora più grave di pauperizzazione proprio nei contesti rurali (Cunguara, Hanlon 2010; Francisco, Muhorro 2011; Wuyts 2011).

L’accesso ai mercati rurali per i piccoli produttori 153 In estrema sintesi, si ritiene che l’integrazione nei mercati sia benefica per lo sviluppo economico principalmente perché permette di sfruttare i vantaggi della specializzazione produttiva e delle conseguenti economie di scala, oltre che di favorire la diffusione di innovazioni. Sono questi i presupposti che sono stati alla base delle liberalizzazioni dei mercati agricoli nei Paesi in via di sviluppo, messe in atto a partire dalla metà degli anni ’80. In Mozambico, questo processo inizia con il primo Programma di Aggiustamento Strutturale del 1987 e questa rimane la linea prevalente tutt’ora: per accennare ai testi più recenti, l’ultimo Poverty

Reduction Strategy Paper (RoM 2011) si propone di individuare politiche al fine

di assistere “i piccoli produttori agricoli nella loro graduale transizione all’attività commerciale”, dal momento che “la mancanza di opportunità di commercializ- zazione dei prodotti agricoli e della pesca costituisce il principale disincentivo all’intensificazione della produzione e limita la crescita dei redditi delle famiglie agricole” (RoM 2011: 11).

Come si è visto, l’idea di fondo è che la povertà sia principalmente espressio- ne di ‘esclusione dai mercati’ e che questo sia alla base della mancata produzione di surplus che possa permettere dinamiche di accumulazione. La possibilità di espandere la produzione tramite l’incentivo alla vendita è considerata strumento di empowerment anche per le donne, che giocano in Mozambico un ruolo im- portantissimo nella produzione agricola, senza però riconoscimento ‘imprendi- toriale’.

I limiti di questo approccio: cosa ci dice la letteratura

Una critica di fondo a tale approccio è mossa da O’Laughlin (2001), pro- prio a partire dal caso mozambicano: la descrizione del mondo rurale mozam- bicano come scollegato dai mercati è lontana dalla realtà e foriera di indicazioni politiche distorte, laddove invece i produttori combinano strategie monetarie e non-monetarie di produzione e risparmio, e le famiglie rurali includono, tra gli strumenti della sussistenza, anche il ricorso al mercato. È l’approccio stesso, oggi dominante presso le istituzioni finanziarie internazionali, presso molti governi e le principali agenzie di sviluppo, a definire ‘poveri’ coloro che sono esclusi dal mer- cato e quindi a orientare le politiche di lotta alla povertà verso un ampliamento del raggio d’azione dei mercati.

La letteratura economica si è interrogata sulle determinanti della partecipa- zione al mercato (ovvero della scelta di commercializzare i prodotti) da parte dei piccoli produttori. È ampiamente riconosciuto, infatti, che, almeno in Africa sub- sahariana, le politiche di liberalizzazione dei mercati agricoli non abbiano pro- dotto i risultati sperati: sia il passaggio alla produzione di cash crops, sia la com- mercializzazione di food crop si sono diffuse molto meno del previsto. Non solo:

i benefici della partecipazione al mercato sono distribuiti in modo estremamente diseguale ed esistono numerosi ostacoli che possono comportare l’esclusione di alcuni produttori dall’accesso all’agricoltura commerciale.

Lo strumento più utilizzato in questa analisi è quello dei costi di transazione, che porta a vedere come ‘razionale’ per i produttori la scelta di limitare la ven- dita dei prodotti (così come il passaggio da food crops a cash crops) a causa di fallimenti del mercato sui mercati del cibo e del lavoro (De Janvry et al. 1991). Le “imperfezioni” di questi mercati spiegano almeno in parte la mancata risposta dei contadini agli incentivi dati dai prezzi (la ridotta elasticità rispetto al prezzo della loro offerta di prodotti agricoli). Innanzitutto, l’aspettativa di una reazione positiva all’andamento dei prezzi dei beni alimentari presuppone che il mondo contadino sia composto da venditori netti di prodotti agricoli. Per quanto riguar- da i prodotti base dell’alimentazione, spesso questo non corrisponde alla realtà: i produttori sono in realtà molto spesso compratori netti (Barrett 2008). Jayne (1994) identifica negli elevati costi della commercializzazione la ragione del fat- to che tutti coloro che sono acquirenti netti di prodotti alimentari non hanno convenienza a spostare la produzione verso cash crops, mentre questa conviene a coloro che già riescono a produrre surplus alimentare2: la scelta di produrre per il mercato dipende dal suo costo-opportunità, ovvero la rinuncia all’autoconsu- mo, che è tanto più elevata quanto è alta la differenza tra il costo di produzione del prodotto alimentare e il suo costo sul mercato. Questa differenza è data dai costi della commercializzazione (Haltberg, Tarp 2002) e al costo legato al potere di mercato dei commercianti agricoli nelle aree rurali. Quest’ultimo è un altro importante fattore che limita i guadagni dei produttori (Barrett 2008)3.

Un secondo grande tema è quello dell’esposizione al rischio che l’affidamento ai mercati comporta. Dove la variabilità dei prezzi sui mercati è elevata, l’au- toconsumo diventa una scelta migliore al fine della sicurezza alimentare (Fafc- hamps 1992; sul caso mozambicano Hanlon 2007). Numerosi autori rilevano em- piricamente come esista un minimo livello di dotazione iniziale di risorse (beni posseduti, ricchezza accumulata, disponibilità di fattori della produzione, come terra e possibilità di impiegare manodopera), che è necessario perché un produt- tore partecipi in modo proficuo alla commercializzazione: Benfica et al. (2006), Boughton et al. (2007) e Salvucci (2010) applicano questo approccio al caso mo- zambicano, rilevando effettivamente una correlazione positiva tra la capacità di partecipare alla vendita di prodotti agricoli e la disponibilità di beni e risorse da mettere a frutto. Si tratta di argomenti che contribuiscono a spiegare il fatto che

2 L’autore rileva che, in Zimbabwe, i venditori netti di cereali alimentari sono coloro che riescono

ad entrare nel mercato di rendimento delle oleaginose.

3 Si tratta di un argomento più volte sollevato nel caso stesso del Mozambico, tra gli altri da Salvucci

L’accesso ai mercati rurali per i piccoli produttori 155 una parte dei produttori sia esclusa dai benefici della partecipazione ai mercati e che, quindi, adotti strategie che fanno maggiore affidamento sull’autoconsumo. Anche questa però non è una strategia accessibile a tutti: Salvucci (2010) rileva come tra i produttori più poveri la quota di prodotto venduto aumenti. Questo dipende dall’obbligo di vendere la produzione per assenza di srutture di stoccag- gio: in questi casi, la partecipazione al mercato è un segnale di vulnerabilità e non di emersione dalla povertà.

È spesso riscontrato che le donne tendono a partecipare meno ad attività di commercializzazione di prodotti agricoli, sia da analisi individuali (Evers, Walters, 2000), sia guardando agli aggregati familiari con capofamiglia donna (Boughton

et al. 2007; Evers e Walters (2000) imputano questa differenza alla dimensione

di genere di molti vincoli: i costi di trasporto, che sono spesso più elevati per le donne, ad esempio per la frequente assenza di un mezzo proprio, , la sicurezza dei diritti di proprietà su terra e attività produttive, la scomparsa di alcune forme di organizzazione collettiva che avevano un positivo impatto sulla condizione delle produttrici4. Cambiamenti come quest’ultimo sono legati alla progressiva libera- lizzazione dei settori agricoli dei paesi in via di sviluppo e agli effetti delle linee di politica economica improntate all’aggiustamento strutturale: Evers e Walters (2001) sottolineano come i costi di queste scelte siano portati in misura maggiore dalle donne, dal momento che i piccoli produttori vengono spinti ad aumentare le attività rivolte alla vendita (in particolare per l’esportazione), senza però che possa diminuire il carico di lavoro di cura. Ritorneremo sul fatto che la produ- zione per il mercato non si accompagni a nuovi meccanismi di protezione sociale e di sicurezza alimentare e che quindi rappresenti un elemento aggiuntivo del carico di lavoro delle donne. Un altro effetto della spinta a produrre più colture di rendimento è quello di aumentare la quota in denaro del reddito familiare, che è di solito gestita dagli uomini nella famiglia, aumentando quindi il loro po- tere all’interno dell’aggregato familiare; Warner e Campbell (2000) spiegano, nel caso tanzaniano, una ridotta risposta dei produttori di fronte ad un aumento dei prezzi, attribuendola proprio alla resistenza delle donne contro un aumento della manodopera richiesta.

La possibilità di sfruttare lavoro familiare non remunerato è indicata tra i pos- sibili “vantaggi comparati” dei piccoli produttori agricoli nell’accedere a schemi di contract farming5 (Key, Runsten 1999): esiste quindi il rischio che condizioni subalterne della manodopera delle donne siano funzionali alla partecipazione del- le unità famigliari nelle filiere agricole e siano per questo più difficili da mettere in discussione. A questo si accompagna un altro dato che spesso emerge dall’analisi

4 Come il caso delle cooperative di commercializzazione in Zambia, studiate da Wold (1997). 5 Schemi in cui il produttore si impegna a fornire una quantità predefinita di prodotto a un’imprese

empirica, ovvero il minore accesso delle donne produttrici ai contratti con gli investitori privati e/o il minore guadagno che queste ne traggono: proprio in Mo- zambico, questo è rilevato da Benfica et al. (2006) e da Boughton et al. (2007), nel caso degli aggregati familiari con capofamiglia donne.

Vite scollegate dai mercati? Qualche riflessione a partire dalle condizioni delle donne contadine incontrate nella ricerca6

Le politiche discusse in precedenza fanno spesso genericamente riferimento al ‘mercato’, come se si trattasse di un meccanismo neutro e sempre uguale, indi- pendentemente dal tipo di transazioni che descrive. Se questo è indubbiamente legato anche a una prospettiva epistemologica all’interno della disciplina eco- nomica, è tuttavia importante che sia messo in discussione, dal momento che, invece, diversi mercati funzionano in modo diverso, sia per le caratteristiche che li distinguono (più o meno competitivi, più o meno regolati, più o meno equilibrati per potere delle parti e di informazione, più o meno ampi, ecc.), ma anche in termini di conseguenze per le persone che vi operano e che sono attori (o oggetti, come nel caso del mercato del lavoro) degli scambi. Nel corso di questo lavoro, ho preso in esame almeno tre mercati diversi: quello locale di beni agricoli di uso

6 Le interviste con donne contadine che abbiamo effettuato durante la ricerca sono state 16 (per la

maggior parte collettive, ma condotte solo in presenza di donne), nelle province di Maputo, Sofala e Manica. Abbiamo incontrato inoltre altri attori del contesto rurale mozambicano: responsabili di associazioni contadine; funzionari dell’amministrazione pubblica, sia a livello centrale sia a livello locale, e operatori di enti pubblici nel settore dello sviluppo rurale; responsabili ed esperti della Cooperazione Italiana in Mozambico e di Ong italiane con progetti nelle aree interessate; respon-

sabili di interventi di cooperazione internazionale diverse da quella italiana; responsabili e tecnici di campo di ong mozambicane e straniere; ricercatori esperti di dinamiche di genere e di sviluppo

rurale; imprenditori e commercianti di alcune filiere agricole. Inoltre, particolare attenzione è stata rivolta al terreno su cui interviene il programma padr-pssr (Programma di Sostegno allo Sviluppo

Rurale nelle province di Manica e Sofala), della Cooperazione Italiana, sulla cui documentazione è stata inoltre condotta parte dell’analisi. Si tratta di un programma articolato in tre componenti: la prima ha come obiettivo l’incremento delle attività generatrici di reddito per il settore agricolo familiare piccolo e medio e per le associazioni di produttori, i trasformatori e i commercianti legati alle produzioni agrozootecniche e forestali; la seconda si propone il miglioramento delle capacità di programmazione economica e territoriale a livello di Distretti e Province, con la partecipazione delle organizzazioni di base; la terza ha come obiettivo una gestione migliore e sostenibile delle ri- sorse naturali (terra e foreste). La prima componente, che è la più vicina ai temi dalla nostra analisi, prevede attività di servizio agli imprenditori (tramite la costruzione di infrastrutture di trasforma- zione dei prodotti agricoli) e di collegamento tra questi e i produttori locali, al fine di sostenere lo sviluppo dell’agricoltura commerciale, in particolare in alcune filiere. Accanto a questo è previsto un programma di diffusione del credito e attività di capacity building per il Cepagri (l’ente mozam-

L’accesso ai mercati rurali per i piccoli produttori 157 alimentare, quello delle colture di rendimento, regolato da contratti con gli inve- stitori privati, e quello del lavoro in ambito rurale.

Considero innanzitutto il primo, che ci permette di affrontare il tema del- la relazione tra mercato e sussistenza, tra ‘produrre per mangiare’ e ‘produrre per vendere’. Guardare questi processi attraverso interviste con donne contadine mette innanzitutto in luce il bisogno di allontanarsi dall’immagine stereotipata delle donne come soggetti sconnessi dai mercati: il fatto che le donne siano re- sponsabili della sussistenza e della produzione nel campo familiare non significa che non entrino sistematicamente in relazione con il mercato del beni alimentari, dei beni di consumo, degli input agricoli.

Le donne intervistate mostrano, sì, una chiara strategia di bilancio familiare nella produzione e nella vendita: molte dicono di negoziare con il marito la pos- sibilità di tenere una parte maggiore del prodotto per autoconsumo, oppure di negoziare che il marito non venda al momento del raccolto, ma aspetti termini di scambio più favorevoli. Testimonianze riportano che l’adozione di tecnologie da parte delle donne sia diversa da quella degli uomini, proprio al fine di evitare un eccesso di commercializzazione della produzione, che andrebbe a scapito della produzione per consumo familiare7. Le strategie di livelihood prevedono però una relazione con il mercato. Esistono diversi scenari possibili in termini di rela- zione tra produzione per il consumo familiare e per la vendita: chi “prende una latta dal sacco del mais”8 da vendere solo in caso di necessità9, chi vende l’ecce- dente rispetto al cibo, chi vende i pezzi migliori, tenendo il resto per sé, chi decide all’inizio della campagna quanta terra va per la vendita e quanto per il consumo, chi, man mano che raccoglie, vende una parte.

Il lavoro nei campi è principalmente compito femminile. Dalla nostra osser- vazione (coerentemente con parte della letteratura esistente, ad es. Waterhouse, Vijfhuizen 2001) emerge una componente di sfruttamento del lavoro delle donne nelle relazioni di produzione in agricoltura: a fronte della responsabilità del la- voro nel campo familiare, le donne difficilmente ne controllano l’output, special- mente quando questo dà luogo a entrate cash. Questo non significa, chiaramen- te, che non esistano processi di negoziazione, autonomia e resistenza. Presso la Direzione per la Donna e l’Azione Sociale della Provincia di Sofala la situazione

7 A. C., Instituto de Investigação Agrária de Moçambique, Maputo, 19/9/2011. Un esempio è quello

del milho matuba (una varietà di mais migliorato), che è più frequentemente adottato dagli uomini per i rendimenti in termini di commercializzazione, e più raramente dalle donne, che invece optano generalmente per varietà più adatte al consumo. Un altro caso interessante, rilevato dalle formatrici iiaM è quello del tentativo di introdurre una nuova varietà di fagioli nella provincia di Gaza, che non

è stata adottata dalle donne per paura che i mariti aumentassero la quota di prodotto venduta.

8 M., Chitunga, Manica, 6 settembre 2011.

9 Per necessità si intendono eventi non eccezionali, ma in cui c’è bisogno di reddito in denaro, come

che ci viene descritta è quella di donne che producono per gli uomini che sono ‘manager’, esperti, gestori della vendita e dei soldi, e portatori di innovazioni. Questa osservazione è però in parziale contraddizione con quanto emerge dalle interviste con donne vedove, che dichiarano di gestire meglio l’attività produtti- va10 da quando sono sole. Un’osservazione ricorrente è che l’output in natura (la produzione non venduta) sia più facilmente appropriabile dalle donne rispetto al reddito cash: questo fa sì che potenzialmente cresca il potere negoziale degli uomini all’aumento della parte di prodotto commercializzata, quanto più una famiglia contadina è ‘inserita nel mercato’.

Documenti correlati